Spazio LABA Casa dei Palazzi
Brescia
piazza del Foro, 2
030 3752316
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Marco Valente
dal 21/10/2011 al 28/10/2011
lun - ven 10-18, sab 16-20

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Marco Valente



 
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21/10/2011

Marco Valente

Spazio LABA Casa dei Palazzi, Brescia

Analogico_Digitale. Le tele esposte nascono da una ricerca sui concetti di campionatura delle forme, nonche' sulla casualita' delle configurazioni generate dai software di modellazione tridimensionale.


comunicato stampa

a cura del dipartimento di design dell'Accademia

Marco Valente è un designer, un teorico e un artista: un trinomio che lo spinge ad interessarsi all’idea della contaminazione, intesa come possibilità di far dialogare i sistemi concettuali delle diverse discipline attraverso lo scambio, la sperimentazione dei diversi mezzi con cui esse si manifestano. Le tre tele esposte in questa sede, rispondono pienamente alla necessità di mettere in comunicazione teoria e pratica, visto che nascono da una ricerca stilistica sui concetti di campionatura, digitalizzazione delle forme, nonché sulla casualità delle configurazioni generate dai software di modellazione tridimensionale.

Marco Valente

Analogico-digitale andata e ritorno
“L’esecuzione con tecniche specializzate e con macchine sarà altra che l’esecuzione fatta direttamente”: insieme a Theo van Doensburg, Piet Mondrian teorizzava nel 1919 la sua definizione di Neoplasticismo. Detto in altri termini, si trattava di una maniera per sovrapporre, con la finalità di portare a coincidenza, la natura e l’artificio, il cosmo e l’uomo.
Non è questa la sede per discutere del livello di coscienza dell’artista olandese (per altro altissimo) circa la complessità del rapporto tra teoria e pratica, ma è interessante andare a riflettere sulla contraddizione esplicita di quella citazione in esergo.

Eseguire con macchine, afferma Mondrian, non è come fare direttamente, dove “direttamente” può verosimilmente significare “di mano dell’uomo”. È un’affermazione chiara di una contrapposizione, un modo per escludere una via di mezzo. Nella realtà, il pittore olandese unì il particolare e l’universale, la ricerca orizzontale della sperimentazione tecnica e la profondità verticale della ricerca teorica, senza dar vita a speculazioni che abbiano minato la straordinaria forza del suo lavoro d’artista. È interessante pensare che le “tecniche specializzate” (gli strumenti) portino, secondo Mondrian, ad una risoluzione altra rispetto all’esecuzione per mano diretta dell’uomo. Da una parte, perché saremmo tentati di credere che se Mondrian vivesse ai giorni nostri potrebbe muoversi all’interno di quell’“arte industriale” che fa uso di strumenti meccanici e materiali tecnologici; e dall’altra, perché quella affermazione è un perfetto truismo, una verità lapalissiana.
La domanda sulla contraddizione e la questione dell’ “eseguire direttamente” interessa l’opera di Marco Valente. Filosoficamente parlando, la contraddizione è un principio logico in base al quale è impossibile che la stessa cosa sia e insieme non sia. Se si conoscono ipresupposti che hanno dato vita alle tre tele in mostra,
ci si rende facilmente conto della ricchezza di contraddizioni di cui sono portatrici.

Marco Valente è un designer, un teorico e un artista: un trinomio che lo spinge ad interessarsi all’idea della contaminazione, intesa come possibilità di far dialogare i sistemi concettuali delle diverse discipline attraverso lo scambio, la sperimentazione dei diversi mezzi con cui esse si manifestano. Le tre tele esposte in questa sede, rispondono pienamente alla necessità di mettere in comunicazione teoria e pratica, visto che nascono da una ricerca stilistica sui concetti di campionatura, digitalizzazione delle forme, nonché sulla casualità delle configurazioni generate dai software di modellazione tridimensionale.
Da qui, da questa attenzione a territori ancora in via di definizione, si generano degli accostamenti, che si palesano all’esterno come contraddizioni (relative ai concetti o all’oggetto in sé). È quindi a partire dalla dialettica interna all’opera e all’idea dell’opera, che proseguiremo il nostro percorso, nell’intento di mettere
in evidenza la ricchezza teorica a cui si accede attraverso questo genere di approccio.

Prima contraddizione: l’opera nasce da una sequenza numerica (un file che definisce i parametri della forma) e da un errore, una forzatura attuata sulle “tare” del software che la realizza. L’opera, cioè, resterebbe in potenza se non intervenisse un’azione umana che scardina la sequenza numerica rispetto alla logica consequenzialità di un programma.
L’errore, che il dizionario esplica come “una falsa rappresentazione della realtà”, ha qui funzione opposta: è il criterio che consente all’opera di concretizzarsi. Inoltre, è anche il parametro che permette di “visualizzare” la rappresentazione nello spazio reale: bidimensionale o tridimensionale, enorme o minuscola, la sua manifestazione all’interno del mondo della materia dipende da alcune operazioni di somma e sottrazione, inserimento e interruzione che l’artista compie.

Seconda contraddizione: almeno da Marcel Duchamp, l’opera d’arte non fonda il proprio statuto sulla sua unicità. Roy Lichtenstein (che dichiarava per altro “credo che la mia opera abbia un valore perché è industriale”) giocava sull’assunto che l’arte fosse riproducibile, proponendo una “riproduzione di una riproduzione” (attraverso l’espediente della pittura a mano di un finto reticolo tipografico). In questo caso, l’opera era un unicum (un sostituto surrogato della realtà in veste dichiaratamente bidimensionale), e quindi solo apparentemente una riproduzione. Le tele esposte da Marco Valente sollevano una contraddizione che va in questo senso partendo dall’assunto opposto: perché giungere all’opera d’arte come risultato di uno studio teorico sulla campionatura? È vero che le tele in questione sono multipli a stampa (e quindi riproducibili), ma l’impressione è che alcun concetti che le sorreggono tornino ad avvalorare l’idea dell’opera d’arte come “unicum”.
Faccio riferimento per esempio all’opera n. 1 in cui alcuni tratti delle forme assumono una valenza quasi pittorica (nella traccia del pennello) che Valente ha reputato significativa. Anche il fatto di stampare su canvas e di creare un oggetto che è inequivocabilmente un quadro da parete suggerisce la stessa conclusione. In ultimo, il fatto che tale opera sia registrata come “brevetto di forma” fa sì che la sua primordiale rappresentazione si manifesti nella forma bidimensionale, ciò che inevitabilmente riporta all’idea del “disegno preparatorio” da adattare alle esigenze del committente, e meno al concetto di multiplo da stampare in serie.

Terza contraddizione: ciò che si vede sulla tela sono forme astratte, vagamente organiche alcune, facilmente
comparabili ad oggetti ludico-funzionali altre. Il punto di partenza (il dato reale da trasformare in sequenza numerica, immettere in un software e “stressare” attraverso operazioni digitali) è di fatto disparato: da pezzi di design, a simboli antichi a elementi bidimensionali. Valente cerca di far emergere dai processi digitali ciò che “esiste nella memoria collettiva”, vale a dire forme archetipali che prescindono dalla loro realizzazione concreta. Questa è probabilmente la ragione per cui quelle forme fluttuano su fondi che non sono connotati (ma non per questo meno icastici) e il motivo per cui il risultato formale strizza l’occhio al linguaggio della comunicazione visiva. Anche in questo caso è una contraddizione ad emergere per dare luce al senso del suo lavoro: perché rappresentare un oggetto tridimensionale su una superficie bidimensionale? Il passaggio da digitale ad analogico non è risolto da Valente in una coerenza di visione: non è la cosa in sé ad interessarlo, ma la sua rappresentazione e, come tale, il suo artificio.
Perciò è utile, per concludere, tornare a quel breve testo che, pubblicato da Walter Benjamin nel 1936, è ancora oggi una pietra miliare per affrontare i problemi legati all’interdisciplinarità e allo statuto dell’opera d’arte: “la cosa sfugge anche alla riproduzione più perfetta: il qui e ora dell’opera d’arte – la sua esistenza unica nel luogo in cui si trova” (W. Benjamin, L’opera d’arte al tempo della sua riproducibilità tecnica).
Emanuela Genesio

Inaugurazione sabato 22 Ottobre, ore 18

Spazio LABA
piazza del Foro 2, Brescia
Dal lunedì al venerdì dalle 10.00 alle 18
sabato dalle 16.00 alle 20.00
Ingresso libero

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