Acido, surreale, sferzante e mai consolatorio, nella sue opere pittoriche Texas gioca con i miti della cattiva coscienza occidentale e del conformismo artistico ufficiale tra immagini spiazzanti, frasi, animali, personaggi allucinati, simboli, colori, retaggi religiosi o mitologici...
Apocalypsis cum figuris
Alessandro Riva
Sono la goccia d’acqua che si abbandona alla gravità,/sono i celi di mondi
sconosciuti/sono il fanciullo vestito di bianco nei vicoli di Marsiglia/il moretto sui balconi
assolati di Siviglia/sono Africa sono Australia/sono terra rossa/il fiato di partigiani
affamati e belli/il cuore del neonato appena venuto a noi/sono il traffico delle vie infinite
che vestono i mondi dell’universo/sono il profumo delle giacche di tutti i padri/sono il
respiro dei cetacei/l’argonauta pensoso nei fondali/l’amerindio più colorato/sono il
tropico del cancro/sono i banchi dei mari/sono la bellezza della donna/l’ineffabile
ologramma/ciò che si apre dopo,/il cervello dei più grandi geni/sono il sistema nervoso
di tutte le creature del cosmo/sono l’angolo più oscuro delle viscere più buie/il giaciglio
d’Asia e l’amaca in Perù/le foreste della Cambogia/i volatili d’ogni terra./Sono io.
Antonio Santiago Ventura
C'è un'intera letteratura che popola il mondo dei sogni. "Ciò che il sogno rivela", scriveva
Paracelso, "è l'ombra della saggezza esistente nell'uomo, anche se durante la veglia egli
non ne ha coscienza". Mentre Eraclito, il grande filosofo della realtà mutevole e del
divenire, già sottolineava come l'universo di chi veglia sia "uno e comune", ma nel sonno
ciascuno "si rivolge al suo proprio": quasi a sottolineare l'incomunicabilità delle visioni
dei sogni a coloro i quali - essendo altro da noi - non hanno avuto il privilegio di viverle,
come invece le abbiamo vissute noi - seppure nel sogno. E Giamblico, da parte sua, nei
Misteri d'Egitto, annotava come, durante il sonno, la forma d'esistenza dell'anima che
non dipende dal corpo possa liberarsi dal mondo dei sensi e "ascoltare la voce della
divinità".
Ascoltare la voce della divinità! E non era, del resto, un mettersi all'ascolto della divinità
– di quel mondo che pure esiste, al di là del principio di realtà - anche l'esperienza
estatica, il ballare forsennato dei ritmi dionisiaci, l'uscire dalla piccola gabbia della
razionalità e della ragione dei grandi santi e degli sciamani?
Uomo sii attento! – recita il canto di Zarathustra nel capolavoro nicciano – Che dice la
mezzanotte profonda?/"Io dormivo, dormivo -,/da un sonno profondo mi sono risvegliata:
-/Profondo è il mondo,/e più profondo che nei pensieri del giorno./Profondo è il suo
dolore -,/Piacere – più profondo ancora di sofferenza:/Dice il dolore: perisci!/Ma ogni
piacere vuole eternità -,/vuole profonda profonda eternità!".
Di che materia sono fatti, i sogni allucinati e torbidi di Kinki Texas? Che diavolo
stralunato e feroce abita, e che scherzo di un Dio impazzito e bizzarro ha voluto o
dovuto creare, in un convulso sonno della ragion ragionante, questi incubi sconvolgenti
e commoventi, convulsamente impuri e ferocemente necessari, dove fantasmi e diavoli
dalle forme solo vagamente antropomorfe, e contemporaneamente umane e bestiali,
combattono mostri immaginari e carnivori, creati da una particella impazzita della propria
coscienza improvvisamente ribellatasi alle regole di ogni forma plausibile e di ogni
morale possibile, cavalcando destrieri imbizzarriti e mutanti, le bocche stravolte in urli
fragorosi e in ghigni zeppi di aguzzi denti e di parole masticate troppo in fretta, che
rimbombano qua e là sulla tela, con la sonorità del loro lessico squinternato e incerto –
parole in libertà che si urtano l'un l'altra ai bordi di uno spazio troppo stretto per
comprenderle tutte, lettere lasciate libere di rotolare ovunque nello spazio incerto della
mente e della visione, parole vuote e piene, liquide e insensate, suoni offuscati e
rotolanti, ad un tempo muti e sonori, ripetuti ossessivamente e compulsivamente sulla
tela, frammenti di discorsi lasciati scivolare sulla superficie del mondo, e ai bordi
frastagliati della propria coscienza: tuoni ed echi vaghi di guerre lontane, battaglie
combattute sul filo di lana di un eterno dormiveglia della coscienza, illusioni che lottano
disperatamente con se stesse, pur sapendo che, presto o tardi, dovranno soccombere al
mondo: e poi scontri all'arma bianca di sogni e utopie ormai perdute nel limbo dei propri
destini, dilaniati dall'incedere cupo della trita banalità del reale: e sogni trasformatisi,
come in una caotica e sconclusionata parodia di sempre nuove, e sempre ripetute,
Metamorfosi (mille e mille volte ripetute, ogni notte di veglia e di un sonno inquieto e
profondo che un qualche Dio ci concede di vivere, o di sognare – il che in fondo è lo
stesso), in assurdi animali, solo apparentemente d'aspetto comune, o anche solo
vagamente famigliare: cani, gufi, pipistrelli, croci, corvi, cavalli, conigli, fucili - apocalissi
d'un mondo che ha perso la bussola dei propri limiti e dei propri rimpianti, lampi di
ferocia che ci attanaglia da sempre, e come sempre troppo a lungo trattenuta,
agghiaccianti tremori e terrori della propria ombra, dei propri sogni o del proprio destino:
o, come recita un titolo di uno dei quadri dell'artista: uomini che hanno paura del proprio
cavallo - e chi non avrebbe paura, del resto, dell'imprevisto materializzarsi, qui ed ora,
del frutto proibito dei propri sogni convulsi, inconcepibili, enigmatici, oscuri:
incomprensibili anche, e soprattutto, a noi stessi?
Kinki Texas ha saputo, contro il ritmo raziocinante e cupamente intellettualizzato e
ideologico di gran parte dell'arte cosiddetta "contemporanea" odierna, tener vivo il fuoco
della propria foga irrazionale e creatrice, liberandola dalle pastoie dello stile e dai
sottilissimi diktat dell'esteticamente - oltre che del politicamente – corretto: ha saputo
veleggiare, libero, e liberamente felice e scanzonato, lungo i lidi furiosi e
apparentemente incontrollati della propria immaginazione, in quel confine sottile e
segreto nel quale si incrociano, misteriosamente, i sentieri dei propri sogni atavici e
infantili (cavalli, battaglie, immaginarie crociate, maschere di Zorro, mostri, pupazzi,
racconti epici e ballate ed eroiche imprese mai conseguite e mai combattute) con le
visioni diurne e notturne dei nostri sogni vigili di adulti mai del tutto cresciuti: dei sogni
bizzarri, liminari e incompiuti, di quelle prime, vaghe impressioni che ci s'affacciano in
testa di primo mattino – quando il tempo sembra essersi per un momento fermato nel
punto di confine tra la notte e l'insorgere del giorno -, fatte di luci e di suoni vaghi e
sconnessi, o di quei lampi di luce che ci colpiscono la vista, la sera, o la notte, prima che
la nostra coscienza sia del tutto spenta, e prima che il sonno vero e proprio abbia preso
il sopravvento sulla coscienza diurna: là, in quel maelström vago e confuso, dove non
esiste ancora intreccio, né senso logico, né "prima" né "dopo": dove non si odono
ancora parole e suoni sensati, dove non si è ancora insediato il regno, già a modo suo
concreto e in qualche modo romanzesco, che appartiene all'universo del sogno vero e
proprio: ma solo un confuso e soffuso parlottìo, un mescolamento di colori, di forme, di
luci, di impressioni vivide e accese: e allora, ecco gli animali impossibili, imbizzarriti e
frementi, i piccoli mostri ghignanti a due teste, i cieli di stelle e di fango, e le lontane città
illuminate, e i fucili scarichi, e le caffettiere fumanti, e le bocche cucite, e i soli neri, e le
parole perdute, e i ghigni funesti, e le cavalcate notturne dei sabbah, e gli stregoni, i gufi,
le criniere fosforescenti, le scimmie impazzite, le croci ovunque, e le grida, e poi gli
imbizzarriti, i furiosi, i matti, i decapitati, i guerrieri urlanti – e, qua e là, uno sbattere d'ali
d'un misterioso volatile dal suono metallico.
Non c'è discontinuità, e tuttavia non c'è neppure continuità nel senso comune del
termine, nei quadri di Kinki Texas: come nelle Metamorfosi ovidiane, il suo è un incedere
caotico e straripante, per accumulo, per intreccio, per proliferazione costante e
sovraccarica dei punti di vista, dei soggetti, delle parole pronunciate o accennate, delle
scene raccontate: tra un quadro e l'altro c'è la discontinuità frammentaria dei grandi
puzzle epici arcaici, delle grandi tradizioni orali, dove la realtà stessa si plasma man
mano che viene tramandata e ri-raccontata, dove le storie narrate – se mai storie ci sono
- si succedono l'una all'altra, mescolandosi e sovrapponendosi in un ingorgo labirintico,
inestricabile e solo apparentemente casuale delle trame, dei significati, dei rimandi visivi:
non c'è tempo cronologico né narrativo, non c'è centro né periferia, non c'è scansione né
successione ordinata dei fatti o delle immagini rappresentate. Quello di Kinki Texas è un
mondo altro rispetto al nostro, e che tuttavia ha, col nostro, dei sottili e imperscrutabili
punti di contatto: un mondo che via via si crea, si forma, si popola, si autocrea, per
partenogenesi, man mano che l'artista lo va formando, tassello dopo tassello, quadro
dopo quadro, scena dopo scena, nelle singole tele, pezzi d'un insieme che perde
continuamente il proprio centro, e ogni volta, paradossalmente, sembra ritrovarlo e
ricrearlo da capo.
Inaugurazione Giovedì 24 giugno 2010 dalle ore 18
Galleria Bianca Maria Rizzi
via Molino delle Armi, 3, MIlano
Orario: lunedi, martedi, giovedi, venerdi 15-19.30, mercoledi 13-19.30
Ingresso libero