Diverse Sedi
Brescia

Brescia. Lo splendore dell'arte
dal 22/10/2004 al 20/3/2005

Segnalato da

STUDIO ESSECI




 
calendario eventi  :: 




22/10/2004

Brescia. Lo splendore dell'arte

Diverse Sedi, Brescia

Due sedi per le cinque mostre nell'ambito della rassegna. 'Monet, la Senna, le ninfee, Il grande fiume e il nuovo secolo', 'Tiziano e la pittura del 500 a Venezia, Capolavori dal Louvre' e 'Gino Rossi' presso il Museo di Santa Giulia. 'Da Raffaello a Ceruti Capolavori della pittura' e 'Da Durer a Rembrandt a Morandi, Capolavori dell’incisione' alla Pinacoteca Tosio Martinengo.


comunicato stampa

- Monet, la Senna, le ninfee
Il grande fiume e il nuovo secolo

- Tiziano e la pittura del 500 a Venezia
Capolavori dal Louvre

- Gino Rossi

- Da Raffaello a Ceruti
Capolavori della pittura
dalla Pinacoteca Tosio Martinengo

- Da Dürer a Rembrandt a Morandi
Capolavori dell’incisione
dalla Pinacoteca Tosio Martinengo

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Monet, la Senna, le ninfee
Il grande fiume e il nuovo secolo

Brescia, Museo di Santa Giulia
Dal 23 ottobre 2004 al 20 marzo 2005

Monet come in Italia non si è mai visto, per una grande mostra che apre la lunga stagione che Brescia dedica, tra l’altro, ai grandissimi dell’impressionismo. L’esposizione, a cura di Marco Goldin, si compone di circa 100 dipinti e intende segnare il cammino che ha portato Claude Monet da una visione di impianto descrittivo e naturalistico fino alla dissoluzione dentro la materia, la luce e il colore del dato di natura, rappresentato dalla Senna. Fiume che, fin da certe prove degli anni sessanta del XIX secolo, resta come un vero filo rosso entro la sua opera, segnandone molto spesso le svolte più importanti e decisive. Sarà quindi lungo questo corso d’acqua che egli darà vita a tanti dei suoi quadri più celebri, offrendoci la possibilità di valutare con attenzione il suo procedere verso una interiorizzazione dell’immagine, quasi che, alla fine, la natura e il paesaggio sorgessero in lui non più dalla visione esteriore ma dalla visione interiore. Monet giunge addirittura a deviare il corso del fiume per creare, nella sua mente prima ancora che nella realtà, l’artificio della natura. Dunque le ninfee, lo stagno, il ponte giapponese, saranno la trascrizione nuova di ciò che nei decenni precedenti la Senna aveva rappresentato per lui, con tutti i mutamenti importanti che già nell’ultimo decennio del XIX secolo intervengono.
Ma al principio, dopo quella sorta di alunnato con Boudin e Jongkind in Normandia, davanti al mare di Le Havre, e dopo il passaggio attraverso la foresta di Fontainebleau, che diventa per lui il primo vero atelier entro i confini della natura, Monet inizia quel lungo canto disteso ai lati, e fin dentro, le acque della Senna. Dalle prime descrizioni del fiume, nei pressi della foce, tra Le Havre e Honfleur, fino alla contaminazione con l’acqua del mare: e proprio questo spazio indistinto, che è fiume e mare insieme, è oggetto di alcuni tra i primi quadri. Poi il fiume che attraversa Parigi, nella musicalità affollata del rigoglio fiorito della gente che invade le strade, fino alla identificazione di quel fiume con la natura, con il suo splendore. Fiume che diventa così, poco per volta, la lente per intendere la grandezza e l’evoluzione del pittore, che la mostra indicherà con generosità d’esempi e con capolavori. Fino alla serie celebre, tra 1896 e 1897, dedicata ai Mattini sulla Senna, quando la visione partecipata del reale sta già virando entro il territorio della dissoluzione delle forme fattesi realtà della non realtà.
L’idea di Monet, di deviare il corso del fiume per costituire l’artificio della natura, sarà illustrata attraverso alcuni quadri celebri, dai Ponti giapponesi alle Ninfee. La Senna, il motivo che unifica e sta alla base di questa mostra, si spegne in queste finali acque stagnanti. Trasformata nella luce di un divenire che è tempo e spazio insieme. Ecco perché occorreva, alla conclusione della mostra, indicare anche l’acqua di Giverny come ulteriore spazio di una grandezza pittorica che aveva già toccato vertici sublimi. Perché è il fiume, la Senna, il vero protagonista della mostra.
Ma per rendere l’esposizione ancor più completa e storicamente organizzata, verranno presentati, al suo principio, dieci dipinti di Corot e Daubigny, i pittori che costituiscono, prima dell’impressionismo, il vero punto di partenza, sempre sul tema della Senna, anche per Claude Monet. E a fare da corona all’opera di Monet, che in mostra sarà rappresentato da circa 50 dipinti, saranno i suoi veri compagni di strada: Pissarro, Renoir, Sisley e Caillebotte. Attraverso circa 40 dipinti, daranno il senso di un cammino che, iniziato nei pressi di quello di Monet, si è sviluppato poi lungo percorsi diversi. Da questo confronto emergerà certo la loro grandezza, ma anche il senso finale di questa esposizione: far intendere come Monet si sia portato entro i confini di una regione nuova, ormai pienamente novecentesca. Nel terreno cioè dello sprofondamento psicologico della visione e della pittura. Per comprendere come, infine, egli si sia di così tanto allontanato dall’impressionismo, di cui pure è sempre stato considerato il padre. Un padre che tradisce il figlio che ha generato.

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Tiziano e la pittura del 500 a Venezia
Capolavori dal Louvre

Brescia, Museo di Santa Giulia
Dal 23 ottobre 2004 al 20 marzo 2005

Nel museo di Santa Giulia una mostra di eccezionale interesse: presentati al pubblico dieci capolavori della pittura italiana del Cinquecento, abitualmente conservati nel cuore vero del museo del Louvre, dove è custodita la Gioconda, la Sala degli Stati, chiusa per un restauro coincidente con il periodo della mostra. Opere dunque di valore assoluto che Linea d'ombra e la Città di Brescia riescono a presentare grazie alla collaborazione con il museo parigino. Curatori dell’esposizione sono Vincent Pomarède e Jean Habert.
Sostanzialmente due i generi entro i quali vengono inquadrati i prestiti, fatta eccezione per il soggetto mitologico di Giuditta che taglia la testa a Oloferne, dipinto superbo di Palma il Giovane. Da una parte la ritrattistica che ha il suo vertice di modernità nella fierezza enigmatica dell'Autoritratto (1588 ca.) di un Tintoretto ormai anziano cui si contrappone la giovanile baldanza di Francesco I re di Francia (1538), singolarmente inquadrato da Tiziano di profilo e a mezzo busto così che le ricche vesti ne sottolineino la indiscutibile presenza fisica. E ancora, lo spregiudicato acume del ritratto psicologico dipinto da Giambattista Moroni (Ritratto di chierico, 1561-63) così come il fresco Ritratto di donna con un bambino e un cane compiuto dal Veronese nello stesso periodo.
L'altro genere, la pittura di soggetto religioso, farà realmente intendere il concetto di capolavoro su tutte con almeno due opere in particolare: Il Calvario (1580-1588), dipinto da Paolo Veronese con una forma perfettamente quadrata e un personalissimo taglio della composizione strutturata lungo la diagonale che a partire dal compianto delle donne sale fino alla figura del Cristo in croce, e la Madonna col Bambino e Santa Caterina, detta La Madonna del coniglio (1520-1530), dipinta da un Tiziano giovane che ambienta in una scena campestre, sullo sfondo delle montagne del Cadore, una Vergine di rara dolcezza nel cui volto è stata riconosciuta la bella moglie Cecilia.
Ma sono ancora altre le scene della vita di Cristo interpretate da artisti meno noti al grande pubblico: è il caso di Francesco Bassano il Giovane (La salita al Calvario), del veronese Gianfrancesco Caroto (Il riposo durante la fuga in Egitto), e di Giovanni Cariani, pittore bergamasco qui rappresentato da una Madonna col Bambino e San Sebastiano di impronta belliniana.
Dieci capolavori dal Louvre a Brescia per inaugurare una stagione di esposizioni che porteranno al pubblico italiano i tesori dei più importanti musei del mondo.

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Da Raffaello a Ceruti
Capolavori della pittura
dalla Pinacoteca Tosio Martinengo

Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo
Dal 23 ottobre 2004 al 20 marzo 2005

Una mostra straordinaria, a cura di Elena Lucchesi Ragni e Renata Stradiotti, riunisce circa sessanta opere di pittura datate tra il XV e il XVIII secolo, quanto a dire tutti i capolavori della collezione Tosio Martinengo, tali da porre la raccolta bresciana ai vertici non soltanto in Italia nell’ambito della pittura antica. Una rigorosa selezione offre dunque quanto di più suggestivo vi sia contenuto, a cominciare da opere di bellezza incomparabile di Raffaello.
Nel Palazzo Martinengo da Barco, ove si svolge la mostra, ha sede la Pinacoteca Tosio Martinengo, risultato dell’unione delle due gallerie già costituite con i lasciti del conte Paolo Tosio (1844) e del conte Francesco Leopardo Martinengo (1883) e aperta al pubblico nel 1908. Arricchitasi nel tempo con altri lasciti, con opere provenienti da chiese soppresse o edifici distrutti fino alle recenti acquisizioni, l’ordinamento attuale espone opere databili dal XIII al XVIII secolo.
Numerosi dipinti provenienti da chiese e palazzi cittadini rispecchiano il clima artistico bresciano Tre-Quattrocentesco, aperto ai richiami del mondo veneto-bizantino (come si nota in alcuni scomparti del polittico con San Giovanni Battista, San Paolo e due Santi Vescovi di Paolo Veneziano), alle influenze giottesche e al filone “cortese” di chiara matrice lombarda, rappresentato dalla tavola con San Giorgio e il drago databile alla seconda metà del XV secolo.
Il definitivo distacco dalla tradizione gotico-internazionale radicata nell’Italia settentrionale e l’introduzione delle innovazioni umanistico-archeologiche e prospettiche si compie con Vincenzo Foppa che pur mantiene un’attenzione irrinunciabile alla verità del dato naturale, indagato con cromatismo pacato e luce fredda. Appartengono alla tarda maturità del Foppa, cioè agli anni 1514-1515, la Madonna con il Bambino fra i Santi Faustino e Giovita, lo Stendardo proveniente dalla parrocchiale di Orzinuovi, il San Giovanni Battista e la Santa Apollonia.
Alla fine del XV secolo, le influenze della pittura d’oltralpe e della presenza in Lombardia di Bramante e Leonardo giunsero a Brescia grazie al cremasco Vincenzo Civerchio, di cui si espone il polittico con San Nicola da Tolentino, San Rocco e San Sebastiano (1495).
Sotto il dominio della Serenissima, Brescia divenne particolarmente sensibile all’ambiente culturale veneziano, che influenzò la più famosa triade di maestri del rinascimento bresciano: Savoldo, Romanino, Moretto.
Di Gerolamo Savoldo si possono ammirare la Natività (1540), opera immersa in un’ambientazione notturna trasfigurata dagli effetti di luce lunare, e il Ritratto di uomo con flauto, recente acquisizione, che è una delle più alte realizzazioni nel campo della ritrattistica rinascimentale.
L’interpretazione della realtà, negli aspetti naturali e umani, che affonda le radici nell’inventiva innovatrice del Foppa – poi arricchita di influssi veneto-lombardi e di apporti fiamminghi con il Savoldo –, sarà approfondita anche da altri due artisti bresciani: Gerolamo Romani detto il Romanino e Alessandro Bonvicino detto il Moretto.
La pala con la Natività è uno dei saggi più felici di luminismo precaravaggesco del Romanino. Poco più tarda, la Cena in Emmaus, accanto al vivace colorismo veneto, manifesta un’attenzione particolare alla verità delle cose presentata anche nei suoi aspetti più aspri.
Tra le opere del Moretto si segnalano la Madonna col Bambino, San Nicola di Bari e i discepoli del grammatico Rovelli, datata 1539. Solennità e misura sono le qualità adatte ad esprimere la religiosità intensa e austera di Moretto, che raggiunge un intenso pathos espressivo nel Cristo morto e l’angelo, opera della tarda maturità.
La serie dei “ritratti” di autori bresciani ben rappresenta l’esigenza realistica condivisa e pienamente realizzata anche dal bergamasco Giovan Battista Moroni, autore del Ritratto di magistrato (1560).
Fortemente suggestive per il loro dinamismo compositivo di derivazione manierista sono i fregi del bresciano Lattanzio Gambara e le grandi tempere dei cremonesi Antonio e Giulio Campi.
Fra le opere di scuola veneta cinquecentesca si distingue la tela di Lorenzo Lotto con l’Adorazione dei pastori, databile al terzo decennio del secolo. L’accostamento cromatico di tonalità decise, l’irrequieto trascorrere delle luci, la composizione dinamica rendono questa tela una fra le opere più significative del grande artista.
La scuola rinascimentale dell’Italia centrale è rappresentata, anche se in numero limitato, da opere di grande interesse, come la Madonna col Bambino e San Giovannino di Francesco Francia e, soprattutto, l’Angelo e il Cristo benedicente di Raffaello Sanzio. Nell’Angelo, frammento della pala con l’Incoronazione di San Nicola da Tolentino, si riconosce la mano del giovane Raffaello, mentre il Cristo benedicente, preziosa opera destinata alla devozione privata, è avvolto da morbide modulazioni luministiche.
Per il XVII e XVIII secolo spiccano alcune grandi figure di aree culturali diverse; in ambito bresciano, meritano particolare attenzione Cifrondi e Ceruti, i cosiddetti “pittori della realtà”. Campeggiano solitarie le figure di Antonio Cifrondi, come il personaggio rappresentato nella Cucitrice, con il quale l’artista intende esaltare il lavoro umile e quotidiano di un personaggio senza storia.
Assolutamente straordinaria, per numero e qualità, è la serie di opere di Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto. Nella sua pittura – essenziale nelle variazioni cromatiche ma densa di materia – l’artista rende lucidamente la propria sincera partecipazione alla condizione pietosa di un’umanità dolente, raffigurata in modo eloquente nelle tele provenienti dalla collezione Fenaroli-Avogadro (e collocate agli inizi del Novecento nel castello di Padernello): la celeberrima Lavandaia, le Donne che lavorano, l’Incontro nel bosco, i Calzolai e la Filatrice, ma anche opere come i Due pitocchi e il Portarolo. Ceruti fu anche abile e ricercato ritrattista, come testimonia la serie dei ritratti presenti in Pinacoteca.


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Da Raffaello a Ceruti
Capolavori della pittura
dalla Pinacoteca Tosio Martinengo

Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo
Dal 23 ottobre 2004 al 20 marzo 2005

Ancora nella sede della Pinacoteca Tosio Martinengo trova ospitalità una seconda, non meno eccezionale esposizione, a cura di Elena Lucchesi Ragni e Maurizio Mondini, che raccoglie circa sessanta capolavori dell’incisione datati dal XV al XX secolo. La mostra si compone di una selezione di stupefacente qualità all’interno della sezione di grafica della stessa Pinacoteca, che raccoglie tutte le opere su carta di proprietà dei Musei Civici d’Arte e Storia di Brescia, in maggioranza disegni e incisioni. Questa collezione, iniziata nel Settecento dal cardinale Angelo Maria Querini, si è arricchita in seguito grazie a importanti lasciti ed acquisti nel corso dell’Ottocento e del Novecento. La raccolta dispone inoltre di alcune centinaia di preziosi dipinti giapponesi su carta e seta donati dal conte Alessandro Fè D’Ostiani, e, ancora, di numerose antiche matrici in rame e legno.
La parte più rilevante del fondo è costituita da circa trentamila esemplari, che documentano lo sviluppo dell’incisione nelle sue varie tecniche (xilografia, bulino, acquaforte, chiaroscuro, litografia) dal Quattrocento all’età contemporanea. Si tratta di un cospicuo patrimonio di stampe, spesso straordinarie per qualità e rarità, dovute in gran parte ai più famosi esponenti delle diverse scuole europee. Sono inoltre presenti autori difficilmente reperibili e quindi di notevole interesse.
È da segnalare la cospicua serie dei bulini di ambito tedesco: gli esemplari antichi di Martin Schongauer e la serie, pressoché completa, delle opere di Albrecht Dürer. Altrettanto ricca e preziosa, la sequenza delle incisioni del Cinquecento italiano, rappresentato da autori quali Marcantonio Raimondi, Parmigianino, Annibale e Ludovico Carracci. La scuola fiamminga e olandese comprende numerose opere di Luca di Leida e celebri capolavori di Rembrandt, come la cosiddetta “stampa dei cento fiorini” e la grande Deposizione.
Nella raccolta bresciana sono inoltre conservate notevoli acqueforti di autori francesi come Jacques Callot e italiani del Seicento, fra i quali Stefano della Bella, Guido Reni e Giovanni Battista Castiglione detto il Grechetto. Quest’ultimo è rappresentato anche da un rarissimo, quanto sorprendente, monotipo che raffigura Giuditta con la testa di Oloferne, stampa ricavata in esemplare unico da un disegno tracciato su lastra di vetro. Il Settecento è ben rappresentato dalle acqueforti dei maestri veneti (Canaletto, i due Tiepolo, Giovan Battista Piranesi), oltre che dalle interessanti maniere “nere” e “punteggiate” della scuola inglese della seconda metà del secolo.
Tra gli esemplari ottocenteschi, spiccano un’edizione completa, ancora rilegata, dei Capricci di Goya e alcune annate della rivista francese «Le Charivari», con le notissime litografie satiriche di Daumier. Il patrimonio delle stampe moderne e contemporanee, anche se non appare altrettanto ricco, comprende fogli di notevole valore come la Grande natura morta di Giorgio Morandi, del 1928, considerata un capolavoro dell’incisione italiana del Novecento.


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Gino Rossi

Brescia, Museo di Santa Giulia
Dal 23 ottobre 2004 al 13 gennaio 2005

La vicenda umana e artistica di Gino Rossi (Venezia, 1884 - Treviso, 1947) è una delle più straordinarie, fascinose e segrete dei primi due decenni del XX secolo in Italia. Da vent’anni non si realizza più una sua mostra, dopo quella che gli dedicarono, congiuntamente, le città di Verona e Venezia in occasione del centenario della nascita. Le difficoltà sono enormi nel reperire, disperse in molte collezioni private anche straniere, oltre che raccolte in alcuni tra i maggiori musei italiani, le opere per garantire un percorso che sappia identificare questa personalità umanamente fragile e pittoricamente al livello dei più grandi, come tutta la critica ha sempre unanimemente sostenuto. Sono appena più di cento, esiguo numero, i quadri che si contano nel suo catalogo generale. La mostra di Brescia, a cura di Marco Goldin, ne presenta oltre trenta, volendo costituire così una sorta di summa straordinaria di quanto il pittore veneziano ha prodotto nel corso della sua così travagliata vicenda biografica e artistica.
Decisivi furono per Gino Rossi i viaggi di “educazione” in Francia sulle tracce in modo particolare di Gauguin e del cloisonnisme. Nino Barbantini, il mitico direttore di Ca’ Pesaro a Venezia, quando nel 1907 lo vide arrivare con alcune tele sotto il braccio lo salutò come “la staffetta della gioventù”. E in effetti tutti gli anni migliori di Gino Rossi, prima della sua parabola tristissima che lo relegò in manicomio negli ultimi vent’anni della sua vita, sono legati proprio all’avanguardia capesarina, a cominciare dalla mostra famosissima del 1908, a inizio di un ciclo che rese Venezia, sino al principio del conflitto mondiale, il crocevia dell’avanguardia italiana. Nelle mostre veneziane, fino a quella rimasta memorabile del 1913, esponevano tra gli altri Arturo Martini, Umberto Boccioni, Felice Casorati, mentre Filippo Marinetti aveva lanciato dal campanile di San Marco il suo proclama futurista. È il tempo dei paesaggi di Burano, che succedono a quelli di Bretagna, e anche il tempo dei ritratti, fino alle grandi descrizioni asolane, che suggellano, prima dell’avvento della guerra mondiale, quella intarsiata dichiarazione del colore che è il tratto più tipico e riconosciuto di Gino Rossi.
Il maggiore riconoscimento al suo ruolo fondamentale in quella cerchia ristretta, è venuto dalla presenza nella grande mostra sui Postimpressionismi che Londra ha realizzato nel 1979. Alla felicità cromatica contenuta dentro la forte impronta della linea, proprio secondo il modello gauguiniano, succede, nell’immediato dopoguerra, la fase della ricerca della forma, che ha nell’esempio di Cézanne il modello più alto. Sono gli anni in cui, prima dei vari ricoveri in manicomio, la pittura diventa più cupa e le lettere di invocazione, struggenti, ai pochi amici suggellano la fine di una breve, intensissima, strada.


Uffico stampa: Studio Esseci

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