We are everything you see. "Sono immagini, queste fotografie, che non attraversano confini, restano ferme prima del passaggio. Impossibile anche considerarle esclusivamente come composizioni formali."
Alla fotografia è stato chiesto nel corso del tempo di mostrare, dimostrare, afferrare attimi, fantasmi, trasformare, documentare, svelare, nascondere, convincere. Sembra che William & Blake chieda alle sue foto, semplicemente, di guardare. Di guardare come si può guardare, con attenzione (forse?), con partecipazione (magari, un po’…), con interesse (sì, a volte). È un guardare leggero, che non impone, che non si impone, che lascia le cose al suo posto. È un guardare che guarda cose già viste, senza stupirsi né stancarsi. Che guarda quello che capita, quello che c’è. Ci sono, nelle foto di W & B, direzioni, tracce, movimenti. Ci sono orme sulla sabbia e onde e nuvole in cammino. Impossibile però trasformarle in segni. Sulla sabbia le orme si confondono, si sovrappongono, si scontrano.
Le nuvole si perdono, si sfilacciano. Indizi che non si trasformano in soluzioni o inviti. Non ci sono traiettorie da estrapolare, tutto rimane dov’è.
Sono immagini, queste foto, che non attraversano confini, restano ferme prima del passaggio. Impossibile anche considerarle esclusivamente come composizioni formali. Ce ne sono alcune che stanno per diventarlo, astratte e piatte. Ma non lo fanno. Si veda, per esempio, la foto con il marmo grigio che impegna tutto il campo visivo. Non fosse per quel solo ago di pino, mezzo verde mezzo secco, in basso a sinistra, che riporta tutto a terra. Piccole imperfezioni senza importanza. Quelle che ci sono, che si trovano dovunque, di cui non ci si deve preoccupare. Piccole imperfezioni come quelle dei fiori, sfioriti, secchi, bucati. Niente che ci faccia pensare alla caducità della vita, alla transitorietà delle nostre gioie. Non ci sono vanitas in questa natura, solo attimi indifferenziati. Attimi che non scorrono.
È sempre stata legata al tempo, la fotografia. La fotografia come lo sguardo di Medusa che pietrifica, imbalsama, (Dubois) taglia un momento irripetibile nello spazio e nel tempo (ancora Dubois), senza però riuscire a trattenerlo: ogni foto afferma senza possibilità di errore che l’oggetto fotografato è stato là (ed è bene a questo punto ricordare che queste foto, scattate con una macchina digitale, non sono state modificate), ma “spostando questo reale verso il passato (…), essa suggerisce che è già morto” (Barthes).
È però uno sguardo così leggero, quello di W & B, che non si fa associare volentieri a gesti violenti come quello del pietrificare, del tagliare per sempre. Non si fa associare volentieri, sembra, a concetti assoluti come quello della morte. Sembrano piuttosto, queste fotografie, prelievi momentanei, non definitivi. Prestiti. Le cose vanno rimesse al loro posto, dopo. Dove continueranno a essere, a vivere, a rimanere uguali a se stesse. Per sempre forse. Il tempo non scorre: sono le foto, invece, a essere provvisorie, impalpabili, inconsistenti. Una provvisorietà che si è cercata di rispettare nell’allestimento, per cui gran parte delle foto sono disposte a terra, in modo che l’osservatore possa ripetere il gesto che è stato quello, primo, di W & B: trovare come senza aver cercato.
Si vedano, ancora, le foto di nuvole. Viene spontaneo pensare alla serie degli Equivalents di Stieglitz: nuvole pesanti, cariche di forze, cieli che fanno perdere l’orientamento a chi guarda. Le foto di Stieglitz mettono l’osservatore di fronte alla magnificenza del cielo, alla materia rigonfia delle nuvole. W & B non intende far perdere l’orientamento. Intende solo far vedere, o meglio, vedere, quello che c’è: un cielo morbido, quotidiano, ripetibile. Lo stesso, da sempre.