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Millepiani Anno 18 Numero 37 novembre 2011



L'uscita dal futuro

Tiziana Villani



Filosofia, estetica e politica


SOMMARIO N.37/38


• Premessa 5

Tiziana Villani
L’uscita dal futuro
7

• Adelino Zanini
Il riproporsi dell’Ursprung 23

• Andrea Fumagalli - Cristina Morini
Alienazione e homo precarius nel biocapitalismo cognitivo 33

• Ubaldo Fadini
Corpo vivo, conoscenza e autonomia 55

• Margherita Pascucci
Il sogno di Marx 75

• Silvano Cacciari
Il comune può essere nulla di fronte all’immagine del mondo 97

• Nicola Lonzi
Il corpo del desiderio 125

• Alessio Kolioulis
I movimenti del plusvalore 139

• Davide Calenda
Creatività sostenibile fuori dal capitalismo 159

• Simone Biagini
Gli anni zero della responsabilità d’impresa 167

• Roberto Barbanti
Note su ecosofia, estetica, arte 181

• André Ourednik
I labirinti dell’ambiente e le scale del soggetto 215

• Sébastien Thiery
Tutto contro la città, costruire in comune 229

artefacts
• Tiziana Villani
Il mondo salvato dai rats 237

• Francesco Galluzzi
Falce e pennello 239



• Recensioni & schede di lettura 241


Premessa millepiani 37/38

Il tema dell’alienazione che attraversa questo volume è stato affrontato, in diversi ambiti tematici e disciplinari, nella sua interconnessione con la dimensione sociale.
L’alienazione tocca la realtà relazionale che è il campo proprio della riflessione dell’ecologia sociale, che da tempo costituisce per noi il piano di una ricerca non puramente reattiva, quanto tesa ad individuare tutte le linee di fuoriuscita dal sistema attuale. Fin dagli ultimi numeri abbiamo così voluto restituire valore e rigore teorico a quei percorsi del pensiero critico, francese e tedesco volutamente marginalizzati o “mal interpretati” dai fautori euforici del liberismo. Le molte radici di cui si nutre questa proposta vanno così a riflettere sull’eredità marxiana, francofortese, deleuziana-guattariana ritenendo che queste continuino a mantenere un’attualità che lungi dall’essere un’esegesi costituiscano la valorizzazione di un apparato critico teorico in grado di sostenere la messa in crisi di un quadro di inciviltà e collasso che permea l’orizzonte in delirio dell’autoreferenzialità neo-liberista.

Retro copertina

Attraversare le dimensioni di riconfigurazione delle vite dei singoli nel tempo della crisi pone l’urgenza di nuove interrogazioni sul prossimo futuro. Prima ancora che strettamente economica, una crisi si qualifica nel chiamare in causa i progetti di vita, le attese, tutti quei soggetti che sono espulsi dal proprio tempo. Le attuali forme assunte dall’alienazione, le sperequazioni sociali, i disastri ambientali non possono essere rivisti a partire da logiche parziali o frammentarie, occorre invece riprogettare l’esistere in chiave di sostenibilità, diritti e soddisfazione dei patti di cittadinanza.
Le nuove geografie dei territori costituiscono la radice di un domani incerto, in violenta trasformazione, che rischia di cancellare tutto quel che possiamo e sappiamo fare per rispondere alla furia di un liberismo insensato, capace di perpetuare solo la sopravvivenza delle proprie tecnocrazie.
Il transito verso un futuro diverso da quello del debito/giudizio illimitato si costruisce nel presente, riaffermando la dignità di tutte le esistenze e forme di vita
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Anarchismo borghese e democrazie autoritarie
Felix Stalder
n. 33 gennaio 2008


Banksy
No future

Lucia Marcucci
L'uomo e le sue scelte, 1972
tela emulsionata
cm 120 x 90

Stefano Vailati
Tete d'oeuf, 2001
olio su tela
cm 50 x 70

Ripercorrendo alcune osservazioni di Paul Auster che ragionano sullo stato attuale assunto dalla permanenza della crisi, possiamo condividere con lui l’impietoso giudizio che spiega i motivi della cancellazione del futuro per una intera generazione di giovani e non solo. “Il capitalismo è tornato alle sue forme primitive. E non solo negli Stati Uniti. Il Big Crash deflagrato tre anni fa ha liberato gli istinti peggiori, ha generato un’avidità spaventosa. L’individuo è stato completamente messo da parte, dimenticato. Quello che mi colpisce, oggi, è che la nostra politica non sembra più in grado di gestire la crisi”. (Intervista di Massimo Giannini, apparsa su “Repubblica” del 6 giugno 2011).
Nell’arco degli ultimi trent’anni, periodo in cui è andata accelerandosi la vocazione speculativa del capitale finanziario, alcune indicazioni di analisi sono divenute ineludibili. La capacità “progressiva” del capitale è smentita dal dispiegarsi di una crisi i cui caratteri non possono più essere intesi come transitori. Il modello capitalistico ha acquisito un’autonomia di tipo simbolico-linguistico che determina una irragionevole persistenza di procedure che stanno causando divari sociali e povertà sempre più diffuse. Questo processo di autonomizzazione dal reale e dalla verità delle cose si configura come una fede schizofrenica di una civiltà che rinuncia a pensare il proprio divenire e che, come in un’ultima cena durante il diffondersi della peste, si rifugia nel pensiero magico e nella celebrazione della propria autodistruzione. La cancellazione fortemente perseguita dei saperi, del giudizio indipendente, dell’esercizio della verità hanno contribuito a creare una vasta sofferenza sociale, che non trova il modo di organizzarsi in forme mature e nuove di patto sociale. L’autocensura non agisce solo a livello individuale, piuttosto la sua forza si manifesta come un virus collettivo che depotenzia ogni considerazione che si voglia radicalmente altra rispetto al modello dominante. Eppure è proprio la profondità di questa crisi a farci capire come non se ne possa uscire con deboli manovre di aggiustamento, e come sia necessario ripensare il senso intero della prospettiva. Nei numeri precedenti abbiamo iniziato a proporre il terreno dell’ecologia sociale (1) come piano di una nuova sperimentazione, che ripensi gli usi collettivi, i bisogni, le forme di produzione nella consapevolezza che tanto ambientalismo di maniera, che si sofferma sulla parodia delle questioni ambientali più urgenti, non è altro che l’ennesimo escamotage del sistema odierno e delle sue tecnocrazie che rifiutano di porsi realmente in discussione.
Movimenti di crisi e depotenziamento della vita

Le esistenze si collocano oramai sotto il segno del disvalore o nell’economia dello scarto, il tempo vita è utilizzato in relazione alle esigenze sempre più mutevoli di economie e strategie al collasso, nessun progetto risulta in tal modo possibile, lo stato di sospensione è determinato dalla mancanza di ogni prospettiva. Tuttavia, ciò che è più grave è il sentimento di disorientamento che afferra un corpo sociale ormai abituato a delegare le proprie attese, il proprio soddisfacimento di vita di desideri e di affetti. Ci pensiamo come brandelli di un meccanismo inceppato e non riusciamo ad ipotizzare nemmeno l’opzione di un modo di esistere che capovolga l’attuale gerarchia del disvalore. In questo modo si accetta la cancellazione delle esistenze che sono integralmente esposte allo sfruttamento, al consumo e al debito infinito. Ogni segmento della vita stessa risulta sacrificabile, ne deriva in tal modo la profonda contraddittorietà della vulgata che ancora si ostina nel voler propagandare la persistenza di diritti inalienabili e non contrattabili. Nessun diritto, nemmeno il più elementare costituisce un elemento di garanzia e di inviolabilità della vita stessa, poiché è la vita intera che è messa in questione dal “mostro con l’amore in corpo” che avidamente ingloba il vivente.
Marx aveva già letto questa tendenza nell’analisi del dominio del lavoro morto su quello vivo, oggi che ci troviamo in un passaggio ulteriore che ci induce ad analizzare il dominio del vivente sul vivente collassato in un presente dilatato, dobbiamo ripercorrere alcune sottolineature del filosofo tedesco: “è appunto in quanto creatore di valore che il lavoro vivo è costantemente incorporato al processo di valorizzazione del lavoro oggettivato. Come sforzo, come estrinsecazione di energia vitale, il lavoro è attività personale del lavoratore; ma, in quanto creatore di valore, in quanto coinvolto nel processo della sua oggettivazione, il lavoro dell’operaio, entrato che sia nel processo produttivo, è esso stesso un modo di esistere del valore-capitale, sua parte integrante. Questa forza che insieme conserva valore e crea nuovo valore è quindi forza del capitale, e questo processo appare come il processo della sua autovalorizzazione; meglio ancora, dell’immiserimento dell’operaio, che crea valore ma lo crea come valore a lui straniero. (2)

Questa creazione di valore straniero che sottrae energia vitale riguarda attualmente l’esistenza intera non solo dei lavoratori salariati, quanto di tutti coloro che entrano in rapporto più o meno intermittente con il lavoro e la spesa di sé in quanto viventi. La messa al lavoro dei corpi, dei saperi, delle intelligenze, ma anche la polivalenza delle mansioni che gravano in modo sempre più deciso su ogni lavoratore ci rimandano a un sociale frattalizzato e al contempo soggetto a pressioni e ricatti sempre più pesanti.
I processi di delocalizzazione delle attività su scala planetaria non interessano unicamente le attività di fabbrica, ma anche i saperi, le capacità affettive ed emotive cui è chiesto decisamente di “reggere” ritmi e ventagli di “performatività”, sempre più elevati. È evidente che le identità sociali non riescono più in questo modo a costruire alcuna appartenenza, né con le proprie figure professionali, ma nemmeno con i luoghi, le abitazioni e le relazioni in cui si spende la vita.
Nella divaricazione sempre più ampia tra le nuove élite tecno-finanziarie e un sociale precarizzato e assediato dalla necessità di far fronte ai bisogni più elementari di vita, si incunea il ruolo decisivo della governamentalità che deve organizzare non solo il consenso, ma più profondamente deve forgiare i modelli di vita cui si è tenuti ad adeguarsi.
Il processo attraverso il quale i meccanismi e le tecniche di governo delle esistenze si declinano, sono raffinati e violenti al contempo. L’induzione verso stili di vita omologati, volti al consumo, alla significazione di sé attraverso il possesso di “cose”, il cui valore simbolico è superiore ad ogni effettivo bisogno costituiscono la sfera in cui si modella la proiezione della propria identità sia individuale che collettiva. Questa costellazione di simboli interiorizzata fin dalla primissima infanzia “lavora” voracemente allo spossessamento di ogni ipotesi di autorealizzazione. Il lavoro, la “fame di lavoro”, il bisogno di lavoro assumono in tal modo la forza travolgente dell’unica significazione di vita proprio nel momento in cui precarietà, espulsione dalla produzione, sottrazione di saperi definiscono il tempo delle nuove povertà. Povertà dunque non solo materiali, ma anche povertà di senso dell’esistere, povertà di affetti computati secondo valutazioni di certificazione, povertà creativa data l’impossibilità di poter persino pensare una diversa espressione di vita. (3)

A. Gorz, a proposito del meccanismo di spossessamento inesausto del Capitale odierno, sottolineava che: “la società complessa rassomiglia così a un grande macchinario: essa è, in quanto sociale, un sistema il cui funzionamento esige degli individui funzionalmente specializzati alla maniera degli organi di un corpo o di una macchina. I saperi specializzati in funzione delle esigenze sistematiche di ogni sociale non contengono più, per quanto complessi e sapienti siano, delle risorse culturali sufficienti a permettere agli individui di orientarsi nel mondo, di dare senso a ciò cui concorrono. Il sistema invade e marginalizza il mondo vissuto, ossia il mondo accessibile alla comprensione intuitiva e all’orientamento pratico-sensoriale. Esso toglie agli individui la possibilità di avere un mondo e di averlo in comune”. (4)
Questa sottrazione di mondo permette di comprendere come l’alienazione non possa più essere letta nel senso classico inteso da Marx, poiché alle sue caratteristiche originarie si sono aggiunte tecniche molto più pervasive di estraniazione che giungono a spossessare la “nuda vita” stessa nei suoi connotati di completa esposizione ai meccanismi di sottrazione, che sono movimenti di sottrazione biologica, materiale, affettiva, simbolica, emotiva, che deteriorano la nostra possibilità di ricomposizione ambientale. In proposito, U. Fadini, richiamando le analisi guattariane inerenti le tre ecologie, sottolineava: “Tale ricomposizione appare ancor di più indispensabile nel momento in cui si avverte un progressivo deterioramento dei rapporti dell’umanità con l’ambiente, la psiche e il sociale, non soltanto dal lato per così dire ‘oggettivo’, bensì anche da quello ‘soggettivo’, contraddistinto proprio da una ‘incomprensione’ e da una ‘passività fatalista’ rispetto al carico complessivo di questioni aperte dalla consapevolezza dell’accumulo di nocività e ‘polluzioni’ di ogni tipo”.(5)

Le nuove povertà si configurano come condizioni permanenti di assoggettamento e di degradazione delle vite, appaiono in tal modo sempre più esposte quelle esistenze che patiscono, patologizzano il proprio stato di fragilità, la percezione di inadeguatezza. Tale fragilità è sempre più erratica poiché risponde alla realtà polimorfa del capitalismo odierno e alle strategie biopolitiche che vi sono connesse. Riferendosi al liberalismo e al mercato come “luogo privilegiato in cui poter reperire gli effetti dell’eccesso di governamentalità”, il mercato appare come un piano che non esaurisce la “raison gouvernamentale”, Foucault osservava come il tema della “biopolitica” dovesse essere piuttosto inteso “alla maniera in cui si è cercato, dopo il XVIII secolo, di razionalizzare i problemi posti alla pratica governa mentale tramite i fenomeni propri di un insieme di viventi costituiti in popolazione: salute, igiene, natalità, longevità, razze…[…] il liberalismo è da analizzare allora come principio e metodo di razionalizzazione dell’esercizio di governo – razionalizzazione che obbedisce, ed è questa la sua specificità, alla regola interna dell’economia di massima”.(6)
È dunque l’articolazione delle pratiche di governo, che si declinano su scale differenziate di pressione, l’approccio che ci può aiutare a individuare le modalità di spossessamento in atto, modalità che incontrano nello stato di crisi uno degli strumenti più decisivi di frantumazione del sociale. Queste strategie necessitano anche di una nuova organizzazione spaziale in cui l’accaparramento dei suoli diviene sempre più espressione di una contesa che individua nello spazio, nella disponibilità di questo, l’indicatore e dunque il valore, all’interno del quale far rientrare tutti i bisogni e i diritti fondamentali di vita, mercificandone così la valenza.
Nel diritto allo spazio, inteso nella sua complessità, possiamo individuare in modo inequivoco il prodursi di processi di spoliazione che sottraggono (sia nel caso dell’azione pubblica che privata) le condizioni immediate di esistenza soggettiva e oggettiva. Lo spazio viene descritto da tutta una serie di processi speculativi che ne sottolineano la destinazione quasi sempre transitoria, così come appaiono transitorie le condizioni di vita che vi si spendono. Ora, questa transitorietà lungi dall’essere casuale è invece il dispositivo materiale immediato capace di indicare le linee di tendenza delle procedure alienanti del Moderno.
La condizione attuale dell’alienazione e dell’impoverimento delle soggettività dipende non solo dal modello dominante della comunicazione, ma anche dalle nuove geografie che ridisegnando i territori vi destinano anche i bisogni, gli affetti, le soddisfazioni, le relazioni, come abbiamo a più riprese sottolineato. Viene così a nodo quel necessario “slittamento di valori” indicato da F. Guattari, che precisava come: “La nozione di interesse collettivo dovrebbe venir allargata a delle attività che, a breve termine, non ‘danno profitto’ a nessuno, ma che, a lungo termine, sono portatrici di un arricchimento processuale per l’insieme dell’umanità. Ciò che qui è in discussione è l’insieme del futuro della ricerca fondamentale e dell’arte. Questa promozione di valori esistenziali e di valori di desiderio non si presenterà, lo sottolineo, come un’alternativa globale, costituita da capo a piedi. Sarà il risultato di uno slittamento generalizzato degli attuali sistemi di valore e attraverso l’apparizione di nuovi poli di valorizzazione”.(7)

Affinché tale slittamento possa prodursi, occorre considerare le condizioni attuali dello sfruttamento, che eccedendo la sfera del lavoro tradizionalmente inteso, opera attraverso l’intimidazione e la delegittimazione. Insomma è prioritario analizzare con attenzione la meta-narrazione a cui si appella l’odierno “modello di sviluppo”, una trama, questa, pseudo razionalista e pseudo scientifica, corredata da tutto il corollario estetizzante dei sistemi della comunicazione. In ragione di questa nuova e dilagante dogmatica, si decidono tutti i discrimine tra coloro che sono gli “inclusi” e gli “esclusi”, intimidendo i primi e minacciando i secondi. È questa la metamorfosi più recente del “mostro che lavora come se avesse l’amore in corpo”. È però adesso opportuno soffermarsi su come questo mostro disponga di una straordinaria capacità di codificazione linguistica; meglio il linguaggio è la forma più pervasiva attraverso la quale riesce a deprimere ogni senso critico, ogni obiezione. A giusto titolo Ch. Marazzi rileva come “Alcuni descrivono la situazione alla quale si è giunti parlando di ‘crisi di senso’, ossia l’incapacità di elaborare e di proporre a tutti i membri della società un sistema di riferimenti (idee, norme, valori, ideali) che permettano di dare un senso coerente alla loro esistenza, di costruire la loro identità, di comunicare con altri, di partecipare alla produzione, reale o immaginaria, di un mondo vivibile ed abitabile”.(8)
Il motivo che può agevolare la comprensione della situazione sopradescritta riguarda anche il tessuto di micro-relazioni di interesse, personali, lavorative che operando ai margini e anche in modo interstiziale produce un fenomeno di depotenziamento rispetto alla messa in atto di un piano di assunzione di cittadinanza, sostenuta dal riconoscimento pieno dei propri legittimi diritti. È dunque la nuova composizione di classe quella che richiede di essere considerata in modo più dettagliato, in quanto la parcellizzazione del ceto medio, la proletarizzazione di tutto un insieme di lavori della conoscenza, la delocalizzazione e l’uso indiscriminato dei lavoratori migranti sottopagati riconfigurano le soggettività coinvolte nell’attuale “crisi” di trasformazione e di senso del capitale odierno.
Urge in particolare soffermarsi sulle condizioni del lavoro, non lavoro, prestazioni varie cui le donne sono costrette in un intento di sfruttamento, che ha individuato in esse il più duttile “esercito di riserva”, esercito che trova il proprio comun denominatore nel genere più che nell’etnia, nella formazione, nei saperi o altro.
Le nuove proletarie
L’attuale sfruttamento si configura, con un’intensità straordinaria, come sfruttamento di genere. Le donne subiscono, a partire dalla propria specificità soggettiva, fisica, cognitiva un uso spregiudicato della vita intera, messa al lavoro in ogni piega disponibile. La crisi attuale, che interrompe la pseudo razionalità del meccanismo dell’accumulazione ininterrotta del capitale, rivela le modalità attraverso le quali le donne sono state utilizzate come ammortizzatori, forza lavoro flessibile, interstiziale senza che nulla fosse risparmiato né allo loro dignità, né ai loro corpi. Le meno uguali tra le nuove diseguaglianze del terzo millennio sono state oggetto anche di un violento attacco dei sistemi di comunicazione che, è bene ricordarlo, funzionano come mezzi di governance del conflitto nel nostro tempo. È necessario indagare approfonditamente questo attacco, poiché i paradigmi delle “società di controllo” sono eminentemente tecnologie che inducono la polverizzazione e l’immiserimento del sociale; in questo senso la condizione cui sono state costrette le donne, e aggiungerei i bambini, è la chiave di volta per meglio comprenderne gli intenti. Il capitale non è una macchina astratta, e pur essendo egemonico non è l’unica possibilità di pensare l’essere in comune, questo modello è dunque eminentemente storico e radicato sulla diseguaglianza di genere prima ancora che di classe, poiché per lungo tempo le donne hanno costituito una sorta di riserva dalla quale attingere gratuitamente e il cui statuto veniva riconosciuto in primo luogo nella funzione procreatrice. Funzione rivelatrice, al di là della quale, il femminile semplicemente veniva cancellato, non fanno in questo senso testo singole eccezioni o appartati campi separati che in ogni caso continuavano ad essere speculari al mantenimento del patto patriarcale.
L’attuale configurazione delle soggettività femminili come “esercito industriale di riserva” numericamente superiore ad ogni altro, ci induce a riflettere sul contraddittorio discorso della grammatica dominante che ha visto, nel divenire egemone della forma del capitale, anche uno strumento di “emancipazione femminile”. Quanto è avvenuto ci impone di trovare nuovi linguaggi e nuove espressioni al fine di poter parlare della frattalizzazione profonda dell’esistenza delle donne. Il cosiddetto processo “emancipatorio” ha richiesto costi drammatici, in primis la negazione delle peculiarità del genere sia da un punto di vista sessuale che dei saperi e della concezione della vita stessa. Ciò che più di ogni altra cosa si è nel tempo cercato di scongiurare è inscritto nel paradigma linguistico che ha legittimato una grammatica di cancellazione del pensiero altro rispetto all’esistenza, di cui il femminile è portatore. Non è questa la sede per un discorso che però mi ripropongo di riprendere quanto prima e in modo più ampio. Per ora mi limito ad indicare alcuni passaggi inerenti il discorso qui proposto.
Le “donne fantasma” hanno dovuto sopperire in mille modi alla sopravvivenza del discorso dominante, in ragione del quale l’unico modo di vita possibile, e dunque anche quello economico, non poteva essere altro che il modello del capitale e del circuito che si è spinto sino allo sfruttamento dei corpi, del “capitale genetico”, della cura, della mercificazione degli affetti, delle solitudini indotte, delle vecchiaie-vergogna, delle nascite pre-configurate atte a potenziare il delirante meccanismo dell’accumulazione.
Le donne non sono una classe sociale e non è utile appiattire la presente riflessione su di un piano economicista, le donne sono un altro sguardo e un’altra lingua di dire la vita, sguardo che fatica ad emanciparsi dal sistema di dominio, soprattutto nelle fasi in cui questo entra in “ristrutturazione”, ossia in crisi di riassesto sistemico. Questa peculiarità del femminile attiene la questione ambientale e l’attuale conflitto tra capitale e vita. La questione ambientale si esprime nel mettere al centro il problema di ciò che è necessario a potenziare la vita, dunque non tanto nell’indicare i limiti dello sviluppo a causa della limitazione delle risorse. Questa disposizione è tecnica e dunque incontra nell’intelligenza delle donne, nei loro saperi, nei loro corpi una capacità che sconfigge il presunto vantaggio antropologico del genere maschile. Siamo dunque di fronte a una svolta che, in quanto tale, non è priva di contrasti e conseguenze. Quello che sanno fare le donne non è solo sorreggere questo mondo disegnato dagli uomini, ma è soprattutto saperne immaginare e crearne un altro. Credo che la violenza alla quale abbiamo assistito nell’ultimo trentennio abbia voluto segnatamente rimarcare questo smarrimento da parte di chi un altro mondo proprio non lo sa pensare. Lo sfruttamento sociale, umano, affettivo e fisico si è fatto più virulento, perché connesso ad un processo di globalizzazione in cui culture originariamente diverse hanno però unitariamente spinto le donne a sacrificarsi in nome dell’uniformazione dovuta al paradigma del sistema globale.

Riflettendo sull’accumulazione originaria il geografo ed economista D. Harvey sostiene in proposito che: “L’accumulazione originaria stessa, in passato, ha portato a fabbricare asserzioni di superiorità ‘naturale’, e dunque biologica, che a loro volta hanno legittimato forme di potere gerarchico e di dominazione di classe, a dispetto delle affermazioni religiose o laiche di uguaglianza di fronte a Dio o allo Stato (come nella Rivoluzione americana e in quella francese). Nel corso della sua storia il capitale non ha mai minimamente esitato a sfruttare, per non dire promuovere, queste frammentazioni; ma anche gli stessi lavoratori, molto spesso, sono impegnati a definire mezzi di azione collettiva che si fermano ai confini delle identità etniche, religiose, razziali o di genere. Per esempio, negli anni cinquanta e sessanta le organizzazioni sindacali negli Stati Uniti cercarono di frenare la concorrenza nei mercati del lavoro imponendo esclusioni basate sul colore della pelle e sul genere. La capacità di preservare tali distinzioni è illustrata dal fatto che dopo quasi un secolo di campagne a favore del principio di ‘parità di retribuzione a parità di lavoro’, il divario retributivo tra uomini e donne non è scomparso neppure negli Stati Uniti, dove le pressioni sono state probabilmente più forti”.(9)
La pertinenza di questa analisi è senz’altro condivisibile, tuttavia mi preme riprendere una questione essenziale e non a caso spesso trascurata; il lavoro femminile ha sempre funzionato come elemento residuale, perché non si è voluto, e le donne stesse non sono riuscite a rompere sino in fondo questa reticenza, considerare un approccio diverso all’oikos che rompe inevitabilmente con il delirio autogiustificazionista del modello capitalistico.
Ora questo approccio non ha nulla a che vedere con le pratiche di amministrazione di un bilancio domestico o con la predicazione di un “saggio” ritorno al passato. L’approccio per un’altra economia non è pauperista, e nemmeno rinunciatario riguardo all’impiego delle tecnologie e dei saperi più avanzati, anzi sono proprio questi ultimi che permettono la messa in valore di una visione a diversa scala dei bisogni. A. Heller in una bella intervista, si sofferma proprio sulla necessità di superare la stretta indagine del modello capitalistico, soffermandosi piuttosto su una più profonda attenzione verso il Moderno: “Quel che va indagato è il concetto di modernità, ben più vasto rispetto a quello di capitalismo. Io non credo che sia la storia a essere cambiata, ma la coscienza di essa: dopo il ’68 si è inaugurato un nuovo modo di guardare alla modernità. Le grandi narrazioni sono finite. Ed è difficile riuscire a guardare al di là del proprio orizzonte personale e del proprio presente. Nella modernità c’è un movimento pendolare tra universalismo e particolarismo che si esprime, per esempio, nella tensione costante tra cattolicesimo e protestantesimo; o ancora, in economia, tra libero mercato e interventismo. Altri movimenti pendolari verranno, ma la tensione non arriverà mai fino al punto di rottura. Ora, io mi domando: la fine delle grandi utopie è una perdita o un guadagno? che cosa oggi è più importante e per chi? È questo che va analizzato: nonostante il collasso delle grandi speranze, tuttavia ad esse si deve un grande rispetto”.(10)

Un simile approccio considera la produzione di pratiche immediate, senza attese messianiche, e permette il ripensamento delle relazioni affettive in termini di soddisfazione sociale, nella cura e nella condivisione di spazi e tempi non più scansionati dal mortifero meccanismo di esclusione/inclusione legittimato da improbabili gratificazioni future.
Il potere che deve essere praticato è una potenza e non un meccanismo di selezione comunicativo-economico della specie. Le donne dovranno rompere gli indugi spezzando ogni qualsivoglia connivenza con il discorso del dominio che abbiamo ereditato. Le strategie della paura, la continua minaccia di crisi e bancarotte non devono funzionare come un alibi atto a legittimare la nuova violenta discriminazione di genere e di classe che ne consegue. Questo modello è un modello che salvaguarda solo le élite e che non è più capace di pensare in termini collettivi alcuna emancipazione. Le nostre vite, i nostri corpi sono sempre più materiali disprezzati di un sistema della comunicazione che non si perita nemmeno di celare il cinismo che lo anima.
Le pratiche che sono chiamate a contraddire e a confliggere con tale schizofrenia sono necessariamente pratiche territoriali, pratiche di riconoscimento delle reali condizioni di vita in cui ci si trova, pratiche in cui la messa in opera di relazioni e di reti diviene prioritario per la condivisione di linguaggi capaci di rovesciare la tautologia mediatica che ci assedia. I saperi sono i saperi che appartengono ai corpi in quel connubio di ancestrale e tecnico che costituisce il possibile vantaggio dell’umano.
L’autocreazione delle soggettività oltre che a prodursi per concatenazioni affettive richiede la messa in opera dell’opzione ambientale; in altri termini si tratta di realizzare la creazione di ecosistemi di pratiche economiche, di saperi, affettive che delineino i campi di azione dell’ecologia sociale in modo orizzontale e autodeterminato.
Ecologia sociale: pratiche e saperi
L’approccio ambientale possiede una praticabilità piuttosto immediata, ma che richiede la creazione di “piani” in cui conoscenze, spazi, accoglienza siano in grado di mettere in valore socialmente le molte cognizioni di cui disponiamo. La proletarizzazione del lavoro cognitivo oltre alla mortificazione dei soggetti che ne consegue, determina, attualmente, una sempre più acuta biforcazione tra saperi applicativi e saperi creativi il cui discrimine passa attraverso il taglio sempre più profondo all’accesso. La standardizzazione dei saperi di base svuota ogni possibilità di uso alternativo o innovativo. L’ecologia sociale deve dunque mettere al centro il problema di un’articolazione intensa delle conoscenze, riservando alle spinte creative e trasformative uno spazio primario. L’otium deve svolgere una funzione di primo interesse, deve tornare cioè ad essere una condizione di sottrazione nei confronti di quelle che possiamo ormai definire le nuove alienazioni.
Ma gli ambiti che costituiscono il farsi, la fase costituente, di quella che in “Millepiani” a più riprese abbiamo chiamato ecologia sociale, e più precisamente ecosofia, richiedono un approccio plurale in ragione della quale la metodologia foucauldiana può essere di notevole aiuto. Scrive Foucault: “Vorrei proporre un altro modo per procedere ulteriormente verso una nuova economia dei rapporti di potere, un modo più empirico, collegato più direttamente alla nostra situazione attuale, che comporta un legame più forte tra teoria e pratica. Consiste nell’assumere come punto di partenza le forme di resistenza contro le diverse forme di potere. Per usare un’altra metafora, esso consiste nell’usare tali resistenze come un catalizzatore chimico per portare alla luce i rapporti di potere localizzarne la posizione, individuarne il punto di applicazione e i metodi adottati. Invece di analizzare il potere dal punto di vista della sua razionalità interna, si tratta di analizzare i rapporti di potere attraverso l’antagonismo delle strategie. Ad esempio, per scoprire che cosa la nostra società intende per normalità, forse dovremmo indagare cosa avviene nel campo della follia. O cosa intendiamo per legalità nel campo dell’illegalità. E così per capire quali sono i rapporti di potere in gioco, forse dovremmo indagarne le forme di resistenza e i tentativi che sono stati fatti per scindere tali rapporti”.(11)

La proposta può allora essere quella di analizzare l’attuale espropriazione delle esistenze da un punto di vista linguistico-comunicativo e ambientale-territoriale. Necessitiamo di nuovi concetti e dunque di altri linguaggi per riuscire a dire dell’impoverimento, dell’intristimento prodotto dalla precarizzazione delle condizioni materiali di vita, che hanno subito in concomitanza la colonizzazione di una comunicazione pornografica e violentemente tesa ad orientare il senso di appartenenza alla comunità dei lavoratori-spettatori-consumatori. Gli imperativi dell’efficienza, della duttilità, della docilità, dell’adeguamento sono compensati da solitudini video alimentate, da incapacità sempre più patologiche nello stabilire affetti e reti solidali. I processi di soggettivazione devono ripensare la propria materialità, o meglio, la propria corporeità, corpi che altrimenti diventano invisibili se non risultano più utili a soggiacere al tritacarne di una dogmatica che impone la perdita di senso delle esistenze. Cosa accade in un simile contesto? Paura e povertà sono i fantasmi con i quali viviamo, dormiamo e sogniamo. Fantasmi tanto più potenti, quanto meno sono condivisibili. Le tecnologie della confessione potevano dare un qualche risultato laddove erano garantite da un discorso comune che attualmente però appare del tutto sfrangiato. L’ecologia sociale deve sapere di nuovo immaginare ambienti di felicità, rimando in proposito al bel testo di N. Lonzi, presente in questo volume.
Bisogna emancipare questi desideri e questi bisogni dalla sfera dell’utopia restituendone la forza creatrice così umiliata dalle odierne forme di spossessamento, di alienazione.
Questi ambienti di desiderio devono ripensare i bisogni, sarebbe forse utile in proposito riprendere la riflessione sulla teoria dei bisogni e le analisi della Heller, qui prima richiamata. I beni “in comune” sono ben di più di quelli oggi ritenuti “essenziali” e con fatica strappati ai meccanismi di privatizzazione, tra questi ci sono gli spazi, i territori dove spendiamo le nostre esistenze. È forse in questa direzione che intende muoversi la costituenda “Carta dello spazio pubblico”? Tra i diversi enunciati possiamo leggere: “La ‘Carta dello Spazio Pubblico’ sarà il documento di tutti coloro che, in Italia ed in altri paesi, credono nella città e nella sua straordinaria capacità di accoglienza, solidarietà, convivialità e condivisione; la sua inimitabile virtù nel celebrare la socialità, l’incontro, la convivenza, la libertà e la democrazia; e la sua vocazione ad esprimere questi valori attraverso lo spazio pubblico”.(12)

Nella visione ambientale dell’ecologia sociale, al di là, delle varianti di percorso si pone così il problema di una riflessione che ritenga tutti i beni fondamentali per la soddisfazione della vita, e dunque non solo quella umana vista la stretta interpolazione tra le diverse forme del vivente, in cui lo spazio appare come dimensione prima, poiché comprende tutte quelle risorse e condizioni che sono per diritto collettive.
P. Geoge già nel 1968, in un testo intitolato L’action humaine, avvertiva il comporsi di strategie della diseguaglianza sempre più acute, prendendo come riferimento l’uso dello spazio urbano, “I differenti stadi di sviluppo delle tecniche – scriveva il geografo francese – sono aumentati brutalmente nel corso dell’ultimo secolo, hanno aggravato le ineguaglianze fra le collettività umane. Gli immensi progressi delle tecniche fisico-chimiche, il calcolo matematico applicato all’industria, che preparano l’utilizzazione comune dell’energia nucleare, sono ben lungi da aver promosso insieme uno sviluppo globale dell’umanità. L’agricoltura di certe regioni africane o sud-americane ha appena sorpassato le tecniche del neolitico. […] non è uno fra gli scopi minori e meno interessanti della geografia quello di mostrare la diversità dell’impronta umana sulla terra, la discontinuità delle forme che gli uomini hanno dato alla sua organizzazione materiale e anche le contraddizioni fra le tendenze uni formatrici e le crescenti distorsioni”.(13)

A questa prefigurazione dello scorso secolo corrisponde ora un compiuto inverarsi di catastrofi, del resto ben analizzate da P. Virilio,(14) che hanno posto l’attuale scientismo in una situazione di blocco di sistema che si articola a livello planetario. Le contraddizioni sono divenute laceranti in ragione di una sottrazione di prospettiva che attanaglia, anche se con intensità diverse, il mondo intero. L’interdipendenza delle diverse economie, l’imperio di una élite transnazionale acefala, fanno riflettere su qualcosa di terribilmente attuale di cui si cerca di non parlare, a causa di quel moto disperato di consegna alle pretese irrazionali dei tecnopoteri odierni, che ci propongono una ragion d’essere che si vuole arresa e subalterna. L’impotenza del pensiero è inevitabilmente impotenza di vita, fuoriuscita dal futuro. La pura protesta che ovunque dilaga non è una risposta adeguata, si limita ad essere sintomo, segnale del disagio, afasia che non supera il limite interiorizzato della presunta “naturalezza dello stato delle cose”.
Riprendere il filo di un discorso interrotto è un altro compito che spetta all’ecologia sociale, che più che essere un nuovo campo disciplinare, riannoda i fili strappati del pensiero critico e della sua intelligenza. Il richiamo a talune analisi marxiane che attraversano diversi interventi di questo volume, si inserisce in questi percorsi peraltro frequentati e mai marginalizzati da tutti gli autori che “Millepiani” nel suo percorso non ha smesso di considerare. Nei Grundrisse, Marx riprendendo i temi delle analisi compiute nel 1844, scriveva: “Finché il capitale è debole, esso cerca di appoggiarsi sulle stampelle di un modo di produzione scomparso o in via di sparizione; non appena si sente forte, egli si libera dalle sue stampelle e si muove conformemente alle sue leggi proprie. […] Perciò nessuna delle categorie dell’economia borghese – neppure la prima, cioè la determinazione del valore – si realizza grazie alla libera concorrenza, ossia attraverso il reale processo del capitale che si presenta come interazione reciproca dei capitali e di tutti gli altri rapporti di produzione e di scambio determinati dal capitale.
Da ciò deriva originariamente l’idea assurda secondo la quale la libera concorrenza significa l’ultimo sviluppo della libertà umana, e che la negazione è la negazione della libertà individuale e della produzione sociale fondata sulla libertà individuale. Questo ‘libero sviluppo’ possiede un ben misero fondamento: il dominio del capitale. Questo genere di libertà individuale è in realtà la soppressione di ogni libertà e la soggezione totale dell’individuo a condizioni sociali che assumono la forma di potenze oggettive, anzi di oggetti strapotenti, di oggetti indipendenti dagli individui che ad esse si riferiscono
”.(15)

Il salto sistemico avvenuto nell’oggi ha le caratteristiche di un’accelerazione delirante che produce forme antiche e nuove di alienazione sbriciolando parimenti le soggettività, le corporeità, la materialità degli spazi, l’immaginario singolare e collettivo in una corsa sostanzialmente priva di esito. Il ripensamento dei modi di vita possibile, il richiamo ad una tecnicità non appiattita puramente sul consumo sono elementi di una messa in valore possibile di soggetti e collettività in grado di produrre ambienti più soddisfacenti, di superare i conflitti dovuti alle troppe sperequazioni e di comprendere che se di miseria dobbiamo occuparci, questa attiene all’umano, al suo lato predatorio, condizione che nessun umanesimo ha saputo guardare. L’ecologia sociale tra i suoi diversi compiti deve essere in grado di confrontarsi anche con quel negativo rimosso che altrimenti non potrà che tornare nelle forme mai smentite dei poteri nichilistici. La trasvalutazione di tutti i valori è adesso; così nelle parole di Nietzsche: “Un quantum di forza è esattamente un tale quantum di istinti, di volontà, d’attività – anzi esso non è precisamente null’altro che questi istinti, questa volontà, quest’attività stessa, e può apparire diversamente soltanto sotto la seduzione della lingua (e degli errori radicali, in essa pietrificatisi, della ragione), che intende e fraintende ogni agire come condizionato da un agente, da un ‘soggetto’ ”.(16)


Note

1.Le riflessioni qui proposte si inseriscono nel progetto che negli ultimi anni “Millepiani” continua a proporre ponendosi in modo progettuale e non descrittivo rispetto allo stato delle cose. L’insistenza sul tema dell’ecologia sociale richiede una messa in campo di tutti quegli autori, classici e no, che costituiscono l’ambiente di analisi necessario a tutte quelle pratiche e discipline che intendono attraversare l’attuale crisi nel segno di un mutamento etico politico capace di riproporre il bisogno di felicità e soddisfazione dell’esistere.
2.Marx K., VI capitolo inedito, p. 18-19.
3.L’atto di creazione è inteso da Deleuze come atto di resistenza, vedi in proposito: Deleuze G., Qu’est-ce que l’acte de création ? Conferenza nell’ambito dei “mardis de la fondation Femis” - 17/05/1987.
4.Gorz A., écologica, Paris, Galilée, 2008, p. 50.
5.Fadini U., Etica e politica in una prospettiva ecosofica, in “Millepiani”, n. 36, Ecosofia critica, Milano, Eterotopia, 2010, p.42.
6.Foucault M., Naissance de la biopolitique, Paris, Gallimard-Seuil, 204, p. 323.
7.Guattari F., Le tre ecologie, Torino, Sonda, 1991, pp. 42-43.
8.Marazzi Ch, Il posto dei calzini, Bellinzona, Casagrande, 1994, pp. 65-66.
9.D. Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, Milano, Feltrinelli, 2011, pp. 72-73.
10.Intervista ad Agnes Heller, in www.sitocomunista.it/donne/…
11.Foucault M., Poteri e strategie, Milano, Mimesis, 1994, pp.106-107.
12.Pietro Garau, http://www.biennalespaziopubblico.it/2011/05/23/carta-spazio-pubblico/
13.George P., L’organizzazione sociale ed economica degli spazi terrestri, a cura di T. Isenburg, Milano, Franco Angeli, 1971, p. 221.
14.Paul Virilio analizza da lungo tempo la logica tecno-scientifica votata a procedure di distruzione su scala sociale e ambientale piuttosto che di progresso, tra i suoi diversi scritti vale la pena di menzionare, Ce qui arrive, Paris, Galilée, 2002.
15.Marx K., Grundrisse, Il lavoratore davanti all’automazione, concorrenza e libera individualità, 1859.
16.Nietzsche F., Genealogia della morale (a cura di G. Colli e M. Montinari), Milano, Mondadori, 1979, p. 36.