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Kaleidoscope Anno 1 Numero 3 settembre-ottobre 2009



Branding the superstate abyss

Brian Kuan Wood

Una conversazione con Metahaven



a contemporary magazine


KALEIDOSCOPE
settembre - ottobre 2009
Featuring:

Metahaven by Brian Kuan Wood; Tris Vonna-Michell by Hans Ulrich Obrist; Deimantas Narkevicius by Cecilia Canziani; Galleria Emi Fontana by Barbara Casavecchia; PIONEERS: Franz Erhard Walther by Simone Menegoi; PANORAMA: K-M in Athens by Praxitelis Kondylis; ENIGMA n.3 by John Miller; Brian Kennon by Catherine Taft; PORTRAIT: Mixedmedia Berlin by Carson Chan; Pierre Leguillon by Manuel Cirauqui, Roman Ondák by Pierre Bal-Blanc; Special Project by Rossella Biscotti.

MONO: Jason Dodge. Words by Jason Dodge, Vanessa Joan Müller, Dieter Roelstraete, Luca Cerizza.

KALEIDOSCOPE FILES: Kuehn Malvezzi (Architecture), Dorothy Iannone by Brian Sholis (Art), Bonnie Seeman by Felix Burrichter (Design), Damir Doma by Angelo Flaccavento (Fashion), The Telephone Book by Xerxes Cook (Film), Dave Eggers by Tim Small (Literature), Villa Diamante by Peter Shapiro (Music), Jonas Zakaitis by Matthew Post (People), Archive Journal by Andrew Bonacina (Publishing), Motto Berlin by Maxime Buechi (Spots).

Main Theme “The Nineties”: “No Man’s Land” by Chris Wiley, “Every Other Decade” by Maurizio Cattelan, “Philippe Parreno’s Moving Targets” by Martin Herbert, “Documenta X, Kassel 1997” by Paola Nicolin, “Boys for Sale” by Bruce Hainley and “Some of 1991” by Bob Nickas.

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Metahaven
Cc/Bcc, 2006
Courtesy: Metahaven, Amsterdam
Metahaven
Tirana Grid (Hoxha Pyramid), 2006
Courtesy: Metahaven, Amsterdam

Cosa succede quando il design non mira a costruire un marchio e un’identità riconoscibili, ma a metterli in crisi? Vi presentiamo uno dei gruppi di designer più radicali d’Europa.

Se il vostro prossimo progetto di design richiede superfici levigate e flussi di lavoro ottimizzati e tayloristi, lo studio Metahaven, con sedi ad Amsterdam e Bruxelles, è quello che fa per voi.
Questo a meno che non siate uno stato- azione che cerca di capire perché la campagna di branding del suo ministro del turismo sia più popolare della bandiera nazionale, perché i suoi cittadini abbiano perso interesse nei processi democratici (a causa del fatto che passano tutto il loro tempo a scambiarsi opinioni su Internet), o perché semplicemente armonia e funzionalità non siano più principi sufficienti per un design efficace. La prassi speculativa e di ricerca del “meta-design” di Metahaven (Vinca Kruk, Daniel van der Velden e Gon Zifroni) è volta alla creazione di modelli in grado di ripensare i parametri strutturali e i canali attraverso i quali certi modelli organizzativi e paradigmi politici si imbattono involontariamente in una forma di comunicazione.
La conversazione che segue si è svolta per e-mail subito dopo che i componenti di Metahaven avevano finito di installare la loro mostra “Stadtstaat: A Scenario for Merging Cities” alla Künstlerhaus Stuttgart (dall’11 luglio al 12 settembre; poi a Utrecht, presso Casco Office for Art, Design and Theory, dal 27 settembre al 15 novembre).

Spesso il ruolo del designer non è soltanto quello di riflettere le politiche di un cliente, ma di renderle operative come linee di condotta. Metahaven immagina una funzione diversa per il designer al di là di questa complicità?
I designer sono sempre complici, anche delle decisioni che non prendono. Ci piace essere complici di progetti che suggeriscono un senso di imprevedibilità e di instabilità riguardo al futuro prossimo, e investigano le dinamiche in cui ci troviamo immersi nel presente.

Jan Verwoert ha scritto di recente che, mentre l’arte concettuale tentava di rendersi trasparente allo spettatore – di convincere invece che sedurre, presentando l’arte in forma di nuda informazione – questo desiderio di trasparenza è stato in seguito interpretato come una specie di ermetismo codificato. Il designer affronta il problema, in qualche modo simile, di decidere come una logica di inclusione ed esclusione possa rendere accessibili forme complesse. La trasparenza forse non è più l’obiettivo (se mai lo è stato davvero). Pensate che il punto diventi allora quello di coinvolgere lo spettatore, il fruitore, il soggetto, in un processo di traduzione?
Se consideriamo l’arte concettuale come un possibile standard di rete, un protocollo per mezzo del quale chi fa parte della rete può efficacemente scambiarsi informazioni, allora questa, come tutte le altre forme d’arte, è codificata, e trasparente per coloro che le decodificano. L’esistenza di un’arte, o di una qualsiasi forma di esperienza, non codificata in alcun modo ci sembra davvero una leggenda.
Al momento, specialmente nel design, si vive una tensione fra la volontà di rappresentare la grande complessità del mondo e di portarne alla luce le narrazioni represse, e il dover creare immagini semplici che riassumano tutto ciò. Il mantra del web design, “non farmi pensare”, afferma che abbiamo superato le forme complesse. Concetti come “intuizione” e “tattilità” stanno rimpiazzando la vecchia idea di trasparenza. Seguendo queste direttive, tutte le interfacce e i siti web diventano variazioni di un singolo prototipo. La standardizzazione dell’architettura del web in un protocollo è solo una delle conseguenze del fatto che Internet sta diventando meno un parallelo del mondo fisico che una parte di esso.

In modo simile, la ricerca di forme veritiere o trasparenti diventa più interessante quando la questione si fa politica: come rendere accessibile il potere attraverso un’applicazione front-end, per esempio?
Occorre verificare ogni cosa, specialmente quando ha a che fare con il settore pubblico, l’economia, il clima, la politica. Certe organizzazioni sentono il bisogno ossessivo di dichiarare che il loro fine non è il potere, che vogliono un processo aperto e trasparente, che tutti possono esprimersi. I prossimi decenni assisteranno probabilmente a cambiamenti macroscopici nell’organizzazione della democrazia, ed è possibile che la democrazia stessa, pur essendo, o almeno sembrando, più accessibile e partecipativa, diventerà meno democratica da un punto di vista formale. Il “potere sociale” e il “potere della comunicazione” probabilmente prevarranno, se non altro a causa della grandezza delle decisioni che dovranno essere prese, su una scala che va oltre quella dello stato-nazione.

La logica della rete sostiene di essere in grado di sostituire le tradizionali relazioni gerarchiche di potere con modelli più orizzontali e disseminati di relazioni libere e informali, basate sui mutui bisogni, sullo scambio spontaneo, sulla reciprocità. Avete scritto che, più che risolvere i problemi di antiquate forme centralizzate di potere bruto, la flessibilità della rete traspone le operazioni del potere, così come del capitale, in forme più indirette di coercizione invisibile. Ci sono qui forti parallelismi nel modo in cui la democrazia è intesa come orizzontalità disseminata. Chi sono i nuovi governanti, allora, e come governano? La promessa di emancipazione della democrazia dovrebbe essere abbandonata in favore di qualcosa di più realistico o immanente?
Uno dei problemi principali è che il concetto di rete è astratto. Quando una rete si materializza non è più solo una rete, ma anche una campagna politica, un focus group della società civile, un partito, una fazione guerrigliera, un’organizzazione terroristica – o un’agenzia di design. In genere, si presume che le reti abbiano una gerarchia molto più appiattita che altre forme di organizzazione. Il leader di una rete può essere un catalizzatore, una figura astratta, l’incarnazione di un’idea, molto più che un vero comandante che dà ordini. L’organizzazione in rete può esistere solo come combinazione di una relativa autonomia e un’intensa comunicazione. Le reti (e i think tanks, a questo proposito) tendono a formulare obiettivi e scopi astratti; forse questa è la risposta definitiva al modello, da catena di montaggio, dei risultati fissi e prevedibili. Una ONG vuole “salvare il pianeta”. Un motore di ricerca globale vuole “organizzare l’informazione mondiale”. Un politico riunisce milioni di voti intorno all’idea di “cambiamento”. All’inizio può sembrare che le azioni reali connesse a questi obiettivi abbiano poco a che fare con essi. In termini manageriali, l’ultima istanza di azione in una rete riguarda sempre il fatto di “portare a casa il risultato”, i “dettagli tecnici”, il “fare”, il “concludere”– espressioni così ovviamente fisiche che le azioni precedenti avrebbero potuto essere completamente astratte (e probabilmente lo erano). In un lavoro recente, Stadtstaat, diamo forma a una città del futuro prossimo, nella quale il ruolo dell’architetto che progetta edifici fisicamente intesi è eclissato da quello dell’architetto delle reti, dal manager di sistema. L’architettura è ora solo una metafora – architettura dell’informazione, architettura della scelta, architettura sociale e architettura finanziaria. Vista in questa prospettiva, la nuova coercizione non è necessariamente invisibile. Appare solo levigata. “Potere” significa brandire i mezzi per prevalere, e ci sono vari modi per raggiungere lo scopo. L’attuale amministrazione statunitense definisce la battaglia per le menti e i cuori della gente “la grande conversazione”.

Cosa ne è allora degli edifici concreti, tangibili, in Stadtstaat? Cosa succede a ciò che è materiale quando i principi organizzatori della rete cambiano troppo rapidamente per le capacità di adattamento dell’architettura?
In Stadtstaat, le forme edificate non possono tenere il passo con le reti, quindi l’architettura reale deve sottomettersi all’architettura delle reti. È probabile che siamo vicini a un declino dell’ambiente edificato – con il risultato, nel tempo, della formazione di slum – perché il surplus finanziario da ridistribuire attraverso il welfare per il bene pubblico non c’è più. I piani per una “grande Parigi” presentati di recente da vari team di architetti prevedono monorotaie sopraelevate, TGV suburbani – tutto ciò che l’era fordista ha già prodotto. Ma gli sviluppi maggiori della città del futuro si dispiegheranno probabilmente più secondo una logica postfordista. In Stadtstaat, la nuova spina dorsale delle infrastrutture è una piattaforma per creare una rete di contatti sociali attraverso la quale i cittadini si tengono reciprocamente sotto controllo mentre esplorano ogni genere di attività sociale. In sostanza, è uno strumento antiterrorismo socialmente condiviso. Si chiama Trust.

Avete creato il marchio di una “nazione- Stealth”, definita dalla sua stessa scomparsa, e di una “immagine perduta” per il motore di ricerca europeo Quaero. Molte vostre idee sembrano gravitare più intorno all’assenza di forma che alla forma, o intorno a un’inversione radicale delle logiche imperanti (o delle logiche di governo), come quella della creazione di un marchio nazionale. In modo simile, molti vostri progetti di identità grafica sembrano suggerire più un simbolico movimento in corso che una attuazione unificata e concreta. Sembra che Metahaven lavori al servizio, più che di clienti, di una specie di ambiguo, e in un certo senso paradossale, nuovo territorio. Potreste spiegarne le caratteristiche?
Studi analitici come Sealand o Quaero sono stati scelti perché davano la sensazione di una promessa. Hanno funzionato come snodi di realtà e finzione, con riferimenti che generavano il fattore mito. Sealand si collega all’idea romantica dell’isola, come nell’Isola dei morti di Böcklin. È letteralmente un vicolo cieco. Quando Quaero, come sedicente motore di ricerca, fu reso pubblico, non aveva logo, e tuttora non ne ha uno. Ma gli utenti del web cominciarono a scrivere “Quaero” con il carattere e i colori di Google. Spesso il nostro design si discosta da ciò che si considera convenzionalmente identità coordinata. E lo abbiamo fatto per indebolire le basi della falsa coerenza, per tentare di lavorare su un’idea più speculativa di ciò che dovrebbe essere il design di un’identità. Ci sembra importante parlare anche della nostra idea di ricerca. Non abbiamo alcuna intenzione di giocare a fare i VJ con forme e simboli a caso, ma di lasciare nel lavoro visivo tracce di un’investigazione.

Cosa vorrebbe dire esattamente dare un marchio a ciò che avete chiamato “un’Europa senza storia o forma”?
Abbiamo considerato i modi in cui l’immaginemarchio dell’Europa esiste nella pratica, e i modi in cui differisce dalla sua immagine centralizzata. Per esempio, il prefisso “Euro-” significa sempre “discount”. Se consideri il modo in cui le attività commerciali più diverse, dalle ditte di logistica ai parrucchieri, utilizzano il prefisso “Euro-”, e spesso anche le stelle gialle, vedrai che questo marchio meno centralizzato sembra più avanzato della vecchia idea di un logo e di un’identità ufficiali. Il fatto che questa identità condivisa sia allo stesso tempo bruttissima, improvvisata e spesso trascurata, non la rende meno interessante. Un altro genere di incertezza si mostra sulla mappa: nessuno sa esattamente quale territorio debba o non debba essere chiamato Europa. Dire Europa = EU è troppo limitato. Allo stesso tempo, traguardi storici attribuiti all’Europa – “tradizione giudeo-cristiana”, “illuminismo” – devono essere continuamente rinegoziati alla luce di nuovi eventi, nuovi popoli, nuove informazioni. Non c’è modo di rendere l’identità europea stabile e fissa. La cosa davvero nuova della mancanza di un controllo centrale potrebbe essere il senso di coordinazione, che nondimeno esiste, fra tutte queste diverse forme di immagine-marchio europea. Questo va chiaramente oltre il modello di Superstato che vuole l’Europa come uno stato-nazione, ma più grande. C’è sempre stato qualcosa di vagamente stupido riguardo ai loghi e alle identità coordinate integrali, e l’Europa mostra che si può andare oltre ciò e rimanere comunque coerenti.

Brian Kuan Wood è giornalista e musicista e vive a New York. È editor di e-flux journal.