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KLAT (2010) Anno 1 Numero 3 estate 2010



John Maeda

Hans Ulrich Obrist

Intervista



Interviews contemporary art design architecture


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John Maeda
Absolut Maeda, 1997
Pubblicità per/advertising for Absolut vodka

John Maeda, 2007
Courtesy: Rhode Island School of Design

John Maeda
The New York Times Magazine (cover) 1999
Art director: Janet Froelich

John Maeda sta per prendere un aereo, ha quaranta minuti di tempo, poi deve imbarcarsi. Con lui c’è Hans Ulrich Obrist. Indovinate cosa succede in quei quaranta minuti? Facile: Hans fa sedere John a un tavolino e ne esce fuori una conversazione arguta, leggera e sapiente. Indimenticabile. Si parla di Maeda, dei suoi inizi, dei suoi lavori, di semplicità, di insegnamento e soprattutto di vita, che non basta mai. Non c’è un nanosecondo da perdere...

Sono davvero contento di poterti intervistare John, ma hai un aereo da prendere e non abbiamo un secondo da perdere...
La vita è breve.

Parlami dei tuoi inizi. Ho letto che Bruno Munari, Paul Rand e la vita quotidiana ti hanno influenzato in modo determinante. Cosa ti ha portato al design?
Non sapevo nulla di design fino al terzo anno di università al MIT. Ero bravo in disegno e matematica, ma di design non avevo mai sentito parlare. Lo scoprii attraverso un libro di Paul Rand. Stavo scrivendo la mia tesi e una segretaria mi disse che l’impaginazione del mio testo era davvero eccellente. Questa osservazione mi fece pensare che il modo in cui si presentano le cose è importante e che si dovrebbe essere consapevoli del fattore design. È così che cominciai: fu il libro di Paul Rand a stimolarmi.

E Munari? L’incontro con lui avvenne successivamente?
Sì, quando mi trovavo a Tokyo visitai una sua mostra e mi colpì così come mi aveva colpito Paul Rand, ma a un livello diverso, più intuitivo e viscerale. Rand per me era il designer per antonomasia, mentre Munari era più un artista. Li collocherei in una sorta di “zona di confine” tra arte e design.

Cosa ti ha dato Rand e cosa ti ha dato Munari?
Credo che Rand mi abbia trasmesso l’idea della struttura mentre Munari quella del gioco e del divertimento. Per molti aspetti, sono due personaggi simili, ma direi che Munari è più gioco e poi struttura, mentre Rand è più struttura e poi gioco.

Quale dei tuoi lavori artistici e di design è stato decisivo? Qual è stato il punto di inizio?
Il primo passo fu quando disegnai una sorta di simbolo dell’infinito in bianco e nero (Infinity, 1992-’93, nda). Poi seguì un lungo periodo di stasi durante il quale feci molte altre cose, ma nulla che avesse molto senso. Il passo successivo fu quando progettai una piccola fune che si muoveva sul pavimento con una penna attaccata all’estremità. Quello fu un altro momento in cui tutto sembrava avere un senso. Di momenti così ne ho vissuti non più di due o tre in tutta la mia vita.

Delle vere e proprie epifanie.
Sì. In quei momenti mi sono detto: «Ecco, ci siamo».
Tutto il resto all’epoca era poco più che un tentativo.

Quindi la tua prima opera fu un programma per il computer?
Era un programma che disegnava il simbolo dell’infinito a ciclo continuo. Un programma semplice, il primo che combinasse pensiero creativo e pensiero matematico.

Quando hai iniziato tu erano gli albori...
Mi sono trovato al posto giusto nel momento giusto.

Spiegami come sono andate le cose.
È stato tutto per caso. Se dovessi disegnare una mappa, sarebbe una mappa tracciata dal caso.

Spiegati meglio.
È una mappa che descrive come il mondo cambia, come l’economia cambia, come la tecnologia sale e scende e come il pessimismo sale e scende: è una mappa che descrive come in momenti in cui il pessimismo è alto e l’economia è al ribasso, la tecnologia precipita. È una mappa che descrive i grandi momenti di trasformazione. Io sono capitato in uno di questi momenti. Sono stato fortunato. È una mappa che parla del passato. Del resto, tutto non fa che ripetersi all’infinito.

Come mi disse una volta Alighiero Boetti, tutto si muove come un’onda, con alti e bassi, intervalli, pause e silenzi.
Esatto. Dipende tutto da dove ti trovi: giù nel burrone o nella valle.

In che anno hai cominciato?
Credo fossi in quarta elementare, avevo circa dieci anni.

Quindi siamo alla fine degli anni Settanta.
Fu allora che la maestra mi disse che ero bravo in arte e matematica.

Eri un bambino prodigio?
No, anche perché per mio padre ero bravo solo in matematica. Dell’arte non gli importava nulla. Ma da allora cominciai a capire che c’era qualcosa in me.

L’economia era in calo quando hai cominciato?
In che punto eri dell’onda?

No, l’economia era in ascesa e così pure la tecnologia.
Il pessimismo era stazionario.

Quindi era il momento giusto per iniziare.
È stata una giusta concatenazione di eventi. Il computer ancora non si era del tutto affermato, io ero piuttosto bravo a disegnare ed ero anche bravo a fare programmi, ma mancava sempre qualcosa. Ero un tipo molto silenzioso. Solo dopo essermi laureato ho capito che non potevo più stare zitto, perché se avessi continuato così non sarei arrivato da nessuna parte.

Dovevi parlare per forza.
Sì, ma ero davvero timidissimo. Odiavo parlare.

E qual è stata l’epifania successiva? Cosa hai realizzato dopo il programma con il simbolo dell’infinito?
Molte cose. Il 1993 e il 1996 sono stati i miei anni più produttivi. Nel ’96 ho lavorato prevalentemente a progetti su carta, nel ’93 più su computer. Poi nulla fino al 2002 quando, quasi per caso, ho creato un piccolo robot che si muoveva con una penna attaccata (Robot Draw, 2003, nda). Nel momento in cui ho disegnato questa figura sullo schermo del computer ho capito come quel robot che tracciava una linea avesse per me un profondo significato, perché era una linea vera ma allo stesso tempo computazionale. Dopo quel programma, ho iniziato a progettare oggetti “reali” di vario genere: piccole scatole che stanno per terra e che si toccano con un piede, sculture di plastica, quadri con all’interno dei palmari.

Quindi sei passato dal 2D al 3D.
3D più la dimensione tempo. Su questo concetto ho realizzato una serie di opere (Post Digital, 2001, nda). Per esempio dei quadri in bianco e nero in cui da una piccola finestra appare lo schermo di un palmare il quale, grazie a un programma, si chiede con fare amletico: «Che cosa sono?».

Dimmi di più di quello che hai fatto nel ’93 e nel ’96. Molti dei tuoi libri sono stati pubblicati negli anni Novanta.
Nel ’93 ho iniziato a fare tanti lavori al computer, e tieni conto che siamo in era pre-internet. Avevo un amico, lui sì che ci credeva davvero, che ha prodotto tutti i miei libri della serie Reactive Books (editi da Digitalogue, nda). Credo che in totale fossero quattro o cinque libricini con floppy disk o CD Rom.

Così hai cominciato a sfornare libri?
Sì, come te! Sfornavo libri e volevo fare tutto io. Pensavo che gli artisti e i designer facessero tutto da soli. Ma chiaramente mi sbagliavo. Andando avanti mi sono reso conto che tutti hanno un assistente o dei collaboratori.

Hai un grande ufficio?
No. Il mio ufficio è sempre stata la mia scrivania.

E quando sono cambiate le cose?
Non sono mai cambiate.

Tu dici di imparare molto dai tuoi studenti. Mi ricordo di aver letto su Designboom che i tuoi studenti sono per te fonte di informazione e che tu non vedi l’ufficio come una scuola, ma la scuola come un ufficio.
Non la metterei in questi termini. Non mi sono mai piaciuti i professori che prendono il lavoro degli studenti. Quando sono diventato professore, mi sono dato una regola molto rigida: il mio compito era costruire le carriere degli studenti. Il mio lavoro l’avrei fatto a casa, di notte. Come Batman, il mio idolo.

È un po’ così anche per me: di giorno faccio il mio lavoro al museo e di notte mi occupo dei miei libri.
Anche tu come Batman...

Quindi non dormi molto... quante ore per notte?
Dalle quattro alle cinque ore.

È lo stesso per me.
Io credo che la vita sia un bene prezioso. Mi ritengo fortunato perché quando avevo vent’anni il famoso designer e scultore Igarashi Takenobu mi presentò un professore della California. Era un uomo molto strano, ai tempi sulla sessantina. Da Los Angeles, mi telefonava a Tokyo a qualsiasi ora del giorno e della notte per scambiare due parole. Pensavo fosse pazzo. Si comportava come un adolescente, lo si vedeva da come camminava e da come si comportava. Un giorno stavamo pranzando assieme a Los Angeles e lui mi chiese: «Ma tu lo sai perché sono così?». Io risposi che di certo non era una persona comune. E lui rispose: «Quando avevo vent’anni ero proprio come te: un giovane professore, carriera in ascesa, una moglie, un bimbo in arrivo, tutto fantastico. Compriamo una casa, tutta la vita programmata.
Un giorno lei torna casa e dice di non sentirsi bene, così va dal dottore il quale le dice che è tutto a posto. Allora va da un secondo dottore che pure le dice che è tutto a posto. Ma mia moglie studiava medicina e sapeva capire il suo corpo: aveva capito di avere un cancro. È morta un mese dopo aver partorito». Questa, mi disse, era la ragione per cui progettava il suo oggi come se non ci dovesse mai essere un domani. Semplicemente, dava per scontato che non ci sarebbe stato nessun domani. È così che ho capito che nulla è per sempre. Un altro incontro importante fu con il signor Fukuhara, presidente emerito della Shiseido Corporation – la Chanel del Giappone. Il signor Fukuhara mi mostrò degli studi medici strutturati in grafici in cui a seconda dell’età di una persona si poteva vedere come il corpo inizialmente abbia un crescendo di possibilità che poi man mano si riducono: gli occhi che prima funzionano poi non funzionano più, il cervello che prima va alla grande e quando arriva a sessant’anni non va più, e via dicendo. Quando ho visto questo grafico – a me i grafici sono sempre piaciuti molto – ho realizzato che le cose a un certo punto finiscono. Tutto ha una fine. Quindi, per rispondere alla tua domanda, cerco di vivere la vita fino in fondo.

Non c’è un nanosecondo da perdere... Tu hai la straordinaria capacità di portare avanti il tuo lavoro di notte e di essere di giorno un grande educatore. Hai formato e ispirato un’intera generazione di designer e artisti. Ben Fry e Casey Reas, per esempio, sono stati tuoi studenti dieci anni fa.
Loro erano dei grandi. Erano speciali. Una volta dedicavo molto tempo a selezionare persone. Sceglievo sempre persone “ibride”: né artisti, né designer, né tecnologi, né scienziati. Loro appartenevano a questa strana “terra di mezzo”. Ben, Casey e altri come Golan Levin e Peter Cho erano tutte persone di grande talento. Ma ce ne erano molti altri. Trovavo ragazzi su internet e li invitavo a prendersi una laurea specialistica, ma mi rispondevano dicendo che non si erano neanche iscritti all’università perché per loro i professori erano degli stupidi. In fondo, è stato interessante scoprire come tante persone pensassero di non aver bisogno di andare all’università, perché potevano imparare dai loro amici. Tutte queste cose le ho apprese con l’esperienza. Ben, Casey e gli altri erano di gran lunga migliori di me in varie cose. Lavorando con loro ho capito che potevo anche smettere di fare questo lavoro, perché loro erano molto più bravi e completi di me. Non mi dimenticherò mai la volta in cui qualcuno mi mandò un link a un tizio chiamato Yugo Nakamura (che è il numero uno di Flash), il quale aveva preso la mia ultima opera interattiva – il programma in bianco e nero Tap, Type, Write (1998, nda) – trasformandola in qualcosa di veramente meraviglioso. La mia versione era molto essenziale e lui l’ha completata. La sua interpretazione mi ha davvero colpito e mi ha fatto pensare che io non avevo più bisogno di fare quel tipo di lavoro e che, a dirla tutta, non ne ero neanche capace.

Così ti sei dedicato a qualcos’altro.
Così ho fatto.

Dunque, hai smesso completamente di fare programmi interattivi.
Sì.

Cosa ti ha portato a questa decisione?
Avevo capito che altri erano più bravi di me. Ho ripreso a fare programmi interattivi più avanti, dal 2000 circa, quando ho cominciato a fare piccoli programmi web di solo testo, come il calcolatore di debito della carta di credito (Credit, 2006, nda), per esempio. Questo è uno dei miei preferiti e anche uno dei più apprezzati su internet.

Spiegami meglio.
È un calcolatore di debito. Quando mio fratello minore è andato in bancarotta mi sono chiesto come fosse potuto accadere. Con un semplice calcolatore di debito si risolve il problema. Un altro mio programma è un riduttore di testi che produce un riassunto randomizzato (Reduce, 2007, nda). Sono programmini di testo ASCII vecchio stampo, niente di che, giusto per divertirsi un po’.

Stai lavorando a dei nuovi caratteri?
No, ma le parole mi interessano molto. Sono un appassionato di frasi e parole.

La scrittura è una componente importante della tua pratica multi-dimensionale. Ci hai parlato del tuo programma di testo, di quello interattivo, dei tuoi libri, poi c’è l’insegnamento e il tuo sito. Stai anche scrivendo il manifesto della semplicità. Che ruolo ha la scrittura nella tua vita? È una pratica quotidiana?
Rispetto molto l’attività di scrittura perché credo sia come dipingere con le parole. Mi piace guardare le parole e sono incantato dalla struttura di un testo. Tuttavia, non credo di essere molto bravo a scrivere e sono sempre alla ricerca di un modo per migliorare. Confido nell’esercizio.

Puoi dirci qualcosa a proposito delle tue leggi della semplicità? Sono state anche queste un’altra delle tue epifanie?
Sì, una grande epifania. Mi sono reso conto che la tecnologia era in ascesa e che le persone erano molto disorientate. Per di più, sebbene sia un esperto di tecnologia che ha studiato al MIT, io stesso cominciavo ad avere problemi a gestire il mio computer. Così ho pensato che se avevo problemi io, sicuramente li avevano anche gli altri. Quindi ho ritenuto che valesse la pena parlare dell’argomento e di come le cose si fossero a tal punto complicate con i computer. Così ho aperto un blog sul concetto di semplicità dove scrivevo come se stessi ragionando a voce alta. È così che è cominciata.

In un mondo in cui le cose tendono a diventare sempre più complesse, il concetto di semplicità può essere visto come un’alternativa “anti-ciclica”?
Sì, esatto. Quando tutti volevano di più, io ho cominciato a pensare che dovremmo avere di meno.

Quindi si tratta di “less is more”?
Non solo. Il concetto di semplicità è complesso.

Ci sono state altre epifanie? Hai scritto altri manifesti?
Sì, molti.

Puoi dirmi di più a questo proposito? Sto leggendo Tu non sei un gadget di Jaron Lanier, uno dei manifesti del Ventunesimo secolo.
Come tutti, ho molte cose che non ho mai pubblicato, magari scritte su un tovagliolo o un pezzetto di carta. Il manifesto a cui sto lavorando ora è a proposito della leadership e di come questa si relaziona all’arte e al design.

Questo discorso si collega al tuo lavoro alla RISD, Rhode Island School of Design. Tu eri un protagonista del MIT – la Bauhaus del Ventunesimo secolo – e hai deciso di lasciarla per la scuola e il museo di Rhode Island di Alexander Dorner. Ieri mi hai spiegato che allontanarsi da un contesto tecnologico per andare in una scuola artistica e, una volta lì, affrontare il problema della leadership, è stata una decisione molto consapevole. Sono molto curioso di saperne di più.
Come presidente della scuola, dovevo capire piuttosto velocemente cosa significasse essere un leader. Prima di diventare presidente, la maggior parte delle persone è stata professore, poi capo dipartimento, poi preside di facoltà, poi vice-presidente e poi rettore. Io invece sono stato nominato saltando tutti questi passaggi, senza alcuna preparazione. Quando sei l’artista sei tu contro tutti.

Intendi contro il sistema?
Sì. E all’improvviso sono diventato io il sistema. Sto cercando di capire come mantenere la creatività nella mia veste di leader e, allo stesso tempo, evitare di diventare uno dei tanti. Perché se ciò accadesse potrei tranquillamente essere sostituito da qualcun altro. È come se fossi un’opera esposta in un museo che ha poco a che vedere con il resto della collezione. Se fossi in linea con il resto, allora non sarei un pezzo importante. La domanda è: come poter continuare a mantenere vivo il motivo per cui sono stato inserito nella collezione e, allo stesso tempo, essere qualcosa di diverso? Non voglio essere un fiorellino rosa in una collezione di blocchi di cemento. Devo capire come diventare un blocco di cemento rosa.

Mi hai detto che vedi la RISD come un gene in formato XL. Puoi spiegarmi questo concetto?
Credo che con la battuta d’arresto dell’economia e il mondo in trasformazione, la RISD possa costituire una sorta di DNA da innestare in questo processo di cambiamento. La cosa bella dell’essere presidente di questa scuola è che una volta – quando ero un artista e designer – ero un piccolo gene, un piccolo frammento. Ora che presiedo questa scuola (che esiste dal Diciannovesimo secolo e che racchiude un bellissimo museo che tu ami e che ha fatto sì che tu diventassi un curatore) sono parte di un gene più grande. In teoria, se le cose andranno per il verso giusto, il gene muterà e contribuirà alla ridefinizione del mondo che sta cambiando.

Hai in programma dei progetti particolari, mostre o cambiamenti strutturali per la RISD di cui ci puoi parlare?
Credo che la scuola sia sulla strada giusta. Ha un bellissimo museo, un importante curriculum e credo che tutto stia andando per il meglio. Tuttavia, nel mondo esiste il cambiamento. Il mondo dell’arte è cambiato, il mondo del design è cambiato, il mondo in generale sta cambiando. Parte del mio compito è trovare un modo per portare il cambiamento all’interno di un’istituzione che per affermarsi ha dovuto naturalmente opporre resistenza al cambiamento. È questo a cui sto lavorando. Quando una realtà valida è capace di resistere al cambiamento, affermandosi, e allo stesso tempo è capace di osservare ciò che la circonda, traendone stimoli, si raggiunge un livello superiore. Quando invece ci si guarda solo attorno, si rischia l’omologazione: gradualmente si diventa uguali a tutto il resto. La RISD è riuscita a mantenersi molto indipendente, vicina alla sua autentica natura. Quindi la domanda è: come mantenere l’indipendenza e al contempo osservare come il mondo sia interdipendente, senza rendere la scuola omologa a tutto il resto e annacquarne l’identità?

Hai progetti, sogni o utopie troppo grandi – o troppo piccole – da realizzare?
Ho un’intera serie di sculture che avrei dovuto realizzare negli ultimi anni. Un anno ne ho presentata una fatta con tutti i miei vecchi computer (Post Digital, 2001, nda). Uno è diventato una trave di equilibrio, un altro una macchina auto-disegnante. Ci sono una serie di libri su cui vorrei lavorare, e poi qualcos’altro che ancora non è uscito dalla mia testa.

Nuovi libri?
Sì, nuovi libri.

Hai dei progetti su larga scala come città, grandi sculture urbane o cose di questo genere?
No, per niente. Io non posso fare questo tipo di cose. Ci vuole un’energia diversa dalla mia.

Quindi non ti occuperai mai di architettura e urbanistica. Mi sono sempre chiesto se ci sarebbe mai stato un “John Maeda building” un giorno.
No. Alla maggior parte dei presidenti piace erigere edifici, ma a me non interessa. Piuttosto spenderei tempo e soldi su dei programmi.

Rainer Maria Rilke scrisse un piccolo libro intitolato Lettere a un giovane poeta. Tu che consiglio daresti oggi a un giovane artista o designer?
Al giovane designer consiglierei di studiare tanto: storia, il più possibile, e informatica, perché è la base dell’informazione e del mondo di oggi. Al giovane artista direi che è importante isolarsi da tutte le influenze esterne e che è altrettanto fondamentale comprendere ciò che lo circonda. La tecnologia non è così importante, ma bisogna saperla interpretare criticamente, da un punto di vista preciso. Non mi dimenticherò mai di quando in un istituto d’arte in cui tenni una conferenza dissi che avevo smesso di fare lavori per il web. Un ragazzo mi avvicinò e mi disse che era davvero felice di questa mia decisione perché anche lui non capiva nulla di tutta quella roba html, e che se io non ci lavoravo più anche lui avrebbe fatto lo stesso. Io gli risposi che non doveva farlo, perché lui era ancora al di là della conoscenza di quel mondo. Io potevo scegliere di non lavorarci solo perché lo conoscevo a fondo. La conoscenza oggi è tutto.