Renato Mambor
Luca Maria Patella
Giuseppe Tubi
Roberto Bossaglia
Federico Del Prete
Daniele Fragapane
Emiliano Cataldo
Mirai Pulvirenti
Barbara Martusciello
Una mostra tematica, come ogni evento mosso da un argomento specifico definito a priori, si trasforma sempre in un espediente per analizzare anche altro rispetto alle motivazioni di partenza. E' questo il caso di Strade che vuole restituire, attraverso lo sguardo fotografico di autori di varie generazioni, la complessita' spesso problematica ma assolutamente vera e vitalissima di un'area geografica ampia e ricca di bellezze come quella laziale.
Inaugura a Roma, giovedì 23 settembre 2004 alle ore 18.30, la mostra Strade, a cura di Barbara Martusciello.
Una mostra tematica, come ogni evento mosso da un argomento specifico definito a priori, si trasforma sempre in un espediente per analizzare anche altro rispetto alle motivazioni di partenza. E' questo il caso di Strade che vuole restituire, attraverso lo sguardo fotografico di autori di varie generazioni, la complessità spesso problematica ma assolutamente vera e vitalissima di un'area geografica ampia e ricca di bellezze come quella laziale. Affiancando i lavori degli artisti in mostra emerge una panoramica del Lazio e del suo territorio inconsueta ma caratterizzata e riconoscibile che, nella sua assoluta unicità , rivela di contenere frammenti di paesaggi e situazioni che appartengono a poche altre realtà contemporanee.
Il titolo della mostra, Strade, intende suggerire anche qualcos'altro: la volontà di evitare ogni facile proposta standardizzata, idealizzata, bella ma priva di anima del paesaggio prescelto del quale si vuole invece offrire un punto di osservazione più interno, normale e reale, nel cuore pulsante degli accadimenti, che trova appunto nella strada il suo più naturale sviluppo e un importante snodo simbolico.
L'esposizione si articola attraverso l'opera di artisti storicizzati affiancati a giovani e giovanissimi emergenti al fine di ottenere una panoramica delle possibilità espressive del mezzo fotografico, che rappresenta un altro degli impliciti campi di riflessione -se non il prioritario- che questa mostra sollecita. E' così proposta una campionatura di sguardi, quanto più ampia, personale e particolare possibile, che per tutti gli autori è mirata a concentrare in immagini significative la propria visione: parziale ma allo stesso tempo completa come può esserlo un riassunto visivo, somma di sensazioni e concezioni individuali colte, profondamente pensate e sentite. Attraverso le opere degli artisti in mostra sembra prendere corpo l'idea di Walter Benjamin di un territorio urbanizzato che "a volte è un giardino, a volte una stanza".
La sfida che questa mostra lancia è quella di affidarsi alla fotografia, che è il medium privilegiato per concretizzare le immagini da cartolina, palesando quanto è invece possibile allontanarsi da quella tipologia figurativa convenzionale -e commerciale- riuscendo comunque a restituire una perfetta e calzante adesione alla tematica data. A fare la differenza sarà il linguaggio, o la sua assenza. Per intenderci: potremo avere milioni di immagini dell'Eur o della Pianura Pontina tutte fedeli, riconoscibili e diverse l'una dall'altra; tra queste, le riproduzioni da postcard saranno facilmente individuabili, così come, diversamente, lo potranno essere quelle realizzate da un certo tipo di turista, o dall'appassionato frettoloso: questo perchè ognuna di queste categorie fotografiche è fondata su una propria struttura e una specifica formalizzazione. Volutamente non ho parlato, in tale contesto, di linguaggio perchè questo è qualcosa di motivato, consapevole, colto, che ha a che fare con l'arte e non con il souvenir o con l'amatorialità . In ognuno di questi casi, comunque, non potremo parlare di totale oggettività . La fotografia mantiene, com'è ovvio, un legame fisico con il soggetto che rappresenta, ma rispetto a questo non può essere veramente oggettiva poichè è pur sempre una valutazione delle cose, un punto di vista, quello di chi fotografa; è quindi un fatto culturale. Nell'ambito dell'arte, soprattutto dalle avanguardie in poi, questo legame si è via via allentato in favore -specialmente dalla metà degli anni Sessanta- del progetto artistico che considerava l'opera una proposizione analitica più che un oggetto. Questa scelta ha reso ancor più netta e irreversibile la necessità , ben formulata da Man Ray, di chiedersi e cercare di dedurre "con il cervello" il "perchè" dietro o dentro un'opera d'arte piuttosto che "cercare di vedere" il "come". La mostra invita a fare lo stesso con le differenti proposte degli artisti invitati qui a esporre; esse prospettano una straordinaria miscellanea rappresentativa di tanti diversi "perchè", e dunque un'eccellente campionatura dell'uso linguistico della fotografia.
Renato Mambor e Luca Maria Patella propongono in questa sede immagini storiche sperimentali; queste opere fanno parte di quella vasta area di ricerca che negli anni Sessanta e Settanta ha rinnovato l'arte contemporanea italiana (ma non solo in Italia) anche attraverso un uso consapevole e all'avanguardia della fotografia. Renato Mambor porta avanti un lavoro che negli anni si è palesato tramite la pittura, l'installazione, il video, la fotografia, l'happening e la performance giungendo sino al teatro; attraverso tale operatività multipla ha preannunciato istanze concettuali e comportamentali addentrandosi verso derive legate alla Body Art. L'uso della fotografia per Mambor si intensifica a partire dal 1968 -se si eccettua il precedente di Erice, datato 1964/65- con le Azioni Fotografate che, come la stessa definizione di questo vasto corpus di opere fa trasparire, sono qualcosa di più rispetto alla documentazione dell'evento. La documentazione, infatti, per quanto artisticamente intesa, è squilibrata in favore della necessità di fissare e certificare l'evento avvenuto, con un carattere quindi maggiormente da reportage; l'Azione Fotografata -che Mambor concretizza spesso anche in forma di tableau vivant- si pone esattamente borderline tra l’una e l'altra necessità (di testimoniare e di essere essa stessa arte), abbracciando equamente entrambi i linguaggi, quello performativo e quello fotografico. In questo tipo di lavori l'attenzione dell'artista si focalizza dunque sul linguaggio dell'azione trasformata poi attraverso la fotografia che la oggettivizza. Di questa produzione è esposta in mostra 1945 - La fontana di Via Barletta, "quadro" che riunisce quasi come in una sequenza fotografica diverse immagini di uno stesso evento che ripercorre un'azione che Mambor compiva da bambino proprio in quella strada durante la guerra.
In mostra sono esposte anche alcune foto legate all'azione realizzata da Mambor con il suo Gruppo Trousse nel settembre 1982; questo lavoro, dal titolo Tracce sul Viale dell'Uccelliera, fa parte degli Itinerari nei quali Mambor trasferisce la sua analisi sulla pittura. Questo nucleo di opere e azioni prende l'avvio nel 1968 caratterizzandosi in modi e in forme differenti e sviluppandosi nel tempo.
Ognuno dei differenti Itinerari di Mambor, che potevano essere realizzati -come in questo caso- anche da terze persone e su diverse superfici pittoriche, palesano tracce dipinte tramite impronte lasciate dal colore di cui sono intrisi utensili diversi: oggetti di gomma che si trovano in commercio per decorare le pareti con finta tappezzeria, marchi, e macchine traccialinee usate per realizzare la segnaletica stradale, come nel caso di Tracce sul Viale dell'Uccelliera a Villa Borghese. Luca Maria Patella rivela nel suo esteso lavoro una formazione colta e contaminata che spazia dalla cultura classica a quella artistica sino a quella scientifica (e non necessariamente in quest'ordine progressivo). Artista extra-vagante, per usare una sua definizione, ha quindi miscelato sapientemente le sue cognizioni portando avanti la sua ricerca tramite diversi mezzi espressivi sperimentali integrati che coinvolgono la pittura, l'incisione, la fotografia, l'ambiente, il comportamento, l'installazione, il film, il video, il suono, il libro e il mezzo digitale: prevalentemente media (multi Media) Senza Peso, secondo una sua felice definizione, in grado di edificare linguaggi originali, consci del passato ma al passo con i tempi. Il suo lungo operare è Arte & Non arte com'egli stesso afferma, ovvero: si svolge nei territori dell'arte ma anche in quelli dell'approfondita teoria provenienti da campi estranei all'arte in un tutt'uno complesso, problematico e allarmante.
Patella è una figura preminente del panorama della sperimentazione contemporanea: egli ha anticipato il carattere concettuale ma anche quello comportamentale e multimediale della ricerca artistica utilizzando ufficialmente la fotografia a partire dal 1964. In questo contesto la sua posizione è decisamente analitica: il suo lavoro è infatti da sempre orientato a un'analisi dei segni legati allo specifico fotografico e a un uso degli stessi in funzione interdisciplinare. Questa volontà , oggi diversamente ma facilmente riscontrabile in moltissime delle ricerche dell'arte più attuale, non era comune in quei primi anni Sessanta -la prima mostra di fotografie di Patella è datata 1966- e pone Patella come un precedente illustre di tanta produzione di questi ultimi anni. La forma data dall'artista a tale analisi linguistica è quella di un certo tipo di immagine che evidenzia qualcosa di lontano dalla pura raffigurazione perchè più vicina a un'idea di ricostruzione della cosa fotografata. Solo per fare qualche esempio, citiamo a questo proposito le Terre Animate (1967), la serie di Montefolle (1970), le varie Autofoto (dal 1973), le varie zoomate su Roma, da Fontana di Trevi (prima metà anni Settanta) al Colosseo.
Le fotografie di Patella prendono la realtà e ne forzano immediatamente la percezione con interessantissime sperimentazioni ottico-fotografiche e contributi manipolatori (fotomontaggio, distorsioni, deformazione prospettica, coloritura a mano e alterazioni cromatiche, digitalizzazione...); questi interventi così congegnati, insieme alle particolari scelte compositive, caratterizzano le sue immagini arricchendole di un forte potere evocativo e di una connotazione visionaria portandole verso inaspettate derive poetiche. Tutto, sempre, con la volontà di superare i limiti linguistici del mezzo specifico, dopo averli minuziosamente esaminati -dissezionati su quel lautremontiano tavolo chirurgico- per far posto a un'interdisciplinarietà globale.
Anche il lavoro di Giuseppe Tubi ha una forte matrice sperimentale e carattere concettuale. Attraverso le sue opere -manipolazioni digitali di immagini prevalentemente statiche, sovrapposte sino a comporre una sequenza in movimento e poi stampate su carta fotografica- Tubi realizza una fusione visiva in senso metalinguistico. Egli infatti campiona e miscela tra loro differenti linguaggi artistici (pittura, fotografia, video, ma anche cinema e televisione) che utilizza con finalità diverse rispetto a quelle per le quali ciascuno di questi è nato, quindi con slittamenti di segno e di significato. In questo modo dà luogo, come egli stesso scrive, a "un nuovo metalinguaggio che ha digerito tutti i precedenti". Questa infinita possibilità di comunicazione dei diversi linguaggi artistici è resa più agevole dall'uso che Tubi fa del computer adoperato sia a livello tecnico che facendone proprie le specifiche peculiarità e dove la fotografia, come si evince dalle opere in mostra, ha un posto assolutamente di primo piano.
Essa è invece il campo unico e privilegiato entro il quale si muove Roberto Bossaglia. Questo autore soppesa le specificità proprie della fotografia prendendone in esame la grammatica e via via articolandone l'intera complessità . Parallelamente, le sue opere rivelano un'attenzione quasi affettuosa per il soggetto rappresentato, che quindi non è necessariamente secondario rispetto alla priorità analitica ma anzi ne è parte integrante. I suoi scorci dell'Eur, le sue strade cittadine, le marine, i paesaggi, alcuni a colori, molti altri in bianco e nero -questi ultimi spesso accesi da dominanti cromatiche appena seppiate o azzurrate- sono raffigurati con uno sguardo fotografico netto, diretto, pulito, che ricerca contrasti chiaroscurali decisi, ombre particolari, geometrie, insistendo nelle sue composizioni sulla struttura dell'oggetto rappresentato. Questo aspetto razionale delle foto di Bossaglia, dato dalla particolare tipologia straight delle sue visioni e dal carattere concettualmente orientato alla questione linguistica dello specifico fotografico, è affiancato da un'attenzione verso formalizzazioni dell'arte e della fotografia del passato che Bossaglia infatti ricorda nelle sue immagini, come ad esempio nelle notissime panoramiche sull'Eur. In esse, riecheggia in modo straordinario non già la cultura visiva del Ventennio ma la Metafisica, della quale riprende le strutture, trasportando una pertinenza pittorica nel linguaggio della fotografia, come le foto in mostra ben evidenziano.
Nell'ambito di un'attenzione verso l'ambito linguistico della fotografia e all'interno di quella che potremmo indicare come pura fotografia si distinguono diversamente Federico Del Prete e Daniele Fragapane.
Il primo realizza immagini dirette, senza manipolazione alcuna, presentando soggetti appartenenti a una vasta gamma tipologica: motociclette, animali, lavoratori immigrati all'opera in quartieri periferici della città , come nel caso della foto esposta, circoscritta all'area romana Rinnovamento. La normalità , persino la banalità di queste panoramiche, che tradiscono un interesse "alquanto enciclopedico" per ogni aspetto della realtà , per essenzialità e onestà nella restituzione fotografica, per efficacia compositiva e densità cromatica assumono un carattere di epica bellezza. Il senso di questa ricerca non va però ricercata nell'immagine -nel fotografato- ma nell'ambito dello specifico della fotografia che Del Prete analizza e approfondisce sia con l'arte che con la riflessione teorica rilevando come in essa confluiscano contaminazioni linguistiche; così i suoi operai richiamano la pittura di certo realismo ottocentesco, di lavoratori sironiani, di aree dell'avanguardia russa e allo stesso tempo si allontanano da tali riferimenti perchè diventati parte di una nuova fusione visiva.
Più compiaciuto risulta lo sguardo di Daniele Fragapane che rivela l'attitudine al superamento di una resa diretta della realtà ed è rivolto a marcare la struttura compositiva dell'immagine. La visione è restituita immersa in un'atmosfera di sospensione spaziotemporale, cromaticamente investita da una luce morbida e quasi irreale che rende accattivanti e potentemente evocativi soggetti quanto mai normali come possono esserlo distese di campi da arare, periferie, detriti, spoglie aree industriali dismesse restituite però attraverso un'ottica che richiama certa fotografia geometrico-architettonica anni '20.
Emiliano Cataldo e Mirai Pulvirenti tradiscono, nelle loro fotografie, la loro formazione nell'ambito dell'underground, mescolanza di esperienze artistiche, creative e professionali che uniscono efficacemente una cultura visiva alta a una realtà di derivazione alternativa. Questo vissuto non necessariamente è protagonista dei soggetti delle loro fotografie ma ne è spesso un elemento determinante: basti guardare le potenti immagini di skaters in azione all'Eur scattate da Mirai Pulvirenti, o la serie di interni di centri sociali, le archeologie industriali e i frammenti notturni cittadini resi da Emiliano Cataldo. Le loro foto, derivanti da tale contesto controculturale, ne risultano arricchite, posizionandosi sul terreno della fotografia ufficiale senza fraintendimenti nè compromessi. (B.M.)
Inaugurazione: giovedì 23 settembre 2004 - ore 18.30
Periodo: 23 settembre - 13 ottobre 2004
Orario di apertura: dalle 16.30 alle 19.30 (escluso lunedì e festivi)
Sede: MASCHERINO
Via del Mascherino 24, 00193 ROMA