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Rodeo (2009) Anno 7 Numero 57 estate 2009



Raf Simons on jil sander

Riccardo Conti

and creative inspirations





16 Shot! Adam Kimmel
18 Moda News
22 Moda Richard Nicoll
36 Blogger JD Ferguson
38 Moda UNDERCOVER
40 Moda Barnabè Hardy
42 Moda Eastpak vs. Rick Owens
44 Moda Raf Simons on Jil Sander
52 MODA ALESSIA GIACOBINO
54 Shot! The Virgins
56 Arte News
57 Arte Arto Lindsay
60 Arte Vanessa Beecroft
62 Fotografia Barbara Probst
72 Travel Vinoir
74 Design Sou Fujimoto
76 Architettura Prada Transformer
78 Travel Beirut
81 Pin-up
86 Design Report Fuorisalone
88 Musica News
89 Musica Scott Matthew
94 Musica Phoenix
96 Leggere David Bowie
99 Arte Mike Mills
100 Musica News
101 Musica Super Furry Animals
102 Shot! Chew Lips
103 I Tre Dischi del Mese
104 8 Dischi
106 Cinema Baz Luhrmann
107 Cinema Emily Browning
108 Cinema News
109 Cinema Peter Fonda
110 Shot! RYAN PICKARD
150 English Text
156 Leggere
157 Uscire I Valori dell’Italia
158 Uscire Parigi by Jerry Bouthier
159 Uscire Festival
160Calendario
161L’oroscopo

Moda
24 Stile
26 28°: Steeve Beckouet / Yang Hartono.
43 Bellezza

fotografia
64 IS nature my own way:
Mark Borthswick
Moda
112 one: Nagi Sakai / Jason Leung.
120 two: Ola Bergengren / Sam Logan.
126 three: Lope Navo.
134 four: Marcus Mam / Francesco Cominelli.
142 five: Bruno Staub / Jean-Michel Clerc.
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Fotografia Giuseppe Gasparin

Fotografia Giuseppe Gasparin

Fotografia Giuseppe Gasparin

Nato a Neerpelt, Belgio, nel 1968 Raf Simons non è il tipico fashion designer: entrato nel mondo della moda praticamente da autodidatta è oggi una delle figure più influenti ed eccentriche sulla scena. Negli anni il suo nome è diventato sinonimo di un immaginario ben preciso che ha segnato profondamente il mondo della moda e ha spostato l’attenzione verso i riti e i segni della youth culture, portando sulle passerelle semplici adolescenti e inaugurando così una stagione della rappresentazione non ancora conclusa. Basta scorrere come in una playlist i titoli che Simons ha dato alle sue collezioni per evocare esperienze artistiche, musicali, letterarie e cinematografiche che confluiscono nella stessa inclinazione al sentimento individualista e alla potente ambiguità della cultura giovanile: We Only Come Out At Night, How to Talk to Your Teen, Black Palms, Radioactivity, Kinethic Youth, Disorder-Incubation-Isolation, Closer, May the Circle Be Unbroken, History of the World, History Of my World… Dal 2005 Simons è il direttore creativo del marchio storico Jil Sander, che grazie al suo lavoro è diventato uno dei brand più acclamati dagli esegeti della moda. In occasione dell’ultima fashion week milanese abbiamo parlato con lui del suo impegno per la maison tedesca, e di molto altro ancora.


Sembri molto a tuo agio con le forme nette e funzionali che hanno sempre distinto il marchio di Jil Sander. Ha a che fare con la tua formazione da industrial designer?
Può essere, non saprei. Anche se ho studiato industrial design, in questo caso penso sia soprattutto l’eredità stessa della casa, la sua linearità e sobrietà, a influenzare il mio lavoro. Sono partito da quel punto e da lì voglio muovermi, sviluppare quel linguaggio e concentrarmi sulla forma. Perché la mia riflessione rispetto alla casa è che non poteva rimanere bloccata in un linguaggio limitato. Benché sia un linguaggio che amo molto, non è l’unico che mi interessa. Senz’altro mi piace, tutti lo sanno: sono tornato spesso su quel tipo di discorso formale. A volte nelle mie collezioni lo mostro, a volte invece sperimento altre direzioni, talvolta le collezioni sono più sobrie, ma la mia natura è anche quella di essere più “fashion futurist”. Mi diverte esplorare la forma e lo spirito della moda.

Parlando invece dell’equilibrio tra storia e contemporaneità: come lo trovi e quando sai di averlo raggiunto?
A dire il vero non penso di raggiungere sempre l’equilibrio fra le due cose. Per quest’ultima stagione, per esempio, le ho mostrate entrambe e attualmente credo sia l’unico brand che esprima questo forte contrasto. Raggiungere completamente quell’equilibrio è molto difficile, perché il pubblico ha una mentalità molto aperta, cambia, si rinnova. Alcuni probabilmente scelgono Jil Sander perché sanno che ci sono io a costruire questa evoluzione, ma poi c’è anche un pubblico più vecchio, al quale non importa niente di quello che tu stai presentando o dell’evoluzione che stai mettendo in atto. Nel mio mondo ideale i vecchi clienti di Jil Sander indossano le cose di questo secondo momento e i nuovi clienti le cose di quello precedente! Ma ovviamente la libertà del cliente è una cosa che va assolutamente rispettata. Quando guardo le 200 ragazze e i 200 ragazzi che devo valutare ogni stagione durante i casting, mi capita di imbattermi in ragazze molto alla moda; ma se vedo arrivare una ragazza con delle scarpe senza tacco, che indossa un vestito di cashmere molto semplice, personalmente e dal punto di vista creativo mi colpisce di più che vedere entrare una ragazza con un top attillatissimo, su un metro di tacchi e addosso qualsiasi cosa firmata e ultra-fashion, perché nel mondo della moda è assai più comune vedere questa seconda tipologia.
Questo mi fa pensare anche alla mia ultima collezione uomo. Sono molto consapevole della mia posizione nel mondo della moda maschile in questo momento, e so molto bene che la cosa più affascinante che potremmo fare è creare un comportamento, una vera e propria tendenza, e sarebbe anche intellettualmente onesto perché, quando circa 14 anni fa ho iniziato questo lavoro, il mio sogno era quello di portare l’alta sartoria ad un pubblico molto giovane. Non che questo sia realmente avvenuto, perché è una cosa che costa molto, richiede molto tempo e poi ovviamente i ragazzi di 17, 18 anni non hanno abbastanza soldi. Quando iniziano a interessarsi a queste cose hanno 20-23 anni, hanno un lavoro, e le cose cambiano. Tu sai che il mio brand Raf Simons è diventato una specie di “teenage brand”, ed è una cosa che mi fa piacere, ma ho iniziato a disconnettermi dal mio marchio circa cinque anni fa perché cominciava a non soddisfarmi più fare principalmente t-shirt con le scritte, abiti di jersey e quel tipo di prodotto, di immaginario. Ora mi interessa molto la sartoria, mi piace confezionare vestiti, ed è per questo che con l’ultima stagione abbiamo immaginato un nuovo inizio per Raf Simons. Voglio esplorare un nuovo tipo di pubblico anche se il mio punto di partenza resta sempre il rapporto con le generazioni più giovani, perché sono la ragione della mia esistenza.

Cosa ti rende così appropriato per Jil Sander?
A questa domanda dovrebbero rispondere i clienti di Jil Sander e i proprietari del marchio! Penso che siano contenti, altrimenti non avrebbero firmato un contratto per altri tre anni. Credo di essere appropriato per Jil Sander perché, fondamentalmente, rispetto moltissimo quel marchio. E la mia volontà di farlo evolvere parte dal principio che è la moda stessa ad evolvere. Nell’istante in cui sono entrato mi è apparso subito chiaro che dovevamo affrontare un momento di grande cambiamento, illogico da un certo punto di vista: questo è probabilmente il primo periodo storico in cui l’eclettismo si è presentato non alla fine ma all’inizio di un secolo. Per brand come Jil Sander è molto complesso trovare una ridefinizione. La sobrietà, il minimalismo, erano molto presenti nei media alla fine degli anni ottanta e fino alla metà degli anni novanta, ma oggi non più. La moda è in sé un media e di conseguenza penso che faccia parte delle responsabilità di chi sta alla guida di un marchio capire che essa è in continuo mutamento, che si muove costantemente in strane direzioni. È la sua natura ed è fortemente connessa con i tempi. Non lo è però la natura dello stilista, o quantomeno non di tutti: ci sono designer che si fossilizzano su una cosa sola e ripetono sempre quel tipo di estetica, ma non è il mio atteggiamento. Forse per questo che mi ritengono adatto per Jil Sander: mi confronto con pubblici diversi e con tempi differenti o quantomeno cerco di lavorare in questo senso.

Infatti le tue ultime collezioni mostrano dei tratti di semplicità che sembrano provenire dall’arte minimal. A tal proposito, a tuo avviso oggi nella moda cosa si può definire ‘kitsch’?
Praticamente ogni cosa. Ma ci può essere anche kitsch buono e cattivo, in generale credo che la moda sia estremamente eclettica quindi quasi tutto rischia di diventare kitsch. Nella storia della moda, non eclettico per me è stato Helmut Lang, e i grandi esempi storici. Se non si entra nella psicologia del marchio penso che qualsiasi cosa nella moda sia kitsch; il concetto di kitsch per me non è legato tanto alle cose, ma al processo di pensiero. Se devo pensare agli stilisti contemporanei, chi non ho mai trovato kitsch è Miuccia Prada, poiché il pensiero e il concept che dà alle sue collezioni fanno sì che anche se i singoli abiti possono sembrare kitsch il risultato complessivo non lo è mai. La stessa cosa vale anche per Nicolas Ghesquière: questo non significa che non ci possano essere dei tratti kitsch in ciò che fa, ma questo fa parte dell’approccio di pensiero, come le citazioni, la decorazione, alcune caratteristiche insomma. Per me kitsch è tutto ciò che esclude il processo di studio, qualcosa che è fatto tanto per essere fatto. Voglio dire che è molto semplice fare qualcosa che ha un look molto attraente, luccicante... un po’ come succede per la gazza ladra che raccoglie quello che vede luccicare, quel tipo di attrazione per le cose insomma. È un processo molto comune, che non voglio certo attaccare o criticare. Penso sia molto comprensibile in fondo, e penso che sia sempre stato così: qualcosa che sembra molto ricco ma in realtà è molto povero. La moda è sempre stata presente nei paesi cosiddetti civilizzati. Ora però nel mondo stanno cambiando molti aspetti e i paesi che fino a poco tempo fa erano esclusi da questo sistema oggi stanno scoprendo la moda e di conseguenza, in questa fase iniziale, sono attratti da questo tipo di luccichìo. Ma penso sia solo questione di tempo, di metabolizzare queste cose per poi fare scelte diverse.

Ascoltando le dichiarazioni di alcuni stilisti mi domando se sia realmente possibile riversare in una collezione tutti quegli spunti sociali, politici, legati all’attualità più stringente, o se piuttosto siano semplicemente delle strategie di comunicazione un po’ ad effetto…
Credo sia molto difficile raggiungere quel tipo di risultato nel senso che se ti sforzi di legare così fortemente una collezione ad un momento specifico del tempo, questo significa che sei mesi dopo devi completamente cambiare le cose e quelle precedenti perdono il loro valore. Non so se gli stilisti facciano questo per poi rilasciare dichiarazioni per compiacere il loro pubblico, forse è così. Se uno stilista indirizza nella sua collezione dei contenuti politici o sociali forse sembrerà molto intelligente, ma poi deve essere anche davvero convinto di queste sue affermazioni. Ma parlando più in generale penso sia davvero molto difficile lavorare seriamente in questo senso perché tutto si muove in modo veloce: quello che oggi puoi giudicare giusto magari sei mesi dopo verrà giudicato in modo completamente opposto. Così come chi si vanta di fare una collezione con materiali totalmente naturali, non può farlo solo per un paio di stagioni, per essere credibile dovrebbe farlo sempre.

Essendo tu tra gli stilisti contemporanei più importanti avverti una grande pressione nel dover lasciare un forte messaggio ogni stagione?
Sì, assolutamente, ma penso che sia anche positivo perché questa pressione mi attiva, mi fa reagire. So che ci sono queste grandi aspettative ma sono anche conscio di essere il primo a crearle. È una buona tensione quella che si crea, anche se posso essere molto nervoso a volte e i miei collaboratori lo sanno!
C’è stato un grande rispetto reciproco con gli stilisti e con l’audience. Ovviamente, capita anche che quello che fai non soddisfa il pubblico e finisci col sentirti triste. Altre volte succede però di essere ben accolto tanto dal pubblico quanto dal mondo della moda. Certamente è una cosa che mi sta a cuore: anche se hai nove recensioni che parlano di te come un genio e una sola è negativa, è quest’ultima che mi preoccupa... penso faccia parte della mia natura. La mia natura non è quella di espormi molto, non so se mi spiego, è come la rana che deve attraversare una strada e le si dice che deve muoversi più velocemente per superarla, ma non è nella sua natura così finisce schiacciata sotto le auto!

Hai libertà totale sulle tue collezioni?
Dipende, penso che la libertà arrivi nel momento in cui realizzi di avere delle responsabilità. Parlando dal punto di vista più aziendale, io assumo delle persone, dò loro da mangiare. A volte mi sento come un padre per loro, provo questa grande responsabilità. In questo senso non ho la libertà di dire: domani metterò un cactus sulla passerella, sapendo che le persone non lo compreranno mai. Contemporaneamente però mi sento molto libero in quello che faccio, perché il mio procedimento è quello di costruire una cosa dal principio senza improvvisare.

Quanto è importante l’arte contemporanea nella creazione delle tue collezioni?
Probabilmente il 100%!? Per me è qualcosa di quotidiano, fa parte della mia natura, mi interessavo al mondo dell’arte prima ancora di interessarmi a quello della moda. Così molto spesso trasferisco delle cose che mi colpiscono dell’arte nelle mie collezioni, dedico dei tributi a delle esperienze artistiche. Ma ripeto, è un processo che sento molto naturale e costantemente presente. In più mi piacciono molto gli artisti, la loro personalità, la loro vita. Anche il mondo dell’arte si è molto evoluto come il mondo del design, dell’architettura, della moda. Ma penso sia ancora l’unico campo in cui puoi veramente definire te stesso; non puoi farlo invece nella moda, perché penso che sia molto più problematico come sistema. L’artista si può esprimere con un ritmo diverso, cosa che lo stilista non può fare. Come artista puoi avere una grande esposizione senza subire troppo la pressione delle strutture, del pubblico e delle scadenze. Nella moda non puoi avere una grande esposizione se non aderisci ad un certo tipo di struttura, di sistema e di tempistiche imposte.

Mi è piuttosto chiaro come l’arte riesca ad influenzare la moda, ma dal tuo punto di vista esiste anche il processo contrario?
Certamente. Le persone pensano che sia un fenomeno nuovo ma è sempre stato così, basti pensare ad Elsa Schiaparelli, Picasso e molti altri... nella moda molto spesso le persone hanno la memoria molto corta!
Per la maggioranza degli operatori della moda, le cose rimangono sulla superficie, solo una piccolissima percentuale degli stilisti e del pubblico ha la pazienza di entrare davvero nella psicologia di queste cose. E questo è dipeso anche dall’avidità delle persone di voler lucrare in questo campo, cosa che rende difficile la comprensione reale di alcuni fenomeni. Nel passato il pubblico della moda era ovviamente molto più limitato, un’elite. Oggi la moda e l’alta moda sono completamente fusi insieme. Non è una cosa da criticare in sé ma più che altro da comprendere. Ora tutte le cose sono più vicine tra di loro. Paradossalmente, quando tutto sembra più semplice da ottenere, è difficile trovare ciò che realmente vuoi e ti interessa. Io sono sempre stato interessato a quelle cose difficili da trovare, in qualsiasi campo: nell’arte, nell’estetica, nell’amicizia, nell’amore. È sempre più interessante se devi cercare per trovare una cosa. La ricerca e il desiderio sono sempre più importanti rispetto agli accessi facilitati. Le cose che trovi subito sono quelle che ti annoiano più velocemente. Ed infatti penso che oggi le persone nel mondo della moda siano piuttosto annoiate.

Sei stato il primo stilista a fare sfilare adolescenti per le tue collezioni, oggi tutto questo
è diventato molto comune. Cosa ne pensi di questa tendenza?

Penso che per quanto riguarda le ragazze questo in parte fosse già comune, voglio dire che nel mondo della moda femminile già c’era questa tendenza a far iniziare la carriera di una modella in età molto giovane. Sicuramente poi questo si collega anche ad una certa evoluzione dell’estetica legata ai tempi; ci sono stati momenti in cui si mostravano di più un certo tipo di forme, poi altre. Per quanto riguarda la parte maschile non c’era tanto la volontà di mostrare dei corpi soltanto giovani o molto magri, era anche una reazione a tutto ciò che si era visto prima. Ad un certo punto della mia giovinezza i corpi che si vedevano sulle passerelle erano anche qualcosa con cui non potevo relazionarmi: con delle spalle così, supermuscolosi e molto yankee. Io certamente non potevo riconoscermi in quel tipo di estetica e nemmeno le persone che frequentavano il mondo in cui vivevo potevano mettersi in contatto con quell’immaginario. È per questo quindi che ho iniziato con ragazzi così giovani. All’inizio non è stato affatto semplice perché tante persone non capivano quel tipo di scelte e per me poteva essere frustrante. Vedendo ora come si sono evolute le cose sono molto contento perchè la scelta è stata compresa...

Tornando all’arte contemporanea, quale pensi sia l’artista più interessante al momento?
Sterling Ruby senza dubbio. Mi ci è voluto un po’ per entrare nel suo linguaggio, all’inizio ho dovuto guardarlo e riguardarlo molte volte, e quando poi ho visitato il suo studio a Los Angeles tutto mi è diventato più chiaro. È una persona molto semplice, molto gentile, e non è solito parlare troppo del suo lavoro. Come sai, tante volte il dialogo con un artista può essere molto complesso e noioso. Gli ho anche affidato la decorazione del mio store in Giappone! La cosa che mi interessa molto è la capacità di stare su linguaggi molto differenti. Ed in più credo che Sterling non abbia paura di confrontarsi con il mondo della moda, cosa che molti suoi colleghi hanno perché temono che questo possa intaccare la loro carriera. Quando uno è sicuro del proprio lavoro non teme nulla •