2/3. L'intersecarsi dei piani ortogonali e lo sviluppo fluido del colore costituiscono la sintassi attraverso cui si esprime la ricerca dell'artista, la quale pratica una pittura lieve e insieme drammatica che si palesa attraverso forme astratte.
Concetto “temporale”. Attese.
di Chiara Canali
L’intersecarsi dei piani ortogonali e lo sviluppo fluido del colore costituiscono la sintassi attraverso cui si esprime la ricerca di Marta Mancini. Attiva a Jesi fin dai tempi del diploma presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino, da una decina d’anni l’artista lavora con assiduità e rigore per circoscrivere e definire sempre di più in pittura il suo concetto di astratto. Parliamo di astrazione ma non di assenza. L’astrazione viene intesa non come distacco e apatia, bensì come schermo piano sul quale si imprimono le tracce eloquenti di una storia soggettiva, perché la sua ricerca comunica a un livello evocativo ed emozionale sotteso.
Marta Mancini pratica una pittura lieve e insieme drammatica che si palesa per metafore e, attraverso la forma astratta, i suoi lavori anticipano una natura soprasensibile tutta da scoprire. Le sue opere sono sempre connotate da un titolo lirico e poetico, attribuito al termine della realizzazione dell’opera, che esprime direttamente lo stato d’animo dell’artista durante l’esperienza soggettiva della stesura pittorica. Sulla superficie di ogni quadro è infatti possibile per l’artista registrare fisicamente la perfetta intuizione di un moto poetico: Quello che resta oppure Ti invade l’anima sono esemplificativi di questa morfologia. Espressiva ed empatica, greve e luminosa, la sua pittura si manifesta nella presenza e al tempo stesso nella perdita.
Eppure il suo quadro astratto non manifesta una comunicazione immediata e diretta, in quanto la libertà espressiva sembra essere limitata da uno schema formale talvolta rigido, talvolta liquido e mutevole. Inizialmente la griglia geometrica sembrava assente e aleatoria e spesso comparivano forme circolari e slabbrate che interrompevano lo scorrere fluido delle cromie. In seguito è emersa sempre più prepotentemente la necessità di un rapporto costante, seppure problematico, fra i colori e il reticolo geometrico che sembrava limitarli. All’interno dei quadri astratti Marta Mancini utilizza file ritmiche di strisce orizzontali e linee verticali accatastate perché questo è il linguaggio visivo che le permette di razionalizzare meglio lo spazio. Ne sono un esempio le opere Untitled (2010) dove una texture geometrica, si espande e si contrae fino a generare un libero sviluppo di bande a incastri.
Lo stile di Marta Mancini è determinato dalla necessità di fare un quadro che si basa su due nature apparentemente inconciliabili: una che comporta l’ordine della griglia spaziale e l’altra che prevede lo scompiglio della trama temporale. La superficie dipinta a mano porta con sé il peso della visione nel tempo, della contemplazione attraverso la storia, del perdurare nella memoria. Attraverso lo sconvolgimento del disegno, il peso del tocco e le sfumature del colore l’artista afferma la possibilità che le forme si sfumino, si sovvertano e si carichino di una realtà trasformata, che preannuncia un perturbamento temporale, al di fuori del perimetro spaziale.
In questa sua predisposizione, la pittura di Marta Mancini è senz’altro debitrice della lezione di Sean Scully, il maestro irlandese che ha conosciuto e incontrato personalmente e a cui ha dedicato la propria tesi accademica. Nella pittura drammatica di Scully non viene più presentato un campo astratto olistico ed unificato, destinato a fornire stati o risposte assolute, bensì una griglia suddivisa in riquadri plurimi che si oppongono all’unicità di spazio-tempo. Affermava Scully in un’intervista: “Nelle mie opere il dramma ruota attorno alla lotta tra forme sistematiche e unificanti e i vari piani e collegamenti al cui interno esse sono obbligate a esistere. È questa un’arte di relazioni che io spero abbiano equivalenza con la disgiunzione e la costante costruzione del mondo”. Allo stesso modo nelle opere di Marta Mancini se la forma appare concettualmente architettonica e definita, la sovrapposizione delle tonalità e il lento fluire del colore oltre il reticolo geometrico alludono a un’esperienza percorribile in un’ottica di durata nel tempo.
E qui entrano in gioco i lavori dal titolo emblematico “Attese” che da un lato risultano un omaggio all’opera di un altro grande astrattista italiano, Lucio Fontana, e dall’altro innescano quella dialettica temporale a cui facevo riferimento in queste ultime mie riflessioni.
La serie “Attese” è costituita da un polittico di riquadri orizzontali inseriti in scatole di ferro che presentano una superficie lavorata a motivi differenti: a righe orizzontali sovrapposte, a spazi triangolari tagliati da una X, a zone informali modellate con sabbia e cera, a inserti superficiali di residui materici tondi (fondi di colore essiccati e applicati come fossero formelle oggettuali). Nessun dipinto vive come singolo ideale a sé stante, ma ciascuno dei pannelli è concepito per essere visto nell’insieme, secondo una costante idea di iterazione, variazione e ripetizione, come se costituisse una sezione ininterrotta di una sequenza che si dispone nell’arena visiva, rendendo possibile la comunicazione nella disunità. In più, la collocazione a terra, nello spazio ambientale della galleria, restituisce una percezione diversa, anche per il fatto che l’illuminazione che percepiscono non è quella aerea e soffusa, bensì quella diretta derivata dalla collocazione di singole lampadine che pendono verticalmente a distanza ravvicinata sull’opera. Il senso dell’ “attesa” si configura dunque sia dal punto di vista spaziale, che temporale recuperando il senso ampio e poli-allusivo delle “Attese” di Fontana: la ricezione di queste opere si apre ad un’intenzione contemplativa, quasi vagamente metafisica, che prevede un’allusione primordiale, di astrazione archetipa.
D’altra parte anche la struttura della superficie pittorica imbevuta di luce che promana dall’alto sottintende l’idea di rivelazione teofanica, di epifania secondo il significato epistemologico dato da James Joyce in “Dubliners”, cioè di improvvisa rivelazione di una verità emblematica o della realtà interiore delle cose, che si può manifestare in un frammento, nella descrizione di un oggetto comune o insolito. In questa accezione è indicativo uno dei racconti scritti da Joyce intitolato Eveline in cui leggiamo “Attendeva paziente, quasi allegra, senza nessuna ansia, mentre i ricordi cedevano il posto a speranze e progetti”.
L’aspettativa del futuro è sempre connessa con la memoria del passato, in un connubio che rende compresenti le emozioni provate nel passato e riattualizzate nel presente e le esperienze, apparentemente inconciliabili con la memoria, delle speranze e delle attese. Sono forse le categorie del non-ancora e dell’in-compiuto che caratterizzano meglio la ricerca pittorica di Marta Mancini, in un orizzonte di senso che allarga la nostra percezione dell’interiorità e del tempo.
inaugurazione 10 aprile 2011 ore 18.00
Galleria Contemporaneo
piazza Ghislieri, 3 - Jesi (AN)
Dal martedì al sabato ore 9.00-12.30/16.00-19.30
Ingresso libero