Donald Baechler
Ross Bleckner
David Bowes
James Brown
Ronnie Cutrone
David Salle
Peter Schuyff
Philip Taaffe
Terry Winters
Luca Caccioni
Michael Rogler
Domenico Brancale
Jacopo Mario Gandolfi
Silvia Mariotti
Alan Jones
Alberto Zanchetta
La mostra '9 New York' presenta la generazione postmoderna della citta'. Caccioni propone le 'Onicophagie'. 'L'eterno compromesso' riflette sulle sperimentazioni polimateriche del secolo scorso. 'K' e' la prima antologica di Michael Rogler in Italia. Nella Sala video: Brancale e Gandolfi mostrano 'Se bastasse l'oblio'. In 'Attempts' Mariotti interroga l'habitat che ci circonda.
9 NEW YORK
PITTURA POSTMODERNA IN AMERICA
Primo piano
a cura di Alan Jones e Alberto Zanchetta
Gli artisti di cui si dà testimonianza in questa mostra appartengono alla generazione postmoderna, quella del "Ritorno alla pittura", che aveva non poche tangenze tra le due sponde dell'oceano Atlantico. In America la decade dell'Ottanta è stata un periodo di prosperità economica e di grande bolla speculativa, ma anche di moralismo bigotto. Fu un decennio adrenalinico, iperbolico e ipertrofico, come fosse stato pompato con gli steroidi. Di quell'epoca reaganiana la mostra intende presentare le opere di alcuni "pesi massimi" attivi a New York City: Donald Baechler [Hartford, Connecticut, 1956], Ross Bleckner [Hewlett, Long Island, 1949], David Bowes [Boston, Massachusetts, 1957], James Brown [Los Angeles, California, 1951], Ronnie Cutrone [New York City, 1948-2013], David Salle [Norman, Oklahoma, 1952], Peter Schuyff [Baarn, Olanda, 1958], Philip Taaffe [Elizabeth, New Jersey, 1955] e Terry Winters [Brooklyn, New York, 1949].
Dopo anni di minimalismo e "proibizionismo" concettuale, nella Grande Mela si avverte una certa nostalgia per la pittura, che improvvisamente irrompe sulla scena con vigorosa audacia ed è vissuta dagli artisti come una epica moderna-quotidiana (ogni intellettualismo viene bandito, il quadro non vuole più essere opera ma "tela e colore", intriso soltanto di piacere). Nel tipico pastiche postmoderno, particolare importanza aveva la pratica manichea che connetteva astrattismo e figurazione, polarità solo in apparenza antitetiche.
Senza via di scampo, ci si trovava di fronte a una pittura ibrida, incline alla contaminazione degli stili e al rimescolamento delle tecniche. Ancor più che disinvolta, la pittura viene percepita come "disturbante"; guardata con sospetto e diffidenza, spesso e volentieri denigrata aspramente a causa della grossolanità della stesura pittorica, la manualità pedestre e trasandata del Neo-espressionismo americano viene di fatto apostrofata come Bad painting.
In una decade audace, esuberante, persino sfrontata, presuntuosa e narcisista, la pittura degli anni Ottanta impose la prospettiva delirante di una scena emergente che attiene alle cronache dell'arte americana. A quel fermento spontaneo ed estemporaneo devono molto gli artisti di questa mostra, "colpevoli" di aver portato la pittura figurativa alla ribalta internazionale. Ma come dice Alan Jones: «Il bello della pittura è che va sempre fuori moda non appena torna ad essere popolare. E questa è la sua salvezza».
Un libro, a cura di Alberto Zanchetta, raccoglie i testi editi ed inediti di Alan Jones. Newyorkese, scrittore, critico e curatore di mostre d'arte, Jones è sbarcato in Italia per studiare Ezra Pound, intrattenendo contatti tra la letteratura e le arti visive. Approfittando della sua condizione di emigrante in terra straniera, Jones ha continuato a coltivare i suoi rapporti con gli artisti americani, che come lui avevano vissuto i ruggenti anni di SoHo e dell'East Village.
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DISFUNZIONE MEDITERRANEA
ANTEPRIMA FUORISALONE
Pianoterra
a cura di Alberto Zanchetta
Il MAC di Lissone ospita l'anteprima di PADIGLIONEITALIA che nella Settimana del Design 2014 (dal 7 al 13 aprile in via Oslavia, zona Ventura, Milano) esporrà i prototipi realizzati dagli studi e dai designers che hanno aderito al tema della "Disfunzione mediterranea". Al pianterreno del museo verranno presentati gli elaborati ispirati alla tematica di quest'anno, che il curatore della mostra così racconta: «Il pensiero erettile è quello che si svolge in linea retta, seguendo una traiettoria prestabilita; il pensiero disfunzionale è invece imprevedibile, destabilizzante, che segue e traccia nuove ogive. La disfunzionalità è all'antitesi del banale: una piccola, inaspettata deformazione può fare una grande differenza».
«Prese singolarmente, le persone sono tutte disfunzionali, per un motivo o un altro: psicologico, affettivo, fisico, etc. Ognuno di noi presenta una minima "imperfezione", un (sano) "difetto" che può renderci unici, persino originali. Il difetto diventa quindi una peculiarità.
Ebbene: se le persone sono tutte diverse/disfuzionali tra loro, perché non dovrebbero esserlo anche gli oggetti? La disfunzionalità mediterranea vorrebbe sondare le infinite possibilità di un mondo latino popolato da oggetti che vivono in un imperfetto dell'essere».
Disfunzionale rispetto alla norma, agli standard, ai canoni, alle aspettative in auge. In pratica l'errore può essere un plusvalore, una diversione (dall'ordinario) che diventa eversione del proprio status. Premesso che tutta la creatività è intrinsecamente disfunzionale - perché pensa fuori dagli schemi e perché crea fuori dalla serie - la "Disfunzione
mediterranea" suggellerà la partecipazione di PADIGLIONEITALIA al Fuorisalone; l'esposizione al museo di Lissone è però qualcosa di più e di diverso dalla semplice anteprima: l'allestimento rispecchia infatti il concetto della disfunzione (intesa come errore che genera nuove interpretazioni) mettendo in mostra le suggestioni e i processi
precedenti la realizzazione dei prototipi che saranno presentati a Milano. Non quindi i progetti o i bozzetti ma il materiale "cestinato" che ha portato all'idea finale. Allo spettatore è quindi concesso conoscere ciò che i designer hanno scartato durante il processo creativo ma che è stato altrettanto risolutivo nelle fasi di lavorazione. All'iniziativa hanno aderito:
4P1B
Alessandro Zambelli
Alhambretto
A/R studio
CarusoD'AngeliStudio
CTRLZAK
Elena Salmistraro
Ghigos Ideas
Gio Tirotto
Giorgio Laboratore
Giulio Patrizi
Luca Scarpellini - useDesign
Marta Lavinia Carboni
Serena Confalonieri
STUDIO NATURAL
uovodesign
Whomade + Michela Milani
Associazione culturale di design e arte fondata nel 2012, PADIGLIONEITALIA è un ritratto del design nostrano. Gli autori che vi partecipano raccontano ognuno col proprio linguaggio una storia comune, integrandosi e dialogando, svincolandosi da semplicistiche definizioni anagrafiche, parlando di ricerca e di qualità progettuale.
Per maggiori informazioni: www.padiglione-italia.com
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L'ETERNO COMPROMESSO
(APPUNTI PER UNA MOSTRA)
Secondo piano
a cura di Alberto Zanchetta
L'eterno compromesso è un gioco di parole che può essere letto in una duplice accezione: "l'ineluttabile compromissione di ciò che riteniamo eterno" oppure "il duro compromesso con il nostro concetto di eternità".
Questa non è una mostra di opere, né vuole essere un'esposizione di soli documenti, ma più verosimilmente intende porsi come una riflessione critica sulle sperimentazioni polimateriche del secolo scorso. Gli appunti e le immagini inserite all'interno delle bacheche sono un compendio delle opere d'arte che a cavallo degli anni Sessanta e Settanta utilizzarono l'Eternit, un versatile materiale edile composto da cemento e fibre di amianto.
Brevettato nel 1901 dall'austriaco Ludwig Hatschek, l'Eternit trovò vastissimo impiego,soprattutto in edilizia (per Philip Johnson l'amianto ondulato non era altro che «il materiale più economico e più brutto del mondo»).
L'Eternit venne ampiamente utilizzato per quasi un secolo, anche in oggetti di uso quotidiano, fino a quando fu comprovata la tossicità delle sue particelle fibrose; in anni recenti il problema sembra però volgere al suo giusto epilogo, grazie a un piano di bonifica e di smaltimento dell'amianto.
L'Eternit si rivelò un duro compromesso per i posteri. Il nome stesso - che deriva dal latino aeternitas - lo reclamizzava come un materiale di lunga durata, ma ciò che si credeva potenzialmente "eterno" doveva fare i conti con il proprio destino (e disfacimento). L'iniziale euforia dell'Eternit, che vantava numerose applicazioni, investì anche le arti visive; dagli inizi del secolo scorso fino al 1992, anno in cui l'Eternit fu dichiarato fuorilegge, diversi artisti se ne servirono, e tra questi non figurano solo gli scultori ma si dà testimonianza anche di pittori che usarono supporti in asbesto. Nell'ultimo terzo del XX secolo venne impiegato con disinvoltura da parte degli artisti dell'Arte povera, che ricorsero al fibrocemento contenente amianto, ignari che le opere sarebbero state potenzialmente cancerogene se abrase o conservate in cattive condizioni.
Sol LeWitt affermò che «i materiali sono le maggiori afflizioni dell'arte contemporanea», ma di certo non presagiva una loro nocività. Frutto della ricerca scientifica, l'Eternit era di facile lavorazione e a basso costo, caratteristiche che ne accrebbero l'utilizzo indiscriminato.
Oggi alcune di quelle opere sono state bonificate e recano nelle didascalie la rassicurante dicitura "fibrocemento inertizzato", ma bisogna ammettere che quelle non sono [più] le opere originali. Quando Victor Hugo dichiarò guerra ai restauratori non aveva forse tutti i torti: ancor più dell'arte antica, l'arte contemporanea sembra risentire di restauri, interventi conservativi, o (come nel caso dell'Eternit) di una bonifica dei materiali che rischia di falsarne l'autenticità. È su tali premesse che si basa il progetto de L'eterno compromesso; nelle bacheche del museo verranno infatti collocati libri, immagini e ritagli che documentano l'utilizzo del fibrocemento nelle opere d'arte, ipotizzando una mostra come dovrebbe essere, ma come non sarà e non potrà essere nella realtà.
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ONICOPHAGIE
LUCA CACCIONI
Secondo piano
a cura di Alberto Zanchetta
Luca Caccioni [Bologna, 1962] presenta le Onicophagie, un inedito ciclo di lavori che prende il nome dal disturbo compulsivo che l'artista associa all'idea del ritaglio. Le prurigini dell'onicofagia rispecchiano l'abitudine di saggiare il limite a cui si può giungere lavorando sugli elementi minimi del linguaggio artistico. Già in passato l'artista aveva utilizzato grandi fondali di scena, ma questa volta concentra l'attenzione soltanto sulle qualità e i valori di superficie delle stesse carte, tagliandole e ricomponendole, senza più cedere alla tentazione di intervenire con pigmenti, oli e resine.
Il retro dei fondali dipinti per le Opere Liriche vengono ricombinati per ottenere silhouette che evocano particolari architettonici o altri oggetti non meglio identificati. Caccioni sembra spingersi al limite estremo della sua ricerca del segno, dove le cose si smaterializzano diventando dei fantasmata. Sovrapposte e ricombinate tra loro, le carte sono state lavorate il meno possibile, mantenendo la suggestione d'essere fantasmi-frammenti, sgualciti e sbrindellati, sempre evocativi anziché troppo descrittivi.
L'inconscia attività di "rosicchiare le estremità" ha portato l'artista ad adottare uno stile lineare, di contorno, che nelle opere raggiunge effetti plastici e di sfumato. Addossate alle pareti, le Onicophagie sono accompagnate da micro-installazioni e da scritture calligrafiche; sono notazioni visive e verbali che non svelano i propri significati. Gli stimoli visivi ruotano intorno all'evanescenza che modifica il campo attentivo: la mente più dell'occhio si dimostra vigile in questa mostra, perché l'aspetto preponderante di queste opere è "quello che sembra" - questo o quello, qualcosa oppure no. L'artista invita il pubblico a seguirlo nel tentativo di accarezzare le forme che si sfaldano, come fossero ombre vespertine che ci vengono restituite attraverso un "appetito" (l'onicofagia) che ci sgrava dalle abitudini e dalle vestigia del mondo.
Tutta la ricerca di Luca Caccioni si è sempre ostinata a mettere in crisi il concetto di forma, "trasgredendo" la bella maniera e i suoi cliché tecnico-stlistici, convinto che è solo dai sensi che derivano le immagini delle cose. Nelle opere dell'artista tutto concorre alla creazione: dall'accumulo fino alla sedimentazione, dallo scorrere del tempo fino all'imprevisto e all'imperfezione. In questo senso, le Onicophagie sono il logico approdo di una ricerca che ha sempre sondato i limiti della visione.
Dopo più un decennio, Caccioni torna ad esporre a Lissone. La sua partecipazione alla rassegna "Dal Premio alla pinacoteca" del 2001, svoltasi all'indomani dell'inaugurazione del MAC (allora denominato Pinacoteca), è stata suggellata dall'acquisizione dell'opera Maison de Siz. Due. La mostra personale a lui dedicata sancisce quindi un legame con la tradizione lissonese e la valorizzazione di un percorso che il museo ha svolto in seno al divenire dell'arte italiana.
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"K"
MICHAEL RÖGLER
Piano interrato
a cura di Alberto Zanchetta
K è la prima mostra antologica di Michael Rögler [Mainz,1940] in Italia. La sua ricerca è stata ispirata dalle Ninfee di Monet e dalla gesture painting americana, trovando però la forza di reagire e di differenziarsi dai suoi predecessori. Rispetto agli ardori dell'espressionismo astratto, l'artista ha infatti scelto per sé l'allure di una "fluttuazione permanente".
Proprio come il Maestro di Giverny, anche la ricerca di Rögler è incentrata sul "tono" e sul "tocco", affrancandosi però dall'eredità modernista; l'artista ha infatti inteso sublimare/ trasfigurare la natura in colore puro, o più precisamente in "pura luce".
Quella di Rögler è una pittura disambientata, spazio sensibile in cui la sostanza del tegumento aspira alla sensualità coloristica. Essa non abolisce l'immagine ma la rende indeterminata, fino a diventare un vibrante, campo cromatico. A metà strada tra l'atarassia e l'ebbrezza del gesto (essenziale e sintetico), la pittura di Rögler si produce in un'emissione/ impressione di luminosità. L'impalpabile "forma-luce" ottenuta dall'artista rivela trasparenze e opacità da cui si sprigionano energie corpuscolari che sembrano indugiare verso una réaction poétique: istanti situazionali in cui le stille di luce eccitano lo sguardo, quel tanto da desiderare di vedere meglio, e di più, e ancora.
Le tele da lui dipinte sono un invito a esplorare un paesaggio giunto alla sua massima rarefazione. La natura viene filtrata, persino edulcorata dal soggetto floreale: è come se l'artista fosse riuscito a dar corpo a una sorta di "tentazione del nulla" che diventa improvvisamente reale e densa di significato. Rögler crea superfici piane, aprospettiche, che permettono allo spettatore una doppia visione, "in volo" e "in immersione". In realtà non stiamo guardando forme ma forze [significanti] che inducono l'artista a riflettere sul farsi stesso della pittura, per stratificazione e sedimentazione.
Rögler ha saputo vaporizzare la pennellata, accordandole un particolare "alone" di mistero, come ben evidenziano i margini del dipinto, i quali intensificano la percezione di una realtà incorporea, materia nebulizzata che si sfalda in visioni atmosferiche. Quasi fossero intrisi di nebbie e vapori, i dipinti sono permeati da velature e sfocature, striature e macchie; i colori si smaterializzano fino a trasformare il supporto in uno spazio sconfinato - uno spazio vis[su]to non tanto in superficie, quanto semmai dall'interno. Alla continua ricerca di una definizione spaziale, l'artista scandaglia il rapporto tra la superficie e il colore per creare danze in punta di pennello.
Assecondando sia il tecnicismo sia il lirismo della pittura, l'artista ha raggiunto un'assiologia basata sui valori minimi del pigmento, nel tentativo di rifare/ridefinire la trama della tela. Transitando da un paesaggio naturale verso uno spazio neutrale, il non-loci di Michael Rögler impone all'opera un rapporto trascendentale con il mondo, nutrendo la speranza di commutare la tabula rasa in una tabula picta.
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SE BASTASSE L'OBLIO
DOMENICO BRANCALE - JACOPO MARIO GANDOLFI
Sala video
INAUGURAZIONE sabato 22 MARZO 2014 ore 18:30
Attraversare le parole di Domenico Brancale significa muoversi in un racconto che non svela del tutto, ma neanche nasconde. Il tempo delle intense performance del poeta-autore è piuttosto un ritmo ininterrotto di suggestioni e appunti, luoghi e immagini accavallate, finanche aggrovigliate. Strumento principale del narrato è la voce, che l'autore definisce come il "luogo dello scarto".
Dal 2000 Brancale collabora con Jacopo Mario Gandolfi, sodalizio che il MAC di Lissone ospita con il video Se bastasse l'oblio che documenta un'azione ambientata in una vecchia colombaia in Puglia, ove un uomo deposita un foglio in ogni loculo. I singoli loculi racchiudono il messaggio di una parola che nel suo svanire ritrova il proprio destinatario,trasformando lo spazio nell'immaginario collettivo di una "biblioteca dell'avvenire".
Il titolo del video è tratto da uno scritto di Domenico Brancale contenuto nel libro Incerti umani: «(se bastasse l'oblio, se almeno bastasse per mettere a fuoco quell'unico punto dove il luogo non ha più dimora, dove il verso non dichiara direzione... nel vicinato nulla... presso quel sempre cominciamento... a finire... in cui fiato e sangue impastano lo scafo del nostro avvenuto... in quella periferia lontana indiscriminata anima al largo di un possibile incontro... se solo ci fosse nell'oblio uno spiraglio per la memoria... di cedere... di cedere... di cedere.... se solo bastasse la cancellatura di ogni debita distanza... se tu fossi qui e io smettessi di dire tu... qui immediatamente... portando ogni mio arto dentro il tuo... ognuno alle prese con le proprie giunture... a farsi innesti... essendo illimiti... avverandosi al di là della nostra pietanza... e tu smettessi di essere qui... dove saprei solo... essendo diverso dove ora voltarti ora prenderti ora stretta ora scavi ora vene... e poi tacere fino al prossimo sussurro dell'attimo vivo... l'orizzonte in luogo di noi... eufrasia)».
Sabato 22 marzo, alle ore 19:30, Brancale accompagnerà la proiezione con una performance in cui la voce canta le cose mancate (da e per sempre) attraverso un gemito soffocato e rifiatato che è condannato all'erranza, a un precipizio su cui è possibile affermare il proprio frammento d'incertezza.
Domenico Brancale, nato a Sant'Arcangelo nel 1976, è poeta e performer. Ha scritto Cani e Porci (Ripostes, 2001), L'ossario del sole (Passigli, 2007), Controre (Effigie, 2013) e Incerti umani (Passigli, 2013). Dal rapporto con alcuni artisti sono nati alcuni libri: Canti affilati e Frantoi di luce con Hervé Bordas, Ghiacciature con Clemens-Tobias Lange e Brace con Giacinto Cerone. Ha curato il libro Cristina Campo In immagini e parole (2006) e tradotto Emil Cioran, John Giorno, Henri Michaux, Claude Royet-Journoud. Collabora con la Galerie Bordas curando le edizioni "Prova d'Artista".
Jacopo Mario Gandolfi, nato a Bologna nel 1980, è un regista, scrittore e produttore indipendente. Ha vissuto a Lisbona, Londra e da alcuni anni a Istanbul. Ha prodotto cortometraggi e documentari. Tra i suoi titoli visti in festival internazionali: Quante cose non sono chiamate amore!, Donme Istanbul, Emilio Isgrò C'è e non c'è, Zuid, Canti di un pellegrino. La sua pratica cinematografica e la ricerca visuale trova stimolo nei contesti urbani e nei motivi territoriali degli abitanti per generare narrative sui e a partire dai luoghi.
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ATTEMPTS
SILVIA MARIOTTI
Pianoterra
a cura di Alberto Zanchetta
Attraverso il medium fotografico Silvia Mariotti [Fano, 1980] interroga l'habitat che ci circonda, individuando i nessi esistenti tra ciò che è artificiale e ciò che è naturale. L'occhio fotomeccanico si sofferma su atmosfere sfuggenti, elementi anomali o situazioni enigmatiche; si sforza altresì di isolare lo sguardo dal clangore della vita, ostinandosi a rallentarne il ritmo sincopato per afferrare quelle schegge che - se prese singolarmente - costituiscono la trama dell'esistenza, che è costellata di desideri e nostalgie, equilibri e antinomie, luci e ombre.
In tutte le sue opere Mariotti cerca di fare esperienza dei luoghi e delle persone per meglio riflettere sulla situazione ambientale e sociale in cui viviamo. Alcune delle tematiche affrontate in anni recenti sono riconducibili all'irrazionale, l'irreale, l'inadeguatezza, le costrizioni e le contraddizioni; è come se l'artista volesse interrogarsi sulle storie che l'immagine lascia intravedere, fermo restando che non è dato sapere tutta la verità, ma soltanto una sua parte (una piccola porzione, quasi sempre indefinita, quasi sicuramente inconcludente).
Al MAC di Lissone Silvia Mariotti presenta l'inedita serie Attempts, progetto che nasce dalla volontà di palesare un fallimento, perché il raggiungimento di un obiettivo può passare attraverso un'infinita serie di tentativi. Spiega l'artista: «Il fallimento porta necessariamente al controllo, alla difesa, quella stessa difesa che istintivamente ci costringe a proteggerci dietro ad una maschera. Maschera che è finzione, che vuole abolire o sospendere la propria riconoscibilità, svelando così l'estrema difficoltà con la quale ci si muove per sopravvivere».
Con un occhio quasi documentaristico ma pur sempre surreale, le opere in mostra ritraggono momenti sospesi nel tempo, in cui non vi è traccia della realtà sociale sebbene trovi le proprie radici in un disagio collettivo. Il "tentativo" cui l'artista si riferisce è enfatizzato da azioni (catturate al loro acme) svolte in uno scenario che assume un fascino indefinito, in quanto spazio anonimo, non riconducibile a nessun contesto specifico. Altrettanto anonimi sono i soggetti, i quali svolgono azioni decisamente realistiche benché misteriose.
L'atto che li impegna non è importante nel momento in cui si concretizza, diventa semmai rilevante nella sua fase transitoria, quando cioè il gesto deve ancora compiersi. La costruzione del dato oggettivo intende evidenziare una ricerca volta all'esplorazione dell'incertezza che coinvolge tutto il genere umano, indagando l'ambiguità che circonfonde momenti fortuiti oppure situazioni che sono reali e allo stesso tempo alienanti.
Inaugurazione: sabato 22 marzo, ore 18.00
Museo d'Arte Contemporanea di Lissone MAC
viale Padania 6, Lissone
Orari di apertura: Martedì - Mercoledì - Venerdì 15-19, Giovedì 15-23 e Sabato - Domenica 10-12 e 15-19
Ingresso libero