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Combo (2007-2008) Anno 2008 Numero 3



Impercettibile tremore

Francesco Garutti



Rivista D'Arte Contemporanea


COMBO
Rivista d’Arte Contemporanea

Numero 3 – 2008

Dalla quarta di copertina:
Quello dell’archivio sembra il tema di Combo n. 3. E’ un archivio ideale quello che compone Baruchello, l’artista cui è dedicato questo numero: si può disporre secondo idee-parole chiave quanto ha realizzato in cinquant’anni, basando l’identità su attitudini piuttosto che su riconoscibilità formali, secondo modalità ricorrenti in tempi recenti. E’ meravigliosamente fondato su materiali di archivio il cinema di Alina Marazzi. Tre progetti di opere irrealizzate, utilizzati per presentare careof, sono stati selezionati dal suo grande archivio.
In effetti è il tema della città che ha orientato il numero: la città oggi, intesa nel senso più ampio, soprattutto per ciò che contiene e sviluppa in visioni, azioni, rapporti. Non si è potuto fare a meno di intenderla dal piano globale a quello locale, dalla megalopoli al quartiere.
Per la letteratura e le arti visive, un intellettuale da considerare profondamente è Emilio Villa. Aldo Tagliaferri ha gentilmente concesso la ripubblicazione di un suo scritto, apparso per la prima volta nel 1990, quando nuovi poeti individuavano in Villa una figura di riferimento.


ARGOMENTI E AUTORI:

IMPERCETTIBILE TREMORE
di Francesco Garutti

AMERICA LATINA Megacittà e nuovi spazi per la produzione del comune
di Alessandra Poggianti

IMAGINEERING CALIFORNIA Prigionieri del sogno americano
di Laura Ruggeri

MAPPING LAMBROOKLYN La comunità della pool al Parco Lambro
di Chiara Leoni

GIANFRANCO BARUCHELLO/PAROLE CHIAVE
Conversazione con Carla Subrizi

USO E MANUTENZIONE
di Gianfranco Baruchello

BARUCHELLO
di Jean-François Lyotard

JAN FABRE La mostra al Louvre
di Daniela Zangrando

OLIVETTI SINTESI Su Adriano Olivetti
di Domenico Papa

RICCARDO BENASSI/SMARRIMENTO GUIDATO
Conversazione con Marco Tagliafierro

ALINA MARAZZI/ARCHIVI D’IMMAGINI Intervista alla regista
di Giovanni Giaretta

CAREOF Spazio non profit per l’arte a Milano
di Chiara Agnello

PARADOSSI VILLIANI
di Giulio Ciavoliello

OCCASIONI VILLIANE
di Aldo Tagliaferri
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Musei attrazione
Giulio Ciavoliello
n. 2

Fra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta
Emanuela De Cecco
n. 1 autunno 2007

In principio era BEAUBOURG
Giulio Ciavoliello
n. 2

Fattibile
Alessandra Poggianti
n. 1 autunno 2007

Francesco Vezzoli
THE AWFUL TRUTH!

Caroline Corbetta
n. 0 estate 2007


TM Sisters
Stills from Fomercial
images from Awesome-ish.blogspot.com

“Become a tourist in your own city and get lost”, dice la voce fuoricampo mentre la telecamera zoomma su alcuni ragazzini che giocano a calcio in un campetto di erba e fango.
Oliver Payne e Nick Relph ci invitano a seguirli in uno dei loro viaggi psico-geografici tra il centro e i sobborghi di Londra. Il breve film si intitola Driftwood (1999), cioè pezzi di legno trasportati dalla corrente, alla deriva.
Non credo ci sia immagine più appropriata per descrivere il modo in cui i due giovani artisti inglesi raccontano e vivono la città e i suoi bordi. Traggono ispirazione da quello che loro definiscono il “power dossing”, perdere tempo vagando senza una meta precisa, girovagare quotidianamente per i centri commerciali britannici con modi da flâneur baudelairiani, chiacchierando, scherzando, lasciandosi condurre da quell’eterogenea e densa miscela di immagini e cose che è la città diffusa, lo sprawl.
Forse perdere l’orientamento è paradossalmente il modo migliore per capire che cosa sta accadendo, individuarsi per indeterminazione è una delle chiavi di lettura più interessanti per riconoscere certi fenomeni urbani e sociali. Abbandonarsi allo scorrere del magma pulsante della periferia, in cui si sono sciolti e fusi tra loro personaggi, icone e sistemi apparentemente lontani come la TV commerciale e la natura selvaggia dei sobborghi, ci consente di capire quanto e in che modo la società contemporanea, e la città con essa, stia ridisegnando certi suoi limiti e confini.
Il lavoro di Payne e Relph produce esiti narrativi e figurativi seducenti e in grado di proporsi come sintesi di un certo mondo. Video e film, collage, elenchi infiniti di personaggi tv o cartoon, polaroid di angoli nascosti di città, suoni e canzoni registrate nei garage o nelle camere da letto di West London, vagoni dell'underground londinese grondanti di vernice spray hot pink, compongono un affresco preciso. Ma forse il punto è un altro.
Sembra quasi che la periferia stessa, da spazio urbano fisico e reale ai margini delle nostre città, si stia in qualche modo trasformando. Sempre meno riconoscibile nei suoi limiti tangibili sembra essersi dissolta o meglio, sembra che sia in atto un passaggio di stato in senso chimico. Da luogo concreto nel quale vivere e abitare, il senso della periferia è evaporato divenendo un sistema di pensiero. Un modo per guardare il mondo.
Se dovessi scegliere uno strumento d’analisi, un sistema descrittivo in grado di disegnare il “passaggio di stato” di cui sopra dicevamo, questo non avrebbe senz’altro una forma rigorosa, sistematica e metodologica, ma narrativa e romanzata a metà tra un racconto di Balzac e un cinguettante microblog. Forse sarebbe un arazzo dal “rovescio” indecifrabile, tessuto fittamente, e in grado di rivelare le sue cronache e storie solo all’occhio capace di perdersi tra le sue infinite trame e di seguirne le fila.
Cerco di spiegarmi.
In urbanistica la gerarchia tra centro e contorno ha perso ogni tipo di significato. I mutamenti economici, politici e tecnologici hanno radicalmente cambiato i nostri sistemi di relazione, modificato le modalità attraverso le quali acquisire informazioni per qualità e quantità e deformato i sistemi per la lettura del territorio. Il concetto di “superluogo”, introdotto da Stefano Boeri, che segue al “non-luogo” di Marc Augè, è un esempio tangibile. Le città di nuova fondazione in Cina, fenomeni come Dubai o i recentissimi centri dell’Arizona sorti improvvisamente nel deserto per ragioni economiche, sono dimostrazioni evidenti di come si sia definitivamente innescato un differente approccio nella concezione dei luoghi dell’abitare e della società presente e futura.

(Passando per Piccadilly sto attraversando il centro di qualcosa? Non ne ho più per nulla la percezione…)

Possiamo servirci, per definire la periferia come parte di città, di alcuni caratteri comuni, di certi modi di agire: atteggiamenti sociali che, accostati gli uni agli altri, riescono a delineare in modo chiaro i tratti distintivi di queste aree. L’isotropia, il riuso, l’anonimato, la campionatura, editare e non produrre, il riciclo, la dispersione, il propagarsi infinito di oggetti e informazioni, sono tutti temi che, per atmosfera di significato, possiamo quasi dire “nascano” e appartengano a un immaginario legato alla periferia stessa. Ci accorgiamo però facilmente che questi concetti e “modelli”, sono in realtà argomenti e temi cruciali sui quali sembrano poggiarsi la società e il mondo contemporaneo. Un modello spaziale sembra sublimare in una teoria e viceversa.
Così come per la casa dell’800, nella quale l’apparizione di atri, corridoi, disimpegni e salotti di rappresentanza, assecondava e contribuiva alla nascita del modello culturale borghese, anche la struttura fisica del denso magma della periferia ha prodotto e sta partecipando alla nascita di un nuovo sistema culturale.
È rivelatrice in questo senso l’immagine dell’"aureola” che Giorgio Agamben spiega e racconta nella “Comunità che viene”, 2001. L’aureola descritta dal filosofo è un’immagine che in qualche modo si adatta perfettamente a una similitudine con la città e i suoi bordi.
“Essa è il luogo in cui potenza e atto, possibilità e realtà diventano indistinguibili.” L’aureola-periferia è raccontata come “un impercettibile tremore, un tenue fremito del finito che non ha forma, ma che circonda la materia.” Un actus confusionis in cui la forma o la natura non si conservano, ma si confondono e si sciolgono senza residui in una “nuova nascita”.
Il tremare luminoso è senz’altro metafora di un fertile pulsare; forma ed essenza si confondono, le gerarchie e gli episodi si mischiano e rimescolano.
Possiamo selezionare informazioni e notizie in modo sempre più personale. Scegliere cosa è grande e cosa è piccolo, cosa è importante e cosa non lo è. Cronache private e quotidiane si possono trasformare in racconti carichi di simboli e di potere magico. Le minuscole storie di quartiere possono diventare leggende, i piccoli racconti acquistano la potenza di favole di grande suggestione. La periferia è in realtà una massa fusa in cui si sono liquefatte infinite microavventure, piccole vicende private che, propagandosi, possono diventare simboli pop, icone, miti al limite tra mondo pubblico e privato.
La vicenda del famoso writer londinese Tox, raccontata da Oliver Payne in un testo del 2005 “Our Yards” (“Nostri Cortili”), è una storia appassionante, malinconica e durissima. Payne compone una sorta di vibrante dialogo accostando estratti dai blog della polizia e brani scritti dai writers. L’intreccio delle loro parole svela al lettore un mondo notturno fatto di segreti, di luoghi nascosti, di cancelli scavalcati sotto la minaccia delle telecamere a circuito chiuso, di trucchi per rendersi invisibili, di fughe, insulti e vandalismi, di ore passate in silenzio senza muovere un muscolo ad aspettare che i guardiani si allontanino per lasciare un proprio segno; un marchio sulle carrozze della metropolitana che, solo all’alba, si sveleranno agli occhi della polizia, grondanti di colore e rabbia.

Immagino di poter intersecare e montare subito dopo la storia di Tox le immagini descritte dall’ultimo libro dell’artista americano Seth Price. Il racconto è un vero e proprio manuale per cercare di scomparire tra le pieghe della città contemporanea, ipercontrollata e mercificata.
Price, in “How to disappear in America” (2008), pubblicato in occasione della sua ultima mostra alla Friedrich Petzel Gallery di New York, elenca in modo dettagliato strategie, suggerimenti tecnici, luoghi e rotte, per far perdere le proprie tracce all’interno delle infinite città-territorio americane. Utilizzare Mailbox etc.per aprire conti in banche fantasma, distruggere o nascondere la propria auto, cosa mangiare, come non lasciare tracce nelle camere d’albergo, come procurarsi il denaro senza essere registrati, dove nascondersi, se e come recuperare un’arma.

La città è un territorio spaventoso e silenzioso, che ci guarda e ci controlla. “Prova ad immaginare” dice Price al lettore, "prova a immaginare tutto questo per amore di finzione... ”.
Il tema della città fantasma, scenario doloroso e metafisico, mi riporta per un attimo nei sobborghi londinesi. Liam Gillick e Thomas Mulcaire, scattano 88 foto di Thamesmead, la piccola cittadina satellite costruita sul Tamigi, nella quale Kubrick girò “Clockwork Orange” alla fine degli anni ’60. Le immagini vengono raccolte per un calendario prodotto dalla Kunsthaus di Glarus nel 1999. “Pain in a Building/Schmerz in einem Gebäude/Douleur dans un immeuble” diventa un piccolo oggetto d’uso quotidiano, dal sapore domestico seppure fortemente inquieto.

Accompagnati dalla potentissima musica heavy metal dei Part Chimps ci allontaniamo dalla metropoli inglese, dirigendoci ancora più a sud, seguendo i passi di Spartacus Chetwynd in “Walk to Dover”, 2005. Spartacus cammina insieme a due attori-amici per sette giorni da Londra a Dover, ripercorrendo la spedizione che Dickens fece fare a David Copperfield nell’omonimo romanzo del 1850. Senza soldi, senza carte di credito e indossando costumi simil ottocenteschi disegnati dall’artista stessa, i tre personaggi viaggiano per i sobborghi, cercando cibo e frutta sugli alberi, passando attraverso proprietà private, incontrando persone e superando villaggi, abbeverandosi nei ruscelli e dormendo in campagna sotto gli alberi o nascosti nei cespugli. La metafora sociale dickensiana si sovrappone a una surreale esplorazione contemporanea dei bordi della città, al limite tra antropologia e pittura.

Perlustrando il mondo delle metropoli diffuse, finiamo in una stanza americana. In un interno assolato di Miami in cui le TM Sisters accumulano fanzines, volantini fotocopiati, vestiti cuciti a mano, dvd musicali autoprodotti, collages, xerografie e immagini estratte da videogame disegnati da loro. Scrivono e raccontano di super poteri spirituali, disegnano e compongono raggi di luce divina e musica punk; cresciute, allevate e istruite in casa da un pastore - poi divenuto psicoterapeuta e professore - producono ogni loro lavoro con modi domestici (Do-it-yourself!) insieme a un folto gruppo di amici. Horror vacui, un paesaggio interno disegnato a pennarello, editato al computer e spalmato di brillantini, per raccontare forze fantastiche, movimenti ed energie luminose nella relazione tra cielo e terra.
Le camere da letto dei teenager americani sono dense più del cuore denso della città.
Un orizzonte rosso, fili della luce e uccelli blu.