Krisis Anno 4 Numero 2 2013
Nessuna civiltà aveva sviluppato, prima di oggi, strumenti tecnici tali da soddisfare il desiderio dell’essere umano di trovare e ritrovare il proprio cammino.
Allo stesso tempo, l'uomo non era mai arrivato a delegare completamente le proprie facoltà di orientamento alla macchina che lo affiancava.
Questa, infatti, non si accontenta più di indicare l’ora, ma offre la possibilità di trovare la propria posizione, e di misurare il percorso fra il qui e il le destinazioni possibili. La storia dei mezzi tecnici utilizzati per non perdere il Nord risale alle origini delle grandi civiltà.
Se in alcuni casi l’uomo si orientava grazie a dei complessi calcoli astratti, in altre circostanze provvedeva a costruire le città in funzione dei punti cardinali, in modo tale da non aver bisogno della bussola per ritrovare il Nord. E qualora qualcuno si fosse avventurato fuori dal centro abitato, l’avrebbe fatto servendosi di carri che mantenevano la stessa direzione di partenza, grazie al semplice posizionamento delle ruote.
La storia della scoperta dell’America, successiva di qualche millennio, mostra fino a che punto gli strumenti di orientamento si fondassero su coordinate aleatorie. Tenendo presente le nuove scoperte geografiche, le carte dovevano essere riviste, e gli esploratori che abbandonavano l’orizzonte si ritrovavano soli con gli dei, a fare i conti con i loro calcoli e le loro supposizioni.
Oggi la scoperta del pianeta è definitivamente completa. Non solo ogni angolo del globo è identificato e mappato, ma è addirittura costantemente osservato.
Un numero sempre crescente di videocamere, siano esse satellitari, posizionate negli spazi urbani, in movimento sulle nostre strade – in maniera più o meno ufficiale – o semplicemente in mano ad individui, permettono di vivere una sorta di simultaneità spaziale planetaria.
Ogni essere umano munito della propria protesi telematica è in grado non solo di accedere, in qualsiasi luogo, ad ogni informazione presente su scala globale, ma anche di definire la propria posizione in relazione a tutti gli altri punti di questa costellazione.
Attraverso gli stessi strumenti tecnici, egli si trova nella condizione di poter contattare tutti gli altri cittadini muniti di un’apparecchiatura simile. Anche se geo-localizzabile, questo genere di relazione fra individui sfugge ad ogni nozione di distanza, per creare una sorta di “vicinato del secondo tipo”, in cui ogni avvenimento che si dispiega nel pianeta può essere osservato, localizzato, definito temporalmente, ma soprattutto ricostituito.
Gli affari giuridico-mediatici di questi ultimi anni, mostrano fino a che punto questa facoltà di ricostituzione sia potente. Essa non si basa solo sulle telecamere di sorveglianza, ma anche sui dati geo-localizzati delle carte di pagamento, delle comunicazioni telefoniche, delle email e degli sms. Senza parlare della tracciabilità dei navigatori satellitari. Ciò che si tenta di realizzare per la localizzazione del cibo è già disponibile per l’uomo.
E se in passato i vagiti di un bambino erano trasmessi ai genitori grazie all’utilizzo di un babyphone, la sua posizione e le sue azioni verranno ora sorvegliate da un telefono cellulare. Munito di questa protesi, l’individuo iper-orientato non potrà né perdersi né perdere il segnale che consente di ricostruire in ogni momento i suoi spostamenti e le sue azioni.
Questo tipo di realtà può essere paragonata a quella della schedatura, anche se stilare una lista di elementi che violano un certo criterio non coincide più con un attento lavorio di documentazione ed archiviazione, ma semmai con quello della programmazione informatica.
Pur non volendo diffondere un inutile pensiero paranoide, ho l’impressione che esistano validi motivi per inquietarsi.
La storia dell’utilizzo della schedatura da parte di organizzazioni fasciste, anche in paesi come la Svizzera o la Svezia, ed il ritorno di forze razziste in Europa, con la loro iper-attività sia nella pubblicazione cartacea che nell’insieme dei media elettronici, dovrebbero farci temere il peggio.
Non c’è alcun dubbio sul fatto che la maggior parte delle misure adottate in seguito agli orrori razzisti della seconda guerra mondiale al fine di proteggere la libertà dei cittadini, siano ad oggi obsolete. Inoltre molti regimi, che solo apparentemente si definiscono democratici, utilizzano più o meno legalmente gli strumenti di comunicazione per sorvegliare, inseguire e discriminare quelle categorie di esseri umani messe fuori legge attraverso decisioni che non rispecchiano affatto i diritti dell’uomo.
Per sintetizzare, oggi più che mai si vede bene come l'informazione, l'orientamento e la sorveglianza partecipino a quel medesimo ensemble descritto da Michel Foucault. Esso si trova ad interagire direttamente con l’intrattenimento generalizzato – trattato da Guy Debord ne La società dello spettacolo – da una parte, e dall’altra con l’ideologia dominante del marketing, che oggi, nella forma del gossip o della calunnia, si infiltra nell’insieme delle strutture della nostra società, come mostrato da Bernard Stiegler.
L’iper-orientamento e il controllo generalizzato agiscono dunque attraverso un’interazione perfetta con una sorta di cultura del disorientamento fondata sul divertimento, sulla cancellazione della realtà e sulla seduzione permanente. Metropolis e Alice nel paese delle meraviglie non sono altro che due facce delle stessa medaglia.
Il disorientamento, come è stato analizzato nei due libri che portano lo stesso titolo, si costruisce su due facciate contraddittorie. Da una parte esso è desiderato e considerato necessario allo sviluppo della cultura individuale e collettiva: lasciarsi disorientare, viaggiare, raggiungere domini inesplorati, accrescere la deriva urbana, il carnevale; dall’altra il suo abuso può compromettere la salute attraverso il consumo di bevande alcoliche ed altre forme di dipendenza.
Se subìto passivamente e non desiderato, il disorientamento sarà irritante e temibile; in casi estremi potrà condurre l’individuo verso l’apatia, o addirittura la follia.
"Se sfortunatamente dovessimo trovarci disorientati, le sensazioni di ansietà e terrore che accompagnerebbero la perdita di orientamento, rivelerebbero fino a che punto i nostri sentimenti di equilibrio e benessere dipendano da esso. La stessa parola “perduto” (get lost) significa, nella nostra lingua, ben più di una semplice incertezza geografica: essa implica un retrogusto di disastro totale".
Il montanaro sperduto nella nebbia, che, per esempio, ritroverà dopo diverse ore di cammino le proprie tracce, constatando di aver girato in tondo mentre pensava di discendere un pendio, saprà fino a che punto il nostro orientamento si costituisca grazie alla relazione con i riferimenti esterni, siano essi geologici, architettonici o cosmici.
"Dove sarò" se tutto ciò che mi circonda si cancella progressivamente fino a scomparire totalmente? È una terribile sensazione quella dell’essere disorientato, in cui anche le nozioni di “alto” e “basso” cominciano a sfuggire; in cui l’oriente diventa invisibile e si perde il legame che ci riporta ad esso. Ma è sufficiente un raggio di sole che attraversi le nuvole affinché tutto torni limpido, affinché si riconosca una cima che ci indichi un luogo conosciuto.
"Devo trovarmi in questa posizione" constaterà l’escursionista perso, cercando di mettere in relazione le rappresentazioni del paesaggio, il piano della realtà ed eventuali ricordi.
L’orientamento si costruisce attraverso il rapporto fra questo lontanissimo “oriente” che indica una direzione costante, e il “qui” in cui si ha la tendenza a ruotare in circolo. Attrezzato della sua protesi, il montanaro contemporaneo sarà teleguidato.
Se nei primi tempi egli si muoverà ancora in coppia con la macchina, dubitando delle sue capacità e cercando di esserle superiore, molto presto, nonostante la maggior competenza, il montanaro farà totalmente affidamento ad essa, delegandole interamente la questione dell’orientamento.
Avrà ancora la curiosità di distaccare il suo sguardo dallo schermo una volta che il sole sarà tornato, o si lascerà guidare fino alla fine dei suoi giorni, dimenticando l’Oriente e tutte le altre forme di orientamento?
L’essere disorientato ha perso i suoi riferimenti a tal punto da non voler più utilizzare e mettere in relazione le informazioni che gli sono trasmesse. Questo termine (l'essere disorientato) viene utilizzato sia riferendosi alla mancanza di coordinate geografiche, che, in senso più ampio, alla difficoltà di utilizzare nuovi dati, attraverso una struttura di base che ne permetta la decodifica e la messa in relazione, in maniera più o meno stabile.
Si dirà, dell’essere disorientato, che "egli non sa più dove abita", esprimendo in questo modo la misconoscenza del "dove sono io nel momento in cui non mi sto spostando"; ma forse anche del "chi sono io", in rapporto a questa società. Quest’informazione mancante rende impossibile la definizione di tutto il tragitto, il riconoscimento di ogni altro luogo e l’utilizzo di nuove informazioni.
Ci si può trovare disorientati davanti ad una macchina di cui non si comprende l’utilizzo, davanti ad una quantità troppo grande di informazioni, davanti ad un codice indecifrabile, davanti ad una situazione inattesa, davanti all’imprevisto, alla sfiducia, e soprattutto, davanti all’insicurezza e al disastro sociale.
Con la sua apparecchiatura, il nostro essere iper-orientato saprà mettere in relazione qualunque contesto con la relativa documentazione. Il qui particolare e il dappertutto esterno, detemporalizzato e soprattutto decontestualizzato dalla mediazione, si mettono in relazione l’uno con l’altro.
Ciò avviene per riportare questo dappertutto esterno nella situazione particolare, o al contrario per comprendere meglio la singolarità della situazione? Sfortunatamente la prima attitudine sembra dominare totalmente i comportamenti dei nostri contemporanei.
Questo fenomeno è consolidato dalla competizione che, come si sa, non genera affatto differenza, bensì similarità tra modelli che cercano di superarsi attraverso l’utilizzo degli stessi mezzi.
La discrepanza fra la situazione reale e l’insieme dei suoi equivalenti virtuali trasmessi dalla protesi, può portare o ad una riproduzione degli stessi, che si impongono sul contesto per generalizzarlo, o ad un'inadempienza delle protesi, incapaci di trasferire questa generalità digitale alla realtà particolare.
Nutrito unicamente dalla sua protesi, l’essere digitale si distacca progressivamente dal reale, galleggiando in questo mondo senza distanze. La realtà non riesce più ad affascinarlo, si ritrova ridotto alla necessità di nutrirsi e ciò la rende ancor meno affascinante. Il qui si vede confinato e relegato al minimo indispensabile, e allo stesso tempo vissuto attraverso il dappertutto esterno. Ciò rischia di generare situazioni ancora più pericolose, sia per il singolo che per l'ambiente in cui vive.
Il disorientamento è esperito come uno scacco personale; l’iper-orientamento al contrario è visto come una sorta di conquista, anche se difficilmente condivisibile.
Per paura di affrontare questo mondo troppo complesso, il disorientato si rifugia in uno spazio controllabile, in un bozzolo che lo protegga, nel suo in sé, dove rischia però di girare su sé stesso.
Non riuscire a controllare qualcosa che per gli altri è ovvio, rimanere soli nella propria ignoranza, diventare in qualche modo degli analfabeti è doloroso. Piuttosto che lasciarsi aiutare a comprendere, di dotarsi degli strumenti di apprendimento e di ridefinire questa relazione fra centralità e dislocamento, alcuni semplicemente rinunceranno ad affrontare la questione, lasciandosi permanentemente in una situazione di scacco.
Il luogo d’abitazione, il quartiere, la città o il paese, divengono i soli spazi a cui ci si può relazionare. Il disorientamento diventa fatale nel momento in cui per questioni familiari, finanziarie, sociali o politiche, questa centralità, unico luogo di controllo per quanto già molto fragile, viene messa in discussione.
È interessante analizzare come il nostro essere iper-orientati, incapaci di muoversi e di agire senza l’aiuto della nostra protesi, possa portare a fenomeni simili. Siamo in grado di mettere tutto in rete, di connetterci con milioni di altri internauti, di informarci su qualunque avvenimento del mondo, anche se banale, osserviamo il mondo dall’alto.
Le viste satellitari rimpiazzano le carte di guerra. Le esperienze reali si mescolano con quelle altrui. Se tutto questo dovrebbe spingere alla scoperta, ci si rende invece conto che l’esperienza digitale rimpiazza il bisogno di spostamento dei corpi, e ciò che ne deriva è una reclusione spaziale.
Senza mai smettere di dialogare, l’essere ossessivamente orientato si isola in una specie di non luogo planetario, in disconnessione totale con il qui ed ora e con questo altro da scoprire.
In un'ottica positiva si può affermare che è grazie alla messa in relazione fra questo qui, in cui si rischia immancabilmente di girare in tondo, e questo altro, sconosciuto ma costante, che offre prospettiva e presa di distanza, che può affermarsi l’orientamento.
L’esotismo consente di guadagnare qualche mossa grazie alla separazione fra il "voi siete qui" ed il "voi siete a casa".
In questo modo il turista in cerca di esotico, per esempio, non apprenderà le lingue dei paesi che visita. Si ritroverà parzialmente disorientato. Conservando la conoscenza "del luogo in cui abita" e la fascinazione di questo altro, egli costruirà una relazione sana fra il suo status temporaneo di analfabeta e quello di controllore dell’orientamento.
Malgrado il disorientamento passeggero, questo viaggio gli offrirà la messa in prospettiva di un qui confuso. Non è forse questo il punto: considerare questi sistemi come un aiuto all'orientamento, piuttosto che cercare soluzioni universali a cui allineare i contesti particolari?