Espoarte Anno 13 Numero 77 agosto-settembre 2012
La complessità semplice
Si rimane ancora un po’ sconcertati davanti a certi vertici di estremismo e rigore che raggiungono alcuni artisti con la concentrata ripetizione del loro codice comunicativo, eppure in questi casi il linguaggio, che solo superficialmente pare una pedissequa ripetizione di una forma già vista e sperimentata, si rigenera in una libertà infinita di significazioni e novità. A questi artisti, che ancora oggi ci sembrano tanto trasgressivi ed incomprensibili, basta avere un modulo caratteristico, un’impronta digitale che li contraddistingue, per creare un nuovo mondo. Per delineare i profili di universi inattesi e imprevedibili, pur celandosi quasi nell’anonimato. Sono in prevalenza i linguaggi astratti ad accentuare questo tipo di ricerche, imperscrutabili nella disarmante chiarezza dei loro esiti.
Partiamo da alcuni numeri: 1965 e 8,7. Un anno, il primo, una misura in centimetri, il secondo. Due cifre che racchiudono l’inizio e la storia, che tuttora prosegue, dell’artista francese Daniel Buren, uno dei maggiori interpreti dell’arte contemporanea europea ed internazionale. Nella metà esatta dei favolosi anni Sessanta, Buren, che si era formato presso l’École des Métiers d’Art per passare poi alla École Nationale Supérieure des Beaux-Arts, dopo aver ceduto inizialmente alla seduzione della materia pittorica dettata dall’informale, proprio nell’anno cui si accennava, arriva a superare l’ingombrante fardello di tradizioni e linguaggi che sentiva obsoleti e sovraccarichi di espressioni; inizia quel processo di sintesi che lo porta ad annullare progressivamente la presenza e l’ego dell’artista stesso. I mezzi cui ricorre ora si fanno disciplinati, trattenuti da un’economia ferrea degli strumenti pittorici e, facendo questo, lascia proprio scomparire il contenuto di magica illusione che si era accompagnato sempre all’opera d’arte. Non ci sono più gli umori e i fermenti. Non ci sono più le vibrazioni palesate in fitte trame coloristiche. Sparisce tutto. Resta l’alternanza piatta di righe colorate. Strisce di 8,7 centimetri di larghezza – il nostro secondo numero citato poco prima – che, a tinte piatte, rievocano immediatamente l’immagine dei tessuti delle tende. Buren ha impedito ogni altra possibilità al fare dell’artista, che non sia un asettico intervento, quasi chirurgico, sulla dislocazione delle opere. Strisce di un solo colore che si frappongono al bianco. Interventi a strisce che paiono il risultato di una produzione industriale. Un orrore per i grandi maestri, ma lui non pare proprio curarsi di critiche e scetticismi. Lui, come alcuni altri della sua generazione, ha continuato, e insiste tutt’oggi, a riproporre sempre lo stesso modello (sono davvero minimi i cambiamenti che apporta nel tempo).
Detto questo nell’opera finita l’artista rimane, di fatto, l’invisibile coreografo di un lavoro che, a sua volta, pare stentare a dichiararsi. In questa impostazione solo una pittura che ha rinunciato con convinzione e consapevolezza al soggetto narrativo, scivolato nella totale in-differenza, può trovare modo di offrirsi altrimenti allo sguardo. La s-personalizzazione trovata da Buren manifesta un massimo grado di minimalismo indifferente alle emozioni esplicite – come i compagni del gruppo BMPT (Buren, Mosset, Parmentier, Toroni) – e da questo momento in avanti – dal 1965 – tutte queste problematiche interne all’opera saranno i suoi temi cruciali, pertinenti a tutto il suo processo artistico per i decenni a venire.
I suoi teli a strisce si dislocano nello spazio. Si legano all’ambiente circostante e diventano fenomeno percettivo, catalizzatore delle potenzialità inespresse dal circostante. Qui sta il grande valore e la grande capacità dell’artista francese: ha saputo delegare all’opera, nella sua industrializzata manifestazione, il rendersi artefice di una valorizzazione – e di una sottolineatura del contesto in cui si inserisce – che non ci si sarebbe aspettati.
Inizia così Buren. I colori primari, piatti, lisci, senza accenni a sfumature. Geometria e astrazione. Una miscela alchemica con cui farsi tramite della dilatazione dello spazio, ben oltre il campo pittorico, nella riqualificazione di un’area o un ambiente, anche (soprattutto!) architettonico. Una piccola porzione che declina e scandisce tutte le altre circostanti, ricaricando di potenzialità sopite ogni ambiente e ogni luogo in cui si posizionano. Sempre solo 8,7 centimetri e un colore piatto esprimono il divenire possibile del visibile. Un aspetto inscindibile dal suo fare è quello, quindi, di lavorare in situ: ogni suo intervento si calibra e modella strettamente relazionandosi all’ambiente e al contesto nel quale va ad inserirsi e che poi lo egemonizza.
Tra gli ultimi suoi lavori, l’esempio eclatante è stata l’opera presentata in occasione della V edizione di Monumenta. Buren si è espresso nel migliore dei modi possibili e anche in quello più spettacolare: pensando alla quinta della grande navata del Grand Palais, che tutti ben conosciamo per gli interventi sorprendenti degli artisti che l’hanno preceduto, ne ha ricavato una personalizzazione ed una interpretazione unica. Senza eccedere, senza tradire il suo modus operandi.
Qui l’opera, multicromatica, si è colloca sulla volta a vetri trasparenti, dove, secondo il variare della luce del giorno, si accendeva di infiniti colori che, seppur asettici e sempre stesi piatti e meccanicamente, conferivano ad ogni velatura una consistenza architettonica inedita e irripetibile. Quest’opera, che richiamava in causa in modo diretto i fruitori-spettatori, dimostra quanto l’assente presenza dell’artista attivi silenziosamente un dispositivo architettonico assai articolato. Lo scenario cangiante crea lo spaesamento rispetto ad un luogo conosciuto; la polisinfonia cromatica agisce da filtro per la struttura architettonica dell’edificio facendola diventare uno scenario elettrizzante e pulsante. Buren riesce in questa operazione, sempre occultando il suo intervento, ad elettrizzare lo scenario che si recepisce come un nuovo luogo di suggestione e interesse. Oltre che di conoscenza sensibile, benché silenziosa. Un’emozione pantagruelica per la vista e per la traccia che all’anima si consegna.
Ricordiamo che, per questa occasione, in collaborazione con Illy, l’artista francese ha realizzato anche una nuova serie delle celebri tazzine proposte per la collezione Illy Art Collection, in cui non si è risparmiato dal ripercorrere il suo linguaggio: i piattini delle tazze, in scala crescente di diametro, simulano le celebri righe dell’artista viste in prospettiva.
Daniel Buren ha fatto della concisione del suo linguaggio un metodo che consegna la sua ricerca all’atemporalità interiore dell’esperienza dentro la quale, nei recessi più profondi, l’immagine torna ad essere testimonianza epifanica di un mistero s-velato. Tutto da un gesto semplice che ci ha lasciato tanto stupiti quanto interdetti. Ci stupiamo ancora per le cose semplici? Eppure sono le più sorprendenti. Quelle che, lasciandoci meravigliati producono le interrogazioni più profonde. Anche partendo solo da 8,7 cm.