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Krisis Anno 1 Numero 1 2010



La crisi del design dell'identità

Evert Ypma

Dalla rappresentazione come merce a nuove forme di progettazione dell'identità





SOMMARIO Krisis | Identites

Unità di Crisi, Krisis. Una vecchia pagina

Yana Milev, Emergency design. New semiotic orders of urban survival

Experimental Jetset, Crisis, Brecht and awareness / We are the world

Evert Ypma, The crisis of designing identities. From representation as commodity towards new identifications for design

Metahaven, Visualize corporate collapse

Jeremy Naklè, The age of Enlightenment

Jonmar Van Vljimen, Europe, our homeland/Hello Herman

Christian Jugovac, Logo nations. Tra competizione globale e pubblica utilità

Unità di Crisi, Indivisibiliter ac inseparabiliter: Mitteleuropa

Alvvino, Krisis

Emanuela Bonini Lessing, L’immagine della città: dalla corporate identity al city branding

Joerg Bader, FAUX-VRAI, VRAI-FAUX

Collective_fact, DOWNtown

Brave New Alps, Fortezza Open Archive

Dario Massimo, L’eresia del dohiger

Nicolò De Giorgis, Wild Alps, wild stories

Emanuele Kabu, Krisis

Wu Ming, Una nebulosa nell’immaginario letterario

Valentina Ciarapica, Luoghi comuni dello spazio urbano

Mike Bertino, Krisis

Luca Luisa, Lo specchio di celluloide

Stewart Home, Neoist manifestos

George Orwell, Principi della Neolingua

Andrea Facchetti, Tra dialetti locali e politically correct

Giulia Filippi, Lumensanakirja

Sosaku Myiazaki, Krisis
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© Evert Ypma, 2008

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© Evert Ypma, 2010

Employee at TOTAL petrol station, Lahore
Photo: Kristina Esschler, 2006

FRAMING IDENTITIES
Sembra esserci un grosso malinteso su come i visual designers affrontano le commesse riguardanti la rappresentazione dell’identità di istituzioni, servizi e prodotti. Si sente spesso parlare di “costruzione dell’identità” e “sviluppo di corporate identity”. Ma questa rivendicazione di intenti suona divertente quanto impossibile.
La maggior parte delle attività di visual design ha oggi a che fare con la traduzione di concetti standardizzati di marketing. Questi vengono definiti dai clienti, trasposti sul piano della comunicazione ed infine proposti in format visivi che condividono la struttura dei precedenti incarichi. La pratica del design è oggi per lo più caratterizzata dalla ripetitiva applicazione di competenze e procedure preconfezionate per rispondere a fini commerciali. Questa versione mercificata del design è un paradosso, rispetto alla sua intrinseca natura e a quanto potrebbe offrire.
In un contesto sociale di continuo cambiamento, la confusione tra “identity” e “design” rappresenta una delle crisi della cultura contemporanea del design. La disciplina che progetta rappresentazioni visive atte a facilitare i processi di identificazione mostra crepe concettuali, mancanza di credibilità e di rilevanza. Il problema riguarda l’incomprensione diffusa tra i designer circa i presupposti di base che definiscono l’identità, e su come questa funzioni in vari contesti sociali. Ma sia il pragmatismo che le tradizionali metodologie di approccio alle identità complesse non sembrano risolvere la questione. Questi atteggiamenti sembrano disconnessi da qualunque attitudine psicologica, sociologica e da qualunque sistema teorico. Inoltre, ridurre l’identità e la sua rappresentazione a semplici discorsi (di design) con l’argomento della semplificazione e della comprensione universale sta portando a una crisi dell’identità e a una bancarotta della stessa industria dell’identità. Tutto questo fa sorgere domande su cosa sia oggi il design e come esso possa contribuire alla società del ventunesimo secolo. Proverò qui a mettere in luce la crisi della produzione contemporanea dell’identità con alcuni argomenti chiave, per proporre poi nuove forme di identificazione per il design.

VERSO PROCESSI DI IDENTIFICAZIONE
La produzione dell’identità ha a che fare con l’invenzione e la reinvenzione. La ricerca dell’identità reclama una riflessione sul cambiamento di valori culturali, norme e abitudini, sull’evoluzione o sulla rivoluzione di un’entità organizzativa e sull’identificazione degli individui che la popolano. Cambiare o rimpiazzare la grammatica visiva di un ente non significa cambiare l’identità di quella particolare organizzazione e delle persone ad essa correlate. Il design non crea identità in modo diretto. Esso ha a che fare con la rappresentazione visiva di concetti che fanno appello a un significato collettivo comune (a una memoria), la quale a sua volta facilita il processo di identificazione di gruppi e individui. Ci sono numerosi esempi di organizzazioni che dopo aver cambiato la loro rappresentazione visiva hanno avuto grossi problemi dovuti alla diversa percezione e al diverso comportamento delle persone rispetto alle previsioni fatte da designer e manager.
Il termine “identità visiva” può essere meglio descritto come “sistema di identificazione visiva” – un sistema visivo che facilita l’identificazione funzionale, normativa ed emotiva delle persone all’interno di un’entità. Tuttavia bisogna essere consapevoli del fatto che questi processi di identificazione non possono essere trasferiti da un’entità ad un’altra. Dal momento che imprese ed enti pubblici sono tra loro molto simili sia a livello organizzativo che manageriale, le prerogative delle singole organizzazioni sono quasi assenti, e le persone restie a riconoscerle. Sotto il presupposto del branding abbiamo visto nei due decenni passati un’enorme crescita di interesse nella costruzione di quelle che mi piace chiamare “identità artificiali e sovraimposte”: concetti facilmente consumabili che fondano le relazioni tra gli individui e il gruppo, e tra questo e l’entità organizzativa. Riguardo ai prodotti, il branding configura un pattern immaginativo e pratico di riconoscimento cognitivo per le persone, e favorisce il processo di acquisto, uso e valutazione del prodotto. In una società caratterizzata da mercati con una sovrabbondanza di prodotti simili, servizi ed attività relative al design sono diventati la chiave per la differenziazione. La cultura del brand è una cultura di illusione e valori virtuali – essa crea una sfera apparente di iper-realtà, in cui confini tra la (quasi) finzione e la realtà sono mantenuti deliberatamente vaghi. I brand sono avatar con protocolli instabili: una qualità a favore del capitale astratto e del lavoro anonimo che può essere marcato e rimarcato a seconda del flusso di denaro. I brand creano in modo artificiale un significato legato a un contesto economico, sociale, spaziale o temporale; tale significato costituisce un valore immaginario poiché fa leva sui sentimenti interiori e sui desideri degli individui. Il valore “proiettato” è prodotto sotto forma di identificazione, riconoscimento, lealtà e credenza in una storia condivisa la quale – come una nuova realtà – è allo stesso tempo connessa e disconnessa dalla realtà. La mediatizzazione della brand experience consente di fare leva su queste identificazioni narrate allo scopo di vendere prodotti, servizi e idee alle persone. Alla fine ciò che conta è il contratto, sia esso sociale o finanziario. Oggi la cultura del brand è diventata il protocollo standard di comunicazione fra i vari network all’interno della società neoliberista. Il dispiegamento del branding non è limitato alle sole multinazionali, ma si estende a un’ideologia largamente diffusa
riguardo le strategie della comunicazione.

CAMPI SEMANTICI GALLEGGIANTI
Il branding incoraggia la separazione tra il significato e la sua rappresentazione, il significante.
Fondamentalmente il branding racconta un prodotto e una storia ad esso connessa, un campo semantico supplementare. La struttura semantica genera il valore virtuale della cosa reale, la quale avrebbe molto meno significato senza di essa. Molto spesso queste semantiche sono parzialmente o totalmente disconnesse con l’origine di un prodotto, di un servizio o di un’organizzazione. È sempre più frequente che prodotti ed entità non abbiano più un valore reale, poiché sono essi stessi dei supporti vuoti. Basti pensare ai prodotti il cui consumo è basato sull’esperienza, come il download digitale di brani, o ai servizi astratti, come software, servizi finanziari e organizzativi il cui brand inventato copre il vuoto lasciato dal prodotto o dall’entità generica.
La domanda di un’economia globale crea una cultura della comunicazione caratterizzata da molti campi semantici fluttuanti, i quali di per sé non si riferiscono a un oggetto particolare e alle sue incontestabili implicazioni socio-culturali, politiche e ecologiche. Sul mercato globale la cultura del brand nega qualsiasi disposizione circa valori quali la propria origine, la posizione politica e socio-culturale, i processi di produzione, l’impegno reale nei confronti della catena ecologica “risorse-utilizzo-riciclo”, le persone, la mobilità, i luoghi o il background culturale. La cultura del brand rimanda alla genericità dei non-prodotti, dei nonluoghi, delle non-storie, della non-comunicazione, della non-caratterizzazione e della non-relazione. Per cultura del brand si intende qui la sistematica produzione di massa di immagini e immaginari generici del nostro mondo e dei prodotti che usiamo, a cui guardiamo o che mangiamo. Abbiamo perso la connessione con la nostra vera realtà. Viviamo in un mondo sconosciuto, creato da noi stessi.
L’industria della comunicazione è altamente responsabile per questa situazione critica. Queste strategie di branding spesso strumentalizzano la ricerca di una comunicazione “umanizzata” e quindi necessitano di un ripensamento in termini critici.
Dopo la bolla del dot-com, la crisi finanziaria globale e la bancarotta delle nostra forma mentis e dei nostri stili di vita non ecologici, altre situazioni surreali potrebbero facilmente emergere in una cultura nella quale accettiamo comunemente la simulazione e il valore virtuale basato sul “come-se”. Il branding non dubita mai. È sempre fiducioso delle sue supposizioni, rivendicazioni e scopi, e questo è uno dei suoi aspetti più deboli.
L’era contrassegnata da una cultura della comunicazione con le caratteristiche che ho appena introdotto può essere descritta come un processo di significazione e di ricezione monoculturale e transizionale. Questa cultura della comunicazione unilaterale è (semi-)controllata da un gruppo relativamente piccolo di potenti canali di comunicazione. La sfera di comunicazione al giorno d’oggi si è modificata in un panorama multilaterale di interessi diversi, in cui la frammentazione e la complessità sono il punto fondamentale. Chiunque connesso al web può essere un produttore e un comunicatore di informazioni ed è capace di esprimere la propria identità. Tuttavia, dobbiamo realizzare che questa cosiddetta libertà di comunicazione avviene all’interno di ristretti protocolli di reti che appartengono ad aziende multinazionali (Facebook, Linked in, Flickr, ecc). In questo contesto il visual design come disciplina deve re-inventare i suoi presupposti e le sue credenze. Deve riesprimere le sue modalità di interazione con il contenuto e deve operare in modo differente al fine di affermare di nuovo la propria importanza. La crisi contemporanea del design è dovuta al fatto che gli stessi designer operano attraverso quelle convenzioni stilistiche moderniste o post-moderne secondo cui la presunta praticabilità e rappresentazione di un reale illusorio sono i fondamenti della professione.

DIALOGICALITÀ DEL DESIGN
Il graphic design come disciplina ha perso gran parte della sua credibilità nel generare strutture che scrutinano contenuti, strategie di rappresentazione e metodi di comunicazione. Che si tratti di rappresentazioni di idee (mediante visualizzazione di testi, immagini, tempo e spazio) o di strutture organizzative, composizioni o scenari socio-politici, i designer hanno sempre avuto un ruolo attivo nell’interpretazione, nel trattamento e nella ri-espressione di contenuti e messaggi. L’imperfezione, la dualità, l’interpretazione soggettiva e autoriale, l’esplorazione della tecnologie e l’ispirazione dall’arte, hanno fatto sì che la comunicazione visiva creasse un certo dialogo. Sia con se stesso (cosa che spesso è stata critica) che con la società. Il design è una disciplina che produce artefatti nei quali le idee e le azioni umane sono riconoscibili – almeno nella forma della sua firma mentale.
Il graphic design come forma di produzione di identità ha subito un processo di semplificazione e strumentalizzazione. Nel corso degli ultimi vent’anni l’ideologia post-moderna del marketing e la cultura neo-liberale del brand hanno sottratto alla pratica del graphic design la sua relazione con la realtà. Esso è stato costretto a operare sotto i dettami e le condizioni della brand culture. L’attenzione è passata dal contenuto all’effetto, e infine all’affetto.
La tecnologia di oggi genera visual design e processi di comunicazione che producono generiche forme di comunicazione. Il graphic design, come forma di scambio umano e sociale ha perso la sua anima. Lo sviluppo tecnologico di reti di informazioni ha automatizzato i processi di comunicazione su un livello sia macro che micro, ma non ha migliorato la qualità dei suoi contenuti. Vengono prodotti più libri ma sempre meno persone leggono. Dal 2007 vengono prodotte più informazioni digitali di quanto sia possibile immagazzinare. La rete sovraccarica di informazioni ha portato a una “cultura della condivisione ma non a una condivisione della cultura”, come Manuel Castells afferma nel suo libro Communication power. In molti fra i professionisti del design e gli studenti fanno questo tipo di riflessioni, ma pochissimi designer sono aperti a riflettere in modo critico sulla propria pratica e sui propri modelli di business, che hanno contribuito a questa situazione.

LAVORARE SUL CAMBIAMENTO DI NATURA DELLA COMUNICAZIONE.
I vari contraccolpi della globalizzazione – come i cambiamenti climatici, le limitate risorse energetiche, le questioni dell'acqua potabile, la mobilità, l'accesso alla conoscenza, le diversità culturali e l'economia sostenibile – richiedono nuovi approcci alla comunicazione tra gli esseri umani all’interno delle realtà sociali. Ma ogni giorno l’industria dell’illusione e del design produce favole in uno scenario di iper-realtà fondato sull’idea di abbondanza, su promesse di felicità, di benessere, o di surrogati della felicità e di pseudo-ecologia; idee e promesse strumentalizzate al fine di servire la crescita economica. La vera crisi è costituita dal fatto che la politica, l’industria e il business dell’immaginazione investono una vastissima quantità di risorse nella direzione sbagliata. L’industria del design non sa come rinnovarsi e trasformarsi. I vecchi modelli di produzione del design sono ancora troppo lucrativi nel breve periodo. I clienti chiedono ancora metodi di comunicazione di ieri, perché non ne conoscono altri.
Districare la situazione ingarbugliata del graphic design in relazione alla produzione dell’identità e al consumismo non significa costringerlo a perdere le proprie potenzialità. Al contrario: ci sono segnali che indicano un rinnovato interesse verso forme di comunicazione di qualità. Ciò apre anche nuovi scenari per la produzione di rappresentazioni visive. Siamo alle soglie di una grande prova sociale.
Innanzitutto il design e la produzione di identità dovrebbero riconnettersi alla realtà, raccontando e ri-raccontando storie da e per il reale. Questo per quanto riguarda le normali esperienze, speranze e sogni, ambizioni, drammi, voci e contro-voci. La “narrativa del reale” potrebbe essere progettata intorno alla comunità, intorno a temi, luoghi, e altre questioni legate alla nostra stessa vita. I designer potrebbero investire le proprie risorse nella comprensione di come la condivisione di narrazioni nella società ibrida possa integrarsi nella vita quotidiana della gente, introducendo nuovi riti che ispirino e uniscano le persone.

IDENTITÀ E DIVERSITÀ
L’incremento delle migrazioni transculturali ha cambiato le strutture sociali delle città postmoderne negli ultimi 50 anni – con picchi di migrazioni di massa negli anni Novanta. La configurazione sociale di molte grandi città può essere parafrasata come super diversity. A partire dall’11 settembre siamo testimoni di una vera e propria “cultura della paura” rivolta verso lo sconosciuto – il migrante. Questo ha contribuito al dilagare di una xenofobia diffusa in quasi tutti gli stati europei e nelle rispettive città. Questo fenomeno non risparmia nessuna categoria sociale, dal momento che la politica, poiché le diversità culturali hanno generato una nuova complessità sociale nella città, è così sensibile a questioni legate alle etnie, alla cultura, alle identità nazionali e religiose. Le persone con identità transculturali vivono in realtà multiple, essendo appartenenti a vari gruppi sociali, culture e stati nazione. La coesistenza di identità multiple mette alla prova tutti: dai migranti agli autoctoni.
Ma esistono alcune identità privilegiate che molti politici usano con il fine di tenere in ostaggio il dibattito politico populista. Vi sono molte altre forme di identificazione possibili che potrebbero funzionare da ponte tra persone sconosciute, come la discussione politica, lo sviluppo di conoscenza, lavori e professioni, il commercio, le associazioni, lo sport, la musica e le arti visive, il gioco, la progettazione di spazi pubblici, la cura per l'ambiente, la condivisione di cibo e storie. La sfida è quella di sviluppare nuovi strumenti per costruire ponti comunicativi tra le persone. Il design può facilitare il processo di innesco della fiducia invitando le diverse parti in causa a partecipare ai processi e agli sviluppi creativi relativi a gruppi, quartieri, città e organizzazioni private o pubbliche. Ciò richiede un approccio al design che sia meno un “design per” e più un “design con” la gente. Un design visivo che rispecchi questa visione è un modo per riconoscere le identità composte e per articolare una ricca varietà di interesse delle parti in causa. La produzione del design può inoltre promuovere la rappresentazione dell’identità come questione sociale.
Anziché progettare l'ennesima rappresentazione segreta per un’astratta e lontana organizzazione, il compito dei designer è quello di progettare la partecipazione sociale e l’incontro tra individui appartenenti a culture diverse.

CITTADINANZA POLITICA BASATA SULL’ETICA
Uno dei principali compiti dei designer della comunicazione visiva – specialmente della rappresentazione di enti e istituzioni – è quello di promuovere il discorso sul tema dell’etica. Ma non nel modo che si è visto negli ultimi quindici anni, quando le aziende annunciavano i loro core values sul sito web, o quando l'amministrazione delegava le proprie questioni spinose ai dipartimenti CSR (Corporate Social Responsibility). E nemmeno nel modo in cui gli strateghi della comunicazione hanno creato un mondo di illusioni intorno al tema della sostenibilità – ciò che mi piace chiamare “greenopia”. Queste politiche dell'immagine presentano se stesse come una continuazione degli stili comunicativi che hanno contribuito alla crisi ambientale così come la conosciamo. Le società devono prendere decisioni forti basate su considerazioni etiche. Decisioni basate non più sull'ideologia, ma sulla pura necessità.
Allo stesso tempo in molti paesi europei registriamo un allontanamento dei cittadini dai processi politici. Simultaneamente, sentimenti e partiti politici delle destre vedono costantemente crescere la propria popolarità. Essi attirano quei cittadini che (inconsapevolmente) si sentono sopraffatti dagli effetti della globalizzazione, come le migrazioni, la recessione economica e altre simili minacce.
I cittadini hanno bisogno di essere nuovamente inclusi nel processo deliberativo, per governare la propria società o partecipare alle decisioni delle aziende nelle quali lavorano. La questione più urgente è come educare e integrare le persone e i loro giudizi circa la propria vita al centro del processo decisionale della politica.
Dobbiamo costruire situazioni in cui le persone possano fidarsi dei propri concittadini perché considerati individui necessari al processo democratico, piuttosto che individui che sarebbe meglio escludere da tale processo. La democrazia è basata sulla diversità, ma da quando le nostre società sono realmente diventate culturalmente diverse la gente sta lottando costantemente contro una realtà composta da molteplici prospettive e punti di vista.
Progettare accessi per chiunque sia interessato a certe questioni del dibattito politico è una condizione importante per il funzionamento di un buona democrazia. L’informazione open source, assieme agli strumenti informativi relativi alle decisioni politiche, possono facilitare la responsabilizzazione delle persone in questo ambito. Parlando di partiti o dibattiti politici, dopo quindici anni di internet ci sono ancora troppo pochi esempi di siti web innovativi e avanzati. L’esperienza vissuta in prima persona attraverso la visualizzazione e l’immaginazione di decisioni politiche, è ancora sottostimata. La maggior parte dei partiti politici comunica con un modello di sito web in perfetto stile corporate. Il designer che dispiega le sue capacità per progettare l'accesso a cittadini culturalmente diversi è un potente agente di cambiamento, un’alternativa al populismo della politica. Il design dovrebbe evitare di diventare un mezzo populista attraverso la sua popolarità. Un design popolare non equivale automaticamente ad un design buono e utile.
Il visual design dovrebbe stimolare la nozione di proposta e contro-proposta, l’idea hegeliana di tesi e anti-tesi. L’obiettivo non è quello di mantenere un perfetto equilibrio tra le forze, ma di facilitare una tensione produttiva in grado di creare una diversità di posizioni opposte – un presupposto per i sistemi sociali intelligenti. Forme critiche di giornalismo visivo connesse alla molteplice realtà delle persone possono aiutare a definire ed esprimere i desideri di individui che non hanno potere nel panorama dei media. Il compito dei designer è quindi quello di sviluppare e di offrire alle persone visioni alternative, in modo che quest’ultimi siano in grado di far propria l’esperienza di cittadini globali. Queste visioni hanno la capacità di supportare i processi di orientamento sociale delle persone, diventando il fondamento delle loro scelte. Questi sono solo piccoli passi verso una cultura più cosciente, grazie alla quale la cooperazione civica e l'intelligenza collettiva possano diventare elementi fondamentali di coesione sociale.

RELATIONAL DESIGN
Una cultura della comunicazione nella quale siano articolati sia i problemi che le scelte relative alle questioni sociali e nella quale le posizioni e i programmi di chi è coinvolto in queste questioni siano chiaramente espressi, permette di effettuare un ragionamento collettivo sulle cause e gli effetti di queste scelte. Un design relazionale aperto alle architetture della scelta e in cui conseguenze e meccanismi siano inclusi. Tutto ciò porta alla “schesiology”, lo studio delle relazioni. Dato che la maggior parte della produzione del design consiste nell’anticipare, nel prendere decisioni, nel testare scenari plausibili per gli utenti o nel riflettere sul messaggio trasmesso e sulle possibili interpretazioni dei destinatari, i designer devono studiare meglio il significato esplicito di una conseguenza implicita del loro lavoro. Un design della comunicazione di stampo modernista tende a rispondere a problemi complessi di design con un’unica soluzione formale e ideologica, spesso totalmente disconnessa dal contesto. Il design non dovrebbe focalizzarsi sulla riduzione della complessità ma dovrebbe piuttosto contestualizzare il problema con metodologie intelligenti. Per questo non bisogna inventare nuove storie che simulino una certa realtà, ma che piuttosto commentino e interpretino realtà differenti, così come le troviamo nelle nostre vite.
Abbiamo bisogno di imparare a descrivere e contestualizzare gli argomenti nel loro giusto rapporto. Da questa premessa la pratica del design non si esaurisce nella sola produzione di soluzioni, ma contribuisce alla creazione di sistemi intelligenti che permettano molteplici soluzioni.
Prodotti e processi possono essere progettati in maniera molto efficiente, ma ciò non è di per sé garanzia di qualità. La storia ha mostrato numerosi esempi di design efficiente ma in una direzione sbagliata, o che hanno causato conseguenze (invisibili) negative. Invece di un design user-friendly, come le altre forme di produzione culturale il design ha bisogno di invitare gli utenti, nel momento della fruizione, a mettere in dubbio le proprie percezioni, supposizioni e intenti. Ciò potrebbe aprire un piccolo spiraglio ad una cultura del design più sostenibile. Prima però dobbiamo identificare e rappresentare meglio cosa può significare e come possiamo stimare il valore di quel particolare design.