Equipèco Anno 9 Numero 34 inverno 2012
La mostra esplora un momento cruciale della storia dell’arte, quello della nascita di un’arte feconda e culturalmente rilevante che fiorì in Papunya, nell’Australia, centrale e poi irradiata in tutto il mondo. Gli anni 1971-1972 – epoca di cambiamento per l’Australia – hanno visto, infatti, il linguaggio visivo dei deserti del Centro e dell’Occidente, in precedenza espresso in modo effimero e nascosto, ridefinirsi non con la forma convenzionale ma come pittura resistente su pannelli in truciolare.
La mostra mette a fuoco quasi 200 dei primi dipinti realizzati in Papunya tra il 1971 e il 1972. Queste opere straordinarie, fatte da 20 dei 25 artisti fondatori del Papunya Tula, configurano un corpus impressionante, di profondo contenuto.
Le opere sono riunite per la prima volta dopo l’inizio di una storia che risale ad una quarantina d’anni fa.
L’iconografia potente e la filosofia che pervade questi dipinti sono collegate al Tjukurrtjanu (dal tempo del sogno) e rivelano la stretta relazione che li unisce ai riti riservati agli uomini, ai luoghi sacri dei loro territori e al Tjukurrpa.
Se tutta l’arte è politica, nessuna più di questa, ha un immenso valore simbolico come espressione d’identità e di un radicamento culturale e spirituale collettivo.
Dal punto di vista del loro significato letterale, non esiste un equivalente in altre culture, di questi significanti codificati in una conoscenza ancestrale, musicale e geografica.
Altresì, e questo è un aspetto essenziale, questi lavori possiedono una valenza estetica e una potenza visiva che non può sfuggire all’osservatore. L’uso del punto in queste opere è soltanto una delle illustrazioni simboliche della loro duplice funzione. Se è vero che agiscono in completa autonomia estetica, quale elemento di pura poesia, l’uso del puntinismo come elemento di riempimento o di bordatura ha la sua origine nelle cerimonie degli uomini, le pitture sui corpi, l’arte sulle pareti e gli scudi dipinti; si ritrova anche nell’impiego di fiocchi di cotone selvatico legati alle pitture del suolo o agli ornamenti del corpo.
Come introduzione storica ai dipinti, la mostra presenta una collezione di rari scudi dipinti, in gran parte raccolti da questi pionieri che erano gli antropologi Baldwin Spencer e Francis Gillen.
Altri oggetti, di fondamentale importanza e significato storico eccezionale, sono raccolti nella prima sezione – sono i suoi scudi ed eliche, ricoperti di color ocra e incisi, coltelli di pietra, cuffie, ciondoli di conchiglie di madreperla, ornamenti effimeri del corpo – che rilevano la continuità tra passato, presente e futuro, un concetto centrale per l’arte e la cultura del deserto dell’Occidente oltre il Tjukurrpa.
La mostra rende anche conto del dialogo intrinseco che unisce l’iconografia e la dinamica spaziale dei primi dipinti e la loro storia nei motivi “riservati” soltanto alle cerimonie.
I primi dipinti, nel proposito archetipico della raccolta, annunciano queste opere monumentali in seguito divenute rappresentative dell’arte della Papunya Tula, esse sono fondamentali per la narrazione storica del Tjukurrtjanu.
Dopo aver negoziato una transizione delicata tra le cerimonie riservate agli uomini e la divulgazione dei loro riti nello spazio pubblico dello Stuart Art Centre ad Alice Springs nel 1971, l’arte del deserto dell’Occidente è completamente sbocciata dalla metà degli anni 1970 e il 1980.
Gli artisti fondatori, tra i quali Johnny Warangkula Tjupurrula, Clifford Possum Tjapaltjarri, Tim Leura Tjapaltjarri, Uta Uta Tjangala e Mick Namarari Tjapaltjarri, hanno dipinto tele epiche di grandi dimensioni che inventariano ingegnosamente i vasti spazi dei deserti Australiani e i disegni dipinti sul suolo per i riti riservati agli uomini.
Il linguaggio visivo delle campiture di colori coperti da punti e da una fitta rete di cerchi e di strade – che mappano concettualmente le grandi estensioni di terra e codificano i nomi dei siti e dei percorsi seguiti dai mitici antenati durante i loro viaggi – è passata da uno stato marginale a quello d’indicatore identitario dei comproprietari dei motivi nella percezione del pubblico.
L’arte dell’”altro” è diventata l’orgoglio di tutti gli Australiani.
Quarant’anni dopo la loro nascita in Papunya, i primi dipinti hanno un riconoscimento sorprendente. In alcuni ambienti occidentali, gli è assegnato il ruolo di oggetti “feticci” e sono considerati come quelli che hanno trasformato la percezione reale dell’arte Aborigena e del paesaggio australiano.
Lo stretto rapporto che esse manifestamente intrattengono con i riti sacri degli uomini – come evidenziato dalla rappresentazione di oggetti e arnesi rituali di accesso riservato – solleva una difficoltà per i loro autori e i loro discendenti. Tenendo conto della divergenza di opinioni sullo stato di questi dipinti e delle domande circa la rilevanza della loro presentazione agli occhi dei profani, abbiamo consultato, con tutto il rispetto e la cura necessaria, i produttori delle opere e dei loro discendenti sull’adeguatezza della loro esposizione e la loro pubblicazione.
In accordo con il protocollo culturale Aborigeno, abbiamo deciso di presentare in uno spazio separato i dipinti che potevano suscitare la disapprovazione dei visitatori Aborigeni e di non riprodurli nel catalogo.
La preparazione di AUX SOURCES DE LA PEINTURE ABORIGENE deve molto alla competenza degli specialisti di questi settori complementari che riguardano l’antropologia e la storia dell’arte e si è basata sull’esperienza di chi ha da qualche tempo lavorato con gli artisti in Papunya, Papunya Tula e altrove.
I saggi e le fotografie qui pubblicate rafforzano la volontà degli organizzatori della mostra di favorire il dialogo tra antropologi e storici dell’arte.
Le abbondanti fonti su cui si sono basati i ricercatori, provengono dal gruppo degli agenti di coordinamento artistico, da collezionisti e da filosofi, esse approfondiscono la conoscenza di questo momento di mutazione della storia dell’arte in Australia.
[Traduzione dal Francese, C. M. Muliere]