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Espoarte Anno 14 Numero 79 gennaio-marzo 2013



Hans Ulrich Obrist

Ginevra Bria

The art of expanding notions



Contemporary Art magazine


SOMMARIO N.79
Antineutrale #5 | Post-Arte, Zeitgeist e Weltanschauung | di Roberto Floreani

Esercizi di stile | Arte: fatti infrastruttura. Colmare, attraversare, far correre e lasciare | di Luisa Castellini

Pensieri Albini #12 | di Alberto Zanchetta

New Media Art | Doug Aitken. Altered Earth: un’opera d’arte multimediale e un’applicazione web | di Chiara Canali

Gremlins | Cinema in pillole. Come disintossicarsi dal Natale | di Mattia Zappile

Concetti visibili | L’opera che sta in mezzo a noi | di Leonardo Conti

Tonosutono – La musica è sempre e solo una: quella buona… | Stravinskij = Miles Davis = Jimi Hendrix: l’originale viaggio di Enrico Merlin nella musica del Novecento | di Gabriele Salvaterra

Hans Ulrich Obrist | The art of expanding notions | intervista di Ginevra Bria

Mirko Baricchi | Sempre più incline al rischio dello sconosciuto, in favore della meraviglia | intervista di Viviana Siviero

Fermo immagine | David Reimondo. Non di solo pane… | di Chiara Serri

Roman Signer | Il tempo materiale | intervista di Ginevra Bria

Speciale Mumbai
Mumbai Mon Amour. La deflagrazione della bomba chiamata arte indiana | di Igor Zanti
Mumbai Vague. Luoghi, persone, idee, progetti della New York indiana:
Sakshi Gallery – Intervista a Geetha Mehra | di Igor Zanti
Gallery Maskara
Project 88
The Guild
Curator “Masala”. Il contemporaneo in India, parola di curatrice:
Riflessioni di una testimone del “Rinascimento” indiano | di Kanchi Metha
Una nuova estetica per l’India contemporanea | di Veeranganakumari Solanki

Design Limited Edition | CTRLZAK | Enigmi creativi: cancellando si crea | di Ilaria Bignotti

Fermo immagine | Dhruv Malhotra. La notte, sotto il cielo di Noida | di Francesca Di Giorgio

Giovani
Cristina Gardumi | Solo perché lo senti non è detto che sia così | di Viviana Siviero
Giorgio Tentolini | Corpi rarefatti: l’uomo incorporeo in cerca di una storia | di Matteo Galbiati
Laura Giardino | Il senso dell’attesa | di Chiara Serri
Tania Brassesco e Lazlo Passi Norberto | L’essenza della decadenza | di Alessandro Trabucco

Talkin’ | Cabib’s Format | di Giovanni Cervi

PierPaolo Koss | Dall’io al corpo pubblico | intervista di Viviana Siviero

Talkin’ | Lori Nix. Cose dell’altro mondo | di Ilaria Bignotti

Caterina Crepax | Guido Crepax, il Conte Dracula e Valentina | intervista di Francesca Caputo

Open Studios | Bigas Luna e Paolo Maggis. A tu per tu. Fatti di vita ed arte | di Alberto Mattia Martini

Gianni Pettena | Architettura come reversibilità di Natura | intervista di Ginevra Bria

Speciale Design Sostenibile
Design Sostenibile. È bello ciò che è bene | di Alice Zannoni
Come costruire bene il mondo? Il compito morale del design e le 8R di Latouche | di Alessandra Giacardi e Massimo Ferrando
Sperimentazioni contemporanee per un design sostenibile | a cura della Redazione

Nathalie Djurberg e Hans Berg | Favole per soli adulti per il Premio Pino Pascali 2012 | intervista di Daniela Trincia

Nuovi Spazi | Officina delle Zattere a Venezia. Un laboratorio aperto alla sperimentazione trasversale | Intervista a Marco Agostinelli e Germano Donato di Francesca Di Giorgio

Fermo immagine | Naufus Ramìrez- Figueroa. Dalla terra di Xoaticol | di Francesca Di Giorgio
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Youssef Nabil, "Hans Ulrich Obrist", Londra 2012

Alberto Garutti, "Didascalie", 2012
stampa digitale su fogli di carta colorati, pile di fogli cm 43,5x64, altezze variabili
Courtesy: Massimo Minini
Foto: ® Delfino Sisto Legnani

Jonas Mekas,
veduta dell’installazione alla Serpentine Gallery, Londra, 5 dicembre 2012 – 27 gennaio 2013
Foto:
© 2012 Jerry Hardman-Jones

16 novembre 2012, Milano. Hans Ulrich Obrist inaugura Didascalia di Alberto Garutti, al Padiglione d’Arte Contemporanea. Giornalisti e telecamere lo assediano, è un intellettuale raro in Italia, una figura che sembra viaggiare troppo spesso, verso qualsiasi luogo racconti l’arte, per soffermarsi abbastanza a lungo. Ma noi siamo riusciti a colloquiare a lungo con lui, realizzando un’intervista fatta di vita, insegnamenti e novità.

GINEVRA BRIA: Parlando della recente inaugurazione di Didascalia e di una possibile origine della scintilla che ha dato vita al progetto, quando è scaturito e, a suo parere, quali dettagli della poetica di Garutti devono emergere?
Hans Ulrich Obrist: Sicuramente la multidimensionalità è il motore che spinge e il filo che lega tutta la poetica di Garutti. Il suo è un esercizio poetico che sfugge sempre ad ogni certa definizione. Non esiste una teoria univoca per definire questa sorta di superstream, di sovra-flusso creatore che coinvolge e mette in connessione elementi come: la natura, la luce, il tempo e la materia così come il disegno. Vero è che la multidimensionalità di Garutti si fonde perfettamente con una grande organizzazione del percorso formale e con l’emergere di una dimensione empatica dell’opera d’arte nei confronti del pubblico. Da qui il titolo Didascalia, come percorso che sposta il punto di vista dall’opera in sé allo spettatore, diventandone la protesi e comunicando per disseminazione delle proprie parti (vd. Didascalia, 2012, stampa digitale su fogli di carta colorati, pile di fogli cm 43,5x64, altezze variabili). La vera scintilla del lavoro di Garutti è la memoria; il ricordo, ad esempio, di chi ha visto e commentato i suoi stessi lavori. Parole che, durante il periodo di apertura di Didascalia, sono raccolte e registrate dai molti microfoni installati in mostra. Questa tipologia di conversation piece deve invogliare la gente, seppure si trovi in un museo, a non abbassare la voce, per citare Adorno, ma a vivere gli spazi come un incoraggiamento, come un ponte per interagire con i progetti esposti. L’origine di questa retrospettiva resta comunque la grande urgenza della città di Milano di dedicare un omaggio reale alla carriera di un poeta dell’arte, un trésor vivant, designando una sorta di tool box allestitivo ad una figura che ha saputo trasmettere il proprio sapere come una critical mass attiva, oltrepassando infine il mondo dell’arte stessa.

A proposito della sua formazione, in scienze naturali, si è definito un generalista, proponendo come suoi riferimenti figure storiche esemplari quali Goethe o Diaghilev, perché? E quali maestri consigliare ai giovani curatori?
Secondo me, comunque, i veri, grandi maestri restano sempre gli artisti. A 17 anni rimasi stregato da Richter, poi conobbi Boltansky, poi Peter Fischli e David Weiss; ricordo di aver passato interi, lunghissimi pomeriggi nei loro studi a Zurigo. A volte rimanevamo svegli notti intere a parlare, a pensare o semplicemente ad ascoltarli ragionare. Bisogna dedicare davvero molto tempo, infiniti discorsi affinché i progetti prendano forma e poi si realizzino negli anni, lungo le decadi a volte. Fu poi solo successivamente, grazie a Szeemann e a figure come Kaspar König, la Pagé e anche, soprattutto, allo stesso Boetti che venni a conoscenza della pratica, della pragmatica curatoriale. Credo comunque che un curatore, oggi, possa imparare da Corbin così come da Ingre, ma Diaghilev mi ha sempre colpito per la sua capacità di far aderire molte discipline, diverse tra loro, creando sostanzialmente contatti e connessioni unici. Benché Diaghilev, infatti, fosse un’indiscussa figura di moderno produttore, lui realmente non produsse mai nulla, ma riuscì a far conoscere e a far lavorare assieme, con lo scopo di dar vita e dar luogo a Les ballets, icone della pittura come Picasso e Delaunay; della moda come Chanel; della musica come Stravinsky e della danza come Nijinsky. Le mostre oggi devono diventare una sorta di collettore culturale del tempo che le ha precedute e dello spazio vivo che le accoglie, nel loro momento. Proprio come la mostra itinerante che ho curato assieme a Friedrich Biesenbach per il Manchester International Festival. La mostra, intitolata 11 Rooms, era allestita in undici stanze interconnesse, nelle quali attori compivano performance ideate rispettivamente da undici artisti. Erano tutti lavori viventi.

Ogni mostra deve diventare un’esperienza artistica e ogni curatore un facilitator, quali linee guida per renderli tali?
Il primo comandamento da seguire è mai anteporsi, mai sporgersi in avanti con gli artisti: bisogna sempre rimanere un passo indietro. Bisogna porsi in uno stato di continuo ascolto nei loro confronti e, in senso tematico, affiancarli spingendoli ad avere l’urgenza della curiosità. Non bisogna mai fermarsi a guardare, senza muoversi, ma, all’opposto, bisogna continuamente creare incontri, a volte anche anti-ciclici, pianificando cioè accostamenti a volte così stravolgenti da trasformare il significato del progetto iniziale. Proprio come quando si decide di alterare l’intento di un’opera semplicemente posizionandone al suo fianco un’altra dal senso opposto o complementare.

Il lavoro del curatore si basa su un rapporto di prossimità, sia fisica che di pensiero, con l’artista. In che cosa consiste realmente questo processo di cooperazione, potrebbe descriverlo traendo spunto da alcuni esempi occorsi nella tua carriera?
Nei miei lunghi pomeriggi con Weiss, a Zurigo, le conversazioni esondavano e prendevano luogo anche nei bar, nei caffè per poi continuare ben oltre, rendendo la notte lunga, lenta. Terreno fecondo per idee e per progetti che nel corso degli anni sarebbero diventati contingenze, realtà. Il dialogo e il continuo scorrere del pensiero credo che sia il solo fulcro utile a unire le energie di artisti e scrittori, mescolando i diversi generi d’espressione. La sola domanda che mi pongo sempre quando incontro un artista, o quando chiedo di conoscerne uno, è come potergli essere utile. L’errore da non commettere mai è quello di autocelebrarsi attraverso l’arte, il curatore deve essere un catalizzatore flessibile, un centro aperto che non deve mai dettare la propria logica né arroccarsi all’interno di territori dal dominio esclusivo. Il curatore deve apparire, creare legami e poi sparire, mai colonizzare o occupare tanto idee quanto luoghi quanto persone.

Che cosa sono, i sogni impossibili degli artisti?
Un’altra domanda che sottopongo agli artisti, quando cominciamo a lavorare insieme, è se esistono loro progetti rimasti incompiuti, non realizzati. A volte, alcune idee rimangono in sospeso perché censurate, dimenticate o perché troppo enormi, oppure troppo piccole per le capacità di ognuno. A volte, invece, i progetti non possono, o forse non devono, essere realizzati perché sono nati per rimanere utopici e allora diventa una vera sfida far prendere loro una forma. Negli anni, sto continuando a creare una mappa di questi progetti mai nati, proprio come ho scritto in Everything You Always Wanted to Know About Curating* (*But Were Afraid to Ask), Sternberg Press, Berlin/New York 2011. Fra di essi, ad esempio, ricordo una colonna altissima, con un albero posto sulla cima, progetto che forse oggi, con tutte le tecnologie sarebbe possibile da realizzare. Da ricordare anche un meraviglioso anfiteatro open air, sogno architettonico-scultoreo di Louise Bourgeois.

Nel suo mestiere di curatore, e nella relazione esistente tra maieutica e tempo dell’intervista, è possibile comprendere quanto si dà e quanto si riceve, quanto materiale umano viene scambiato nel momento in cui si instaura un dialogo con architetti come la Sejima o di comunicatori come Assange?
L’unica cosa da tenere a mente, durante un’intervista, è che bisogna essere pronti, e forse essere abituati, a dare tutto. Certo è difficile quantificare subito, al momento, quanto si è dato e quanto si è ricevuto, ma poi con il tempo tutto torna in termini di sapere, di conoscenza. In questo campo amo ripetere che la generosità è il mio medium, altrimenti si tratta solamente di fare da transfer univoco, unilaterale rimanendo insensibile alla reciprocità dello scambio, emersa da ogni incontro. Qualsiasi dialogo accade, ma alcuni sono praticamente infiniti nel tempo, negli anni, e altri, invece, restano episodi puntuali, completi in sé. A volte, invece, come è successo con Assange, la continuità nel tempo si è manifestata durante la sola possibilità dell’incontro. Lui vive barricato, realmente imprigionato in quell’ambasciata di Londra, vivendo solamente di notte. La nostra conversazione si è svolta da mezzanotte alle cinque del mattino, vertendo praticamente sulla sua vita, le sue origini e la sua formazione. All’alba, al termine di questo lungo, primo contatto, Assange ha reciso il nostro incontro promulgando la sua nota formula: publish or perish.

A suo modo di vedere, quali effetti produce la sua grande influenza nel mondo dell’arte contemporanea? Qual è il lato migliore e quello peggiore?
Io sono la mia attività quotidiana. O meglio sono così tanto immerso nell’organizzazione di mostre, convegni, conferenze, maratone, interviste e pubblicazioni di libri che, lavorando sette giorni a settimana, non mi rendo conto di nient’altro. Nulla che non sia compreso all’interno della mia agenda e della mia mente. Davvero, viaggiando così spesso, non mi rendo conto di quel che riflette, di quel che viene emanato dai miei programmi. Gli effetti del mio instancabile lavoro, sono prima di tutto i ritmi di vita ai quali mi sottopongo e poi un élargissement delle discipline, come la scienza e l’architettura, dalle quali io imparo e poi innesto nel mondo dell’arte. Ritengo infatti che si debba sempre espandere, dilatare la nozione di sapere come sosteneva Beuys, trasformandolo in legami tematici, in junction making. La sola influenza che adesso mi riconosco, credo che sarò in grado di rintracciarla solamente tra dieci o vent’anni, tra molti progetti dunque.

Una volta, durante un’intervista ha affermato che il curatore non è mai importante quanto l’arte in sé. Volendo creare un artista ideale, quali artisti selezionerebbe e quali caratteristiche sarebbero necessarie per ricrearlo?
L’artista ideale deve diventare prima di tutto un artista esemplare. Nella nostra società, ritengo che gli artisti straordinari siano rarissimi, ma sono quelle figure che riescono a trasformare, a stravolgere la materia e i supporti dell’arte contemporanea in nuovi media espressivi, dando un’altra visione della sensibilità estetica di ciascuno di noi. Ricordo ad esempio che quando nel 2000 incontrai Tino Sehgal, capii subito intuitivamente che lui sapeva cosa sarebbe diventata non solo l’opera d’arte ma anche l’arte stessa. All’interno del suo percorso stava trasformando ogni progetto in un’entità culturale che si trasmetteva allo spettatore senza alcun feticismo, senza alcuna sostanzialità, diventando nozione pura.

Non sono sicura di sapere quale sia la sua conoscenza dello scenario contemporaneo italiano, ma a suo modo di vedere, com’è possibile attuare una politica di dialogo e di enhancing dei giovani artisti da parte delle Istituzioni?
Viviamo in un’era che rende noi stessi mezzi per l’intersoggettività. Esistono codici precisi e una ancor più accurata cartografia dell’esistenza e dei comportamenti da seguire in essa. Colui che emerge è colui che cambia queste regole del gioco, non solo per sé stesso ma anche per gli altri. Quando ero giovane ritenevo che Richter fosse il pittore migliore del mondo e, ancora adesso, in qualche modo mi piace pensare che lui sia tale. Ma i giovani artisti di oggi sono obbligati a rivisitare ogni giorno tanto le loro pratiche quanto i loro maestri quanto le loro aspirazioni. Solo così possono provocare il giusto impatto nei confronti delle istituzioni e dei loro muri burocratici. In fondo anche questo è uno degli insegnamenti di Alberto Garutti e di Didascalia, nei confronti dei suoi allevi.

Potrebbe svelare alcuni suoi progetti futuri in Italia o all’estero?
Proseguendo la domanda precedente, ad esempio, nel 2013 ricorre il ventesimo anniversario di Do it, la mia prima mostra nata come un suggerimento, come l’auto-organizzazione di un intervento dell’arte e per l’arte. Esistono nella vita non solo strutture ma anche energie che riescono a imprimere nei giovani artisti le giuste motivazioni sviluppando in loro curiosità. Ad esempio, ho in programma assieme al curatore Simon Castets, a Monaco di Baviera, una mostra di artisti emergenti nati nel 1989, che hanno operato, e stanno operando, nuove combinazioni e definizioni della memoria, contro l’ovvietà. I miei impegni più prossimi, invece, sono: l’inaugurazione della prima scultura pubblica di Fischli/Weiss in Inghilterra, Rock on Top o Another Rock, a Kensington Garden; la ricorrenza del ventesimo anno di Do it con i membri dell’ICA di New York; il prossimo maggio, una mostra tra arte e architettura nella Casa de vidro di Lina Bo Bardi a San Paolo, in Brasile; e infine un libro sul curating per Penguin Books, il cui titolo ancora non è dato di sapere a nessuno. Nel frattempo è ancora in corso (fino al 27 gennaio 2013, n.d.r.) la retrospettiva di Jonas Mekas alla Serpentine Gallery, aperta lo scorso 5 dicembre.

Hans Ulrich Obrist (1968, Zurigo) è storico dell’arte, critico e brillante curatore di mostre (Do it, Cities on the Move, Il tempo del postino...). Dal 1993 organizza il programma espositivo Migrateurs al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris. Dal 2001 è Visiting Professor alla Facoltà delle Arti, IUAV a Venezia. È stato co-curatore alla 50. Biennale di Venezia. Dal 2004 è co-direttore artistico (con Julia Peyton-Jones) della programmazione interna ed internazionale della Serpentine Gallery a Londra. È, inoltre, autore di The Interview Project, un intenso programma di interviste tuttora in progress.