Galleria Ca' di Fra'
Milano
via Carlo Farini, 2 (secondo cortile)
02 29002108 FAX 02 29002108

Joel Peter Witkin
dal 25/5/2005 al 25/6/2005
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Segnalato da

Galleria Ca' di Fra'



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Joel Peter Witkin



 
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25/5/2005

Joel Peter Witkin

Galleria Ca' di Fra', Milano

Personale. Negli scatti dell'artista c'e' un estremo tentativo di fermare il Tempo, di sottrarre anche le parti ormai morte e in putrefazione al deterioramento isolandole in un ideale 'per sempre'. Vita e Morte, Eros e Thanathos, bello e brutto, erotismo, sado-masochismo, perversione e redenzione.


comunicato stampa

Mostra personale

Joel Peter Witkin è un artista che segna un’epoca. Vive e lavora ad Albuquerque, in New Mexico.
Parlare del lavoro di Witkin e comprenderne la tematica significa tener ben presente la sua biografia, molla scatenante del suo “essere” e “fare arte”. Classe 1939, nato a Brooklyn da madre napoletana cattolica e padre ebreo russo, rimane segnato da un’educazione fortemente cattolica e da questa dicotomia religiosa interna alla famiglia, motivo di grandi litigi e di divorzio tra i genitori. Una pesante educazione familiare che lo carica di visioni apocalittiche.

La presenza poi di una nonna malata in casa lo avvicina, bambino, al senso di Morte: “Aveva una gamba in cancrena e quando mi alzavo per bere il caffè ne sentivo l’odore” ricorda “..ne ero preso..quell’amore era in qualche modo legato a qualcosa che rientrava nel deterioramento..” e continua “.. il legame tra Vanità e Morte è una sorta di lezione visiva...emozioni contraddittorie che ho cercato di tradurre nella mia fotografia..”. Il termine vanitas va associato alla sua educazione religiosa. Deriva dal Prologo del libro biblico dell'Ecclesiaste o Qohélet (III sec a.C.) che recita : “Vanitas vanitatum, et omnia vanitas” (Vanità delle vanità, tutto è vanità) non a caso libro importante sia per la religione cristiana che ebraica, più conosciuto per il capitolo sulla Morte che recita: “C’è un tempo per nascere e un tempo per morire…”.

Nella storia dell'arte, invece, il termine vanitas fa la sua comparsa in campo pittorico all'inizio del XVII secolo e definisce un soggetto iconografico che può essere riconducibile al genere della ''natura morta'', caratterizzato dalla presenza di oggetti in relazione alla caducità della condizione umana quali orologi, clessidre, teschi, candele, fiori recisi, frutta che si decompone, cristalli e specchi, denaro e gioielli, pipe spente e polvere accumulatasi sugli strumenti musicali. Oggetti che svolgono la specifica tematica del “memento mori”, del ''ricorda che devi morire''. Simboli e simbologie di cui è pienamente ricca l’opera di Joel Peter Witkin. Attraverso la fotografia scopre il mezzo - terapeutico - con cui raccontare quel lato della Vita che si nasconde nelle sfumature della diversità. Vita fatta non solo di Amore e Bene, ma anche di dolore, di sesso estremo, di Morte. Bene e Male si compensano e si contemplano. Gli opposti si giustificano e trovano senso solo nell’ altro da sé. L’educazione cattolica di cui si nutre da giovane, il concetto di costante punizione e redenzione, di peccato e salvezza lo stimola ad una ossessiva ricerca-documentazione dell’emarginazione, del mondo che vive nell’ombra.

Esemplare la sua prima fotografia scattata nel 1956 “Coney Island boy” che ritrae un bambino con il volto offuscato dalla luce. Primo segnale dell’interesse di Witkin per la maschera, apparato simbolico per comprendere la personalità del soggetto. L’interesse per gli emarginati continua progressivamente, soprattutto là dove la morale comune ed i tabù culturali pongono dei limiti considerati invalicabili e, quindi, sacri. Come sacrilego è considerato chi, come lui, li vìola portando alla luce le “verità nascoste” del nostro perbenismo che “sa ma non vuole vedere”, che permette l’atto “proibito” purchè non se ne parli. Inizia a fotografare i freaks (mostri) del circo di Coney Island, 1956. Scherzi della natura come nani, l’uomo dalle tre gambe, “the Chicken lady” e un ermafrodita con cui ha la prima esperienza sessuale. Significativa l’opera “Untitled” 1956 in cui ritrae una donna con caratteristiche disfunzionali, deformazioni ossee e anomalie.

Una figura che è oggetto di orrore ma che può essere anche amata. Un’immagine tra realtà e irrealtà, tra amore e odio, tra bizzarro e tragico. Una rappresentazione del diverso e del tragico che segna una conquista perché testimonia l’infinita varietà dell’esistere e dell’estetica. Diventa così, in quanto artista, demiurgo di un suo universo fantastico e illusorio dove sono abolite le conflittualità. Detta regole e crea mostri-uomini come un dio, permettendosi di progettare un mondo di soggetti e temi proibiti, non senza una colta e attenta citazione (e manipolazione) di immagini storiche di supplizi e tragedie scolpite da Bernini, Canova o dipinte da Bosch, Botticelli, Caravaggio, Tiziano, Velasquez, Goya.

Come gli antichi maestri, realizza “nature morte” ma di parti umane. Con la sua fotografia ci mostra il suo inconscio, un mondo da incubo. Il “lato oscuro” che ognuno di noi ha, sul quale Witkin getta una luce. Una discesa negli Inferi delle nostre paure e delle diversità in cui, contemporaneo Virgilio, ci fa da guida in un girone dantesco che poi è la Vita, in cui convivono bello e brutto, amore e odio, violenza e pace. In tutta la sua vita ha sempre cercato la “rivelazione di Dio” nella vita di tutti i giorni, sperando di poterla fotografare se non con i suoi occhi “mortali” con l’occhio magico della macchina fotografica “...avevo la speranza che forse la fotografia l’avrebbe rivelato..forse Dio sarebbe apparso una volta sviluppata la pellicola…”.

Forse, sperava, si sarebbe rivelato in camera oscura, luogo magico già di per sé, che in Witkin diventa luogo sacro e centro pulsante della sua arte. Le sue non sono più solo fotografie. Sono teatro, pittura, icone. Un lavoro forte che non può lasciare indifferenti e che suscita repulsione, orrore, paura, ma anche l’attrazione e il fascino del voyeurismo “proibito”, perverso e morboso. Proprio come ci respingono ed attraggono allo stesso tempo le diversità, la Morte, il dolore e la violenza. Nei suoi scatti c’è un estremo tentativo di fermare il Tempo, di sottrarre anche le parti ormai morte e in putrefazione all’ultimo definitivo deterioramento isolandole col suo scatto in un ideale “per sempre” che le sottragga allo scorrere inesorabile del Tempo. Vita e Morte, Eros e Thanathos, bello e brutto, erotismo, sado-masochismo, perversione e redenzione. Nei suoi tableaux c’è una lettura del mondo il cui effetto drammatico è ottenuto dal ricorso allo spazio dell’arte e del teatro capaci di creare una realtà metafisica. Una visione non scevra da quella religiosità fatta di passione, peccato e pentimento, condanna e salvezza, Bene e Male che sono i concetti base della religione cattolica, di cui la madre era fervente praticante. Temi che si intrecciano e si fondono nel costante battito cardiaco di cui pulsano le provocatorie e fortissime immagini di Witkin. Un teatro del Grand-Guignol di cui si nutre per risputare, in forma di opere d’arte, tutte le sue (e le nostre) ataviche e private paure rendendoci partecipi con questa sua personalissima visione di quello spettacolo, a tutti ben noto, che è la Vita.

La mostra presenta una decina degli scatti dell’ultimo periodo e una decina degli scatti storici.
Claudio Composti

Galleria Ca' di Fra'
via Farini 2 - Milano

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