Corpo e spazio, pieno e vuoto, bianco e nero. Il gioco sulle piu' semplici e antiche - e proprio per questo difficili - dicotomie della percezione rivisitato nella pittura attraverso una immaginifica riflessione sulla fotografia.
Spazio prende corpo
a cura di Giulia Altissimo
Corpo e spazio, pieno e vuoto, bianco e nero. Il gioco sulle piu' semplici e antiche
- e proprio per questo difficili - dicotomie della percezione rivisitato nella
pittura attraverso un’inedita e immaginifica riflessione sulla fotografia. La scelta
della giovane artista Ilaria Buselli di sperimentare con l’uso prevalente del bianco
e nero e di soggetti figurativi, nulla ha a che vedere con un orientamento
elegantemente re'tro o pavidamente realistico, e si rivela anzi come una miniera
inesauribile di giochi spaziali e dinamici, attraverso cui la figura umana, quasi
trasfigurata, si muove, appare e scompare, si mimetizza, riempie lo spazio e ne e'
svuotata, si impone e poi si sfalda. I soggetti nascono spesso da un’immagine
impressa nella memoria da uno scatto fotografico, rivisitata attraverso il
linguaggio tutto personale della creazione che sviluppa la potenzialita' espressiva
insita in ogni oggetto della nostra visione, facendo affiorare verita' celate e
trasfigurandone l’aspetto, che emerge come moltiplicato, aperto a piu'
interpretazioni visive ed emotive. Nel dipinto Anatomia del vuoto, la suggestiva
sequenza di una danza e' fermata e scardinata dal suo contesto, con un taglio
inconsueto e come casuale, lasciando la sensazione ambigua di trovarsi di fronte ad
un’istantanea fotografica e al tempo stesso ad un’apparizione metamorfica, in cui si
fondono il massimo dinamismo e una sorta di sospensione atemporale.
Il denso nero
del fondo e' rotto dai graffi che solcano la tavola e da ombre rossastre, che si
fanno piu' dense in Frammenti di una danza, in cui l’anomala inquadratura della scena
accresce la sensazione di disorientamento e mistero, creando un’atmosfera lambita da
una leggera inquietudine. Il gesto del danzatore, dal volto trasfigurato in un
misterioso grido, sospeso sul fluido fondo rosso, evoca indefinite affinita' con un
gesto di terrorizzata ripulsa, quasi che il suo atletico salto, piu' che una movenza
artistica, fosse un disperato atto di difesa, forse rivolto al misterioso,
sconosciuto braccio che appare a sinistra. Il gioco spaziale si fa ancora piu'
raffinato in Metamorfosi, in cui l’uso del bianco e del nero diventa una sorta di
sfida alla distinzione tra pieno e vuoto, tra fondo e primo piano, in cui ad
occupare lo spazio e' un corpo costruito quasi come un negativo fotografico, dal
movimento ambiguo, tra la trasformazione e l’energica danza, e in cui in fondo
l’unico appiglio alla realta' fisica sembra essere offerto dalla teoria di tagli
incisi sulla superficie. In Samurai e in Momenti la riflessione sulla danza si
colora di notazioni tribali: nel primo dipinto la coppia di personaggi in bianco,
immersa in uno spazio rossastro spezzato da tagli nervosi, sembra impersonare una
tragica scena sospesa tra una finzione teatrale e un’onirica apparizione, in cui i
tagli sulla superficie creano venature aranciate, quasi ad evocare un’atmosfera di
tempesta che si addensa sui personaggi in lotta. Nel secondo, la superficie della
tavola e' nettamente scissa tra fondo, ancora sanguigno, e lo scivolare in avanti di
una serie uniforme di figure impegnate in una sorta di danza rituale, tellurica, in
cui sono ancora una volta le potenti incisioni sulla tavola a richiamare la vista
dello spettatore verso l’unita' del dipinto. La trasfigurazione e' elemento
essenziale di un’opera suggestiva come Impressione, che nasce da un vero ritratto
fotografico, reso pero' al negativo e poi progressivamente sfaldato nella pittura, al
punto da fargli perdere ogni connotazione individuale e tangibile consistenza e di
trasformarlo invece in una sorta di apparizione, quasi fosse il materializzarsi di
un ricordo che affiori fugacemente alla memoria, o il prendere corpo di un pensiero
fortemente presente al nostro animo.
Piu' immediato e corporeo e' invece Volto, in cui protagonista e' una giovane donna,
occhi profondi, viso e collo sottili, dall’espressione malinconica e sfuggente, lo
sguardo che sembra perdersi in una lontananza non fisica ma interiore. Un’immagine
in cui i segni grafici impressi sulla superficie, apparentemente privi di
significato, sembrano voler dichiarare, sogni, segreti, pensieri o ricordi non
decifrabili alla nostra lettura, e proprio per questo piu' intimi e reconditi;
ricordi che lasciano segni, come quelli che fisicamente solcano la tavola, e che
fanno parte della vita e dell’anima stessa di quel giovane viso.
La stessa profonda intensita' - tanto piu' profonda quanto piu' inaccessibile a noi - e'
rivelata dagli altri tre “ritratti" della serie. Questo ci suggerisce il viso dal
sorriso enigmatico di Cindy, al tempo stesso giovane e sapiente, quasi senza eta' e
senza sesso, lo sguardo penetrante rivolto verso una meta lontana, o verso un
ricordo o un pensiero fugace; la mano stretta al petto come a trattenere qualcosa o
a farsi forza, la figura immersa in un fondo fluido indefinito, spazio mentale e non
fisico. Cindy pare quasi voler essere la metafora di un giovane spirito in cammino,
e come sempre accade a chi e' alla ricerca di qualcosa, lascia intuire un percorso
pieno di dubbi, inevitabile realta' della vita umana.
Un’esperienza a noi ignota ma che si percepisce ambiguamente inquietante e' impressa
invece su Tracce. Ai nostri occhi un’immagine di donna, forse non piu' giovane o
forse semplicemente segnata nel corpo e nell’anima, guarda fisso un punto lontano
dietro le nostre spalle, le labbra sono sensuali ma chiuse, le gote scavate, serrate
le narici; il busto si staglia rigido, chiuso da un abito che sembra quasi una
corazza. Anche il fondo scuro, impercettibilmente segnato da gocce rosse, sembra
raccontare di un ricordo nefasto perso nel passato che riaffiori angosciante nella
memoria, che fermi il viso ed il pensiero in un tentativo di difesa, tentativo -
forse fallito - di ricacciare quel ricordo li' da dove e' venuto; questo sembrano dire
anche le poche enigmatiche scritte, come a suggerire che poche sono le parole adatte
a narrare quel pensiero, poiche' a volte le parole sono solo ombre di cio' che
esprimono.
Simile, dolente e inafferrabile e' la donna di Voca me. Il collo lievemente
reclinato, la pelle fredda, di un lucido grigiore, quasi traslucida come fosse di
marmo, la figura sembra volersi sporgere fuori dal quadro. Non puo' guardarci perche'
i suoi occhi sono chiusi come a respingere qualcosa, a reprimere il dolore, la bocca
e' dischiusa come in un debole richiamo a qualcuno che non puo' sentire. Anche la
folta chioma nera, raccolta ma da cui sfuggono alcune ciocche, trasmette nel suo
sfilacciarsi sulle spalle nude il senso di un’anima sfibrata. Questa volta pero'
l’intimo enigma del volto non e' espresso con i consueti segni grafici, ma da una
frase a noi comprensibile: sul fondo, ora uniforme, di un vivissimo rosso sangue, si
staglia a neri caratteri la scritta “Voca me", come fosse uno stanco grido d’aiuto.
Grido che evoca tristi assonanze con il “Voca me cum benedictis" delle messe
funeree, invocazione di un’anima impaurita e in pena che mai potra' sapere per tempo
se verra' esaudita.
Protagonista e' ancora il corpo - o forse sarebbe meglio dire la metamorfosi del
corpo - in Gemine Muse, sorta di dittico del tempo, del corpo e del pensiero.
Di fronte a noi due quadri, indissolubilmente legati l’uno all’altro: a sinistra, su
un fondo nero in cui scorrono guizzi di un fluido sanguigno, una giovane donna
guarda provocante fuori dal dipinto, le braccia sensualmente intrecciate dietro il
capo, a far risaltare il puro biancore del seno e del ventre liscio. Le labbra sono
arricciate in un sorriso trasfigurato in un ghigno, lo sguardo e' un aggressivo
invito, quasi una minaccia piu' che una morbida seduzione - con un impatto di
simbolista, quasi klimtiana memoria -: tutta la figura trasuda certezza del proprio
corpo, della bellezza che e' potere e puo' chiedere e ottenere tutto.
Ma proprio la punta del gomito di quel braccio magro e muscoloso, piegato dietro la
testa, che sconfina volutamente nel dipinto di destra, conduce lo sguardo verso il
necessario pendant. La donna che ci guarda ora non e' piu' giovane: il viso dai
lineamenti quasi irriconoscibili in cui spiccano solo gli occhi incavati in nere
occhiaie, il volto scavato, il collo rugoso, stretta in abiti bianchi e neri, le
braccia incrociate tra le gambe in un gesto di vergognosa pudicizia e impaurito
ripudio, tutto e' rappresentato con un segno del pennello che si direbbe sbavato,
come se il simbolico sformarsi e deteriorarsi della persona diventasse
improvvisamente visibile ai nostri occhi.
Il fondo sanguigno si e' ora fatto predominante, ma a testimoniare la tragica
fratellanza tra le due figure e' il piccolo disegno, che se nella giovane si limita a
una sorta di sensuale vezzo, un tatuaggio tra il ventre e la coscia, nel riquadro di
destra si e' ingigantito e campeggia sopra la figura femminile, come assurto a
marchio d’infamia. E a suggerire il carattere sessuale di tale sconosciuta infamia
e', quasi impercettibile a destra, la sagoma di un sesso femminile. Tutto il dittico
trasmette l’angoscioso senso di un peccato di una terribile espiazione, dove il
senso di inquietudine e' accresciuto dal nostro non conoscere l’entita' della presunta
colpa e il ruolo dell’ignoto giudice.
La sensazione di colpa e punizione, seppure espressa in forma piu' subdola, appare la
chiave anche di Forte silenzio. In questo dipinto interviene lo spazio ad aumentare
il senso di disorientamento e di angoscia, spazio che ricopre un ruolo alla pari con
il corpo. In basso a destra, raffigurato con un taglio talmente inusuale da sembrare
a prima vista quasi indistinguibile, e' rannicchiato un corpo di uomo, di cui si
intravede il capo chino, la clavicola incavata, la spalla e la punta del ginocchio.
Il nudo ci parla di un corpo indifeso, e tutto il suo essere trasuda desolazione e
solitudine. A sinistra, all’angolo opposto, compare la visione di un volto - a prima
vista femminile - che guarda verso quel corpo con un’indecifrabile espressione,
quasi di rimprovero, disprezzo, impietosa commiserazione. Tra le due figure, un
ampio ed inesorabile fondo nero.
Il dipinto, forse uno dei piu' carichi di morbosa ambiguita' della serie, sembra
assurgere ad atavico simbolo della colpa, dove l’uomo rannicchiato condensi tutte le
debolezze, inadeguatezze, errori e tragedie umane, e il volto giudice la conseguenza
stessa di quelle tragedie, il fantasma che abita la mente dell’uomo inetto e
colpevole; al tempo stesso quel corpo accartocciato pare rappresentare l’essenza
della vittima inerme, di fronte a una minaccia indefinibile ed inevitabile. Ma forse
tale dicotomia non e' cosi' essenziale, se e' vero che da sempre e' solo l’uomo ad
essere al tempo stesso vittima e carnefice di se stesso.
Giulia Altissimo
Vernice Sabato 30 Settembre 2006 h. 18-21
PerForm Contemporary Art
Via XXIV Maggio 57 - La Spezia
Apertura: dal Lunedi' al Sabato su appuntamento