La rete. L'installazione e' 'simbolo di una profonda solitudine che copre e oscura lo sguardo' (G. Avano).
Siamo pervasi, nell’approssimarci a questo giogo inquietante, da grande e profonda emozione sopraffatti dall’oggetto cui derivano mitiche vicende come quella di “Aracne”, di “Agamennone”, “del Disinganno”. Caratteristiche che divengono il centro o, quantomeno, spunto di narrazioni e – tal volta - fulcro di significati morali.
Una “rete” perennemente distesa sulle coscienze, sull’anima umana, che fiacca ogni resistenza. Maglie attraverso le quali percepiamo il perenne dibattersi di un indomito prigioniero, l’uomo, mosso, forse, solo da vano orgoglio, cui non resta che dimenarsi ferinamente, di fronte alla “cosmica Clitennestra”: la voragine dei secoli.
La “Rete”, simbolo di una profonda solitudine che copre e oscura lo sguardo fissando la lotta selvaggia nel tumulto dell’esistenza e il desiderio di eternarsi, diviene generatrice di una lotta, solitario slancio vitale, opposto all’eternità dell’assenza, in cui si forgia la poca –ma durevole- materia del passaggio umano, l’elaborazione creativa. La natura della “rete” come rappresentazione creativa è logo atto a catture la vita.
L’opera di Ciro Maddaluno piuttosto che rete in se è racconto della “rete”, nel cui svolgimento si esprime una complessa riflessione. Attraverso un gioco di rimandi e citazioni viene elaborata la triade di elementi che lo/la caratterizza e che va intesa come triplice stato dell’atto creativo; come esegesi dei momenti storici che dipanano l’atto creativo, intuito come una sorta di buco nero in cui sono attratte le vicende del pensiero umano.
Essa, dunque, spiega come in partenza l’atto creativo sia “poesia del sentire del sognare e del soffrire”, ovvero, Arte; atto che assurge poi, nel suo distendersi, a “figura meta artistica”, ovvero, riflessione estetica sullo svolgimento secolare dell’arte.
Il logo conclude infine la sua parabola come constatazione manifestata da un linguaggio post-umano; un’ “estetica non per l’uomo”, che racconta di una verità che accade nel linguaggio.
L’arte come rete che cattura per eternare
In ogni luogo del tempo, nella fosca reminiscenza di un remoto, già vissuto, presente/ passato muove Pindaro, il poeta corale, l’artista, discosto, ma pregno del mondo. Indifferente tra la folla indifferente. Colui che narra i destini e dona un volto alla storia.
La Rete di Maddaluno spalanca la scena delle narrazioni –le reti- degli artisti che sono state racconto del fato; storia degli uomini, dei luoghi e delle civiltà senza un divenire possibile, cui non era dato altro orizzonte che un “arcaico futuro”; l’immanenza del fato. Apre innanzitutto come indagine sullo scenario di fondo, cogliendo il percorso di un fruitore che capta nel racconto, in primis, le biografie degli artisti, la loro condizione umana e la scelta delle personali dissociazioni dall’umano. Si avverte poi quale tessera del mosaico dell’esistenza riconoscendosi catarticamente nel racconto e perviene, infine, nello svolgimento degli stati dell’arte (e della sua percezione), ad una sorta di disvelamento ultracatartico: la comprensione della propria condizione umana, in cui l’individuo si muove come ombra tra le ombre. La coscienza quindi che è l’artista a far dono di vita imperitura alle ombre, che si dibattono nell’illusione della battaglia; del potere; del sapere; del vivere sociale.
Membra e sangue sono catturate dalla rete del tempo che ne fa subito polvere ma il Poeta, il Tragico, ferma l’essenza vitale per inverarla nell’eternità del Mito. La lettura risale quindi all’artista come a colui che fa poesia con l’indicibile, con l’orribile; colui che monda il presente sporcato dalla vita ma che, al contempo, lo connota tragicamente, col disvelamento proprio dell’arte. E’ un percorso questo in cui, pensando a Vico e ad Hegel, l’Opera di Maddaluno perviene alla cognizione di uno stato dell’arte, il Poema Epico, che nasce come intento etico e ci rappresenta la Tragedia, già fenomeno culturale, che si trasmuta in categoria dell’etica, atta a svelare il senso nascosto del presente ma con la ferma convinzione che il sommo trionfo dell’arte sia stato la qualità che ha trasceso la volontà dell’artista stesso: lo svelamento del presente come cristallizzazione, senza un mutamento della sua natura e sostanza.
Uno stato, questo appena descritto, in cui s’anima il conflitto tra la “compagnia degli uomini”, Dike o, se vogliamo, la società, e l’entità trans-umana dell’arte, Thémis. Un conflitto che è poi tra il “diritto divino e umano”. Gli uomini hanno vissuto (e forse vivono) una mancanza, un mistero che, attraverso l’arte, avrebbero voluto risolto nell’ordine cosmico, tra gli dei, esso è la conoscenza del particolare attraverso l’universale e la vera cognizione di “giusto e ingiusto”. Così, particolare e universale –nell’umano- sono stati risolti con l’invenzione dell’ equità, e della giustizia svelata attraverso l’etica. Ma l’idea di una legge cosmica, altra da quella umana, esiste attraverso il mito, attraverso l’arte che diviene così scenario di una forma relativa di cambiamento. In questo prende vita il conflitto tra Thémis e Dike, qui s’anima il reciproco disconoscersi, perché l’arte, frutto dell’uomo, è la rappresentazione di un “universale” creato dall’uomo stesso e la “compagnia degli uomini”, lottando contro un diritto divino, mai vorrà ammettere che a sopravvivere, delle proprie gesta, degli eroi, del suo pragmatismo materiale, altri non è se non la rappresentazione artistica: Agamennone colpito a morte mentre si dibatte nella rete, eternato da Pindaro e dai tragici; l’odio riposto di Clitennestra per la morte di Ifigenia ed Egisto usurpatore, resi perenni da Eschilo.
Eppure la personificazione dello scontro tragico tra il diritto umano e divino, tra l’uomo e l’arte o, se vogliamo, thémis e dike, rappresenta il conflitto nel quale viene alla luce il Diritto, nel senso contemporaneo del concetto. Qui però rientra in gioco l’arte, che traduce la relatività della costruzione di questo mondo, la relatività del senso di giustizia, decostruendo ed eternando allo stesso tempo. Mostrando la crudeltà della rete del tempo che tutto cattura e sublimando il catturato in un atto fermo ed eterno. Il calco pompeiano che ha fermato l’istante di un’esistenza, che ci perviene come atto creativo, oltre che conservativo, dell’archeologo. È “rete” dunque l’impassibilità della natura che ferma arbitrariamente l’esistere; è “rete” quella dell’artista - archeologo dell’esistenza- che mostra il senso riposto del passato/presente. Così la rete, di eschiliana memoria, esplora, senza giudizio, o senza la rilevanza di un giudizio possibile (tal volta pure presente nelle intenzioni dell’artista atto a maneggiare una forza che lo trascende) l’archeologia del diritto che, riprendendo Vico, è già nascosto tra le pieghe del poema orale, come sapere riposto, nell’Età degli Eroi. L’Opera riflette innanzitutto questo primo stato dell’atto creativo che contiene in se anche le considerazioni idealistiche che lo esplicano: La “rete”, l’arte, quale rappresentazione di una forza esterna all’uomo –pur creata dall’uomo- che prosegue fino all’avvento della concettualità dei giorni nostri, valevole a mostrarci, solo a mostrarci, lo scenario di una discontinuità in cui tutti, indistintamente, diventano vittime; giusti o ingiusti che fossero. È proprio questa qualità della rete dell’artista, traduttore dell’eterno-universale, che rende permanente la tragedia ripristinando la ciclicità di “colpa” e “fato”.
La rete come atto creativo meta-linguistico
Tutto ciò viene trasmesso da questo primo stato della rappresentazione di rete che, in seconda battuta, incombe –fisicamente- su di noi ed evolvendo in atto estetico volto ad esprimere il culmine del ciclo della categoria dell’arte si offre come figura meta-artistica. La presenza fisica della rete tratteggia un processo cognitivo che perviene ad un’astrazione che raccoglie in sé tutte le fasi dello svolgimento di valori ideali e sociali. La personificazione di questa evoluzione dell’ “arte oltre l’arte”, ingloba il tragitto evolutivo del pensiero creativo umano che procede –idealisticamente parlando- secondo un percorso che parte dal modello “classico”, passa per il “cristianesimo” (pervenendo ad un modello “romantico”); riflette il superamento di un’arte come alto bisogno dello spirito e traduce creativamente –oltre l’idealismo- questa stessa riflessione.
In breve: “classica”, è la stagione, il momento, in cui l’arte viene venerata come sostanziale e, poiché essa –presso gli antichi greci- è espressione d’assoluto è tutt’uno con la mitologia che è anche religione. L’arte cristiana, poi romantica, rappresenta il momento in cui si compie il ritiro dal mondano naturale, separandosi da sé –come finitezza- e contrapponendosi a sé –quale sé infinito-. Approdando alla modernità, con l’affermazione dei sensi teoretici, il senso dell’arte si compie nella filosofia, oltre la percezione sensibile. Ciò che rappresenta l’impossibilità di una pienezza e idealizzazione determinate da un evo sfavorevole all’arte. Ma, l’atto creativo post-moderno, raccoglie nel suo metalinguaggio trascendente, anche la qualità speculativa della filosofia tradizionale che deve avvalersi del linguaggio codificato per pensarsi.
Nella narrazione creativa di Maddaluno si spiega l’atto estetico come qualità esegetica capace di alludere a una rifondazione concettuale; di pensare meta-linguisticamente all’atto del creare termini e linguaggio. Così il meta linguaggio estetico pone il problema del rapporto tra essere e linguaggio, confuta la distinzione tra essere e linguaggio e con essa la possibilità di riflettere sul linguaggio in cui si possono porre un’ essenza dell’essere e un accadere del linguaggio. Pensare ad una distinzione, ad una mancanza di identità, tra essere e linguaggio significa porre comunque una relazione e una relazione è, in definitiva, trovarsi di fonte a due identici. Cos’é allora questo atto estetico? L’Opera di Maddaluno lo individua come esegesi del linguaggio e riflette sulla logica del linguaggio che non può non essere relazionale. Abbiamo detto che dire “è altro” vuol dire mettere in relazione e mettere in relazione significa oggettivare, parlando quindi di due oggetti perveniamo inevitabilmente all’identità; ma parlare di due identici conduce al limite della logica filosofica in quanto non si potrebbe, per logica, parlare di “due” dell’identico. L’atto estetico, che è meta-linguaggio, è uno scenario che travalica la filosofia per inverarsi nella filosofia e superarla nuovamente come analisi continua del linguaggio. Una “rete”, appunto. Ma questa “rete”, atto estetico meta-artistico, che è dire meta-linguistico, non può non approdare ad un’ulteriore collocazione e si dispone ad essere insieme soggetto e oggetto, ovvero, autonomia del linguaggio.
La rete come espressione di un’estetica post umana
Questa astrazione che contempla tutto il processo del pensiero induce l’uomo a cadere in una trappola inestricabile, una rete, in cui cede la certezza dell’atto creativo come riflessione sulla sua condizione esistenziale, ovvero, riflessione che avverrebbe attraverso un ente -il prodotto- estraneo all’essere.
Se la riflessione è linguaggio che comprende differenze tra cose, tra l’essere e ciò che all’essere è opposto, diciamo che vi sono due soggetti ma, sostanzialmente, chi pone la differenza tra essere e altro? La Rete svela che tutto accade nel linguaggio; con che cosa, dunque, poniamo la differenza tra due enti, tra essere e oggetto che racconta l’essere? Inoltre La differenza tra essere e ciò che racconta l’essere (l’opera) è essa stessa ente? La differenza è un ente che distingue gli enti? O dobbiamo riassumere il concetto platonico di “essere” come una sorta di “grande cornice trascendentale” che raccoglie tutte le determinazioni empiriche? Se dunque perveniamo allo svelamento di una meta-arte che è soggetto e oggetto poniamo le basi per ammettere l’impossibilità di un linguaggio estetico come strumento ontologico.
Vediamo dunque di comprendere il nesso per cui il linguaggio non può essere indagine esistenziale e poniamo una domanda primigenia se l’essere possa essere o meno oggetto di un discorso che lo riguardi. La risposta la desumiamo dalla tesi di Gennaro Sasso, ed è quella che l’essere non può essere oggetto di logo, né di domanda, né di ricerca in quanto logo e domande circa l’essere non possono evidentemente essere compresi nell’essere se l’essere è oggetto di indagine. Ecco dunque chiudersi il circolo e cadere sull’uomo questa rete che intrappola e uccide; la titanica solitudine che pervade l’uomo da cui siamo partiti.
Se questa rappresentazione estetica izzante nega all’uomo la possibilità di sfuggire alle maglie della sua negazione di essere e alla consapevolezza di sopravvivere solo come prodotto, che posto c’è per l’uomo? Come deve considerarsi questo stato della rappresentazione che pareva essere esperienza e che risulta, a questo punto, “relativamente estetica”, nel senso di trans-estetica? Ai sensi di chi è rivolta? Se finisce per negare qualsiasi possibilità di un ragionamento sull’essere? Riprendendo ancora Sasso, l’atto estetico accade ed è “un luogo a sé stesso”. Questo processo esclude l’empirismo che assume i connotati di una forma metafisica. Per Maddaluno l’atto creativo opera e costituisce e all’interno di esso prende forma ciò che chiamiamo esperienza, una struttura di accadimenti e di opinioni.
L’atto avviene come estetica che non ragiona sull’essere e non appaga i sensi dell’essere, perciò sussiste come atto in sé e come tale ci perviene e riparte attraverso la coltre del tempo. E’ l’estetica dell’essere che non appartiene più alla metafisica. L’atto, ormai, trans/estetico mette in crisi l’interrogarsi dell’uomo sul senso dell’essere poiché l’uomo, ovvero, l’essere, non è più né soggetto né oggetto. Svolgendosi in tal senso una negazione di quella tesi Heideggeriana per cui “l’esserci è l’ente che ha il privilegio di interrogare intorno all’essere” e alla domanda chi –e in che forma- svolga la domanda sul senso dell’essere viene questa risposta estetico/ dialettica che ci mostra –con i suoi ripetuti rimandi- che non è sufficiente pensare ad uno svolgimento di natura esistenziale per scongiurare il mancato senso di qualsiasi speculazione sull’essere.
La rete, dunque, come riflessione meta-artistica, meta-linguistica è una verità che accade nel linguaggio.
Gennaro Avano
Inaugurazione 16 aprile ore 18
L'Idioma
via delle Torri, 23 - Ascoli Piceno
Feriali: 18 - 20. Festivi: 10,30 - 20
Ingresso libero