L’amore ai tempi del colera. L'artista si esprime attraverso fotografie contaminate da una personale tecnica "pittorica", gia' base delle sue "Opere al nero", e qui arricchita dal gusto per l'ambiguita' interpretativa.
L’Amore ai tempi del colera
Un giovane fotografo che s’ispira alla grande pittura barocca ammiccando, pero', al cinema.
Detto cosi' il discorso sembrerebbe apparentemente chiuso in partenza, gia' raccontato, o meglio, rinchiuso fra tre vertici che rappresentano le colonne d’Ercole della figurazione (in senso ampio) contemporanea. Eppure cosi' non e', ed e' in quel "apparentemente" la chiave di volta della rigorosa e divertita ricerca di Gianluca Chiodi. Tonnellate di carta ed inchiostro si sono spesi (e spesso sprecati) per cercare di dipanare l’intricato mistero che riguarda il rapporto tra pittura e fotografi a (e cinema per estensione). Eppure ancora la soluzione e' lontana, forse impossibile.
Questo in virtu' soprattutto dell’opposta e incongrua natura dei due linguaggi.
Come ho gia' avuto modo di rilevare a proposito della pittura “ingannatrice" di Luciano Ventrone, se, infatti, la fotografi a ripete meccanicamente se stessa all’infinito, con infinite variazioni non sempre originali, fondendosi e con-fondendosi con la realta' stessa, questo non avviene e non puo' avvenire nella pittura, procedimento astratto e astrattivo per eccellenza, che trasporta il visibile, la realta', in una dimensione ultraterrena ascrivibile al divino, per chi ha una fede in un dio, o al metafisico per i discepoli della ragione.
Non dimentichiamo in ogni modo che la fotografi a nasce come imitazione e semplificazione della pittura, per mano, guarda caso, di un incisore (Niepce) e di un pittore (Daguerre). E non eludia ,misconoscendole, nemmeno le importanti influenze rivoluzionarie che la fotografi a ha avuto sulla sua progenitrice, ivi comprese le degenerazioni scaltre e perverse di una certa arte a'-la-page che imperversa, tanto arrogante quanto vacua, sulla scena artistica d’oggi.
Un fatto appare chiaro: tanto ambigua, astrattiva appunto, appare la natura della pittura, quanto oggettiva, addirittura assoluta appare quella della fotografia. Ed ecco allora nascere in qualche pittore e fotografo il bisogno di inseguire e ri-creare quella natura a loro opposta ed estranea; pittori che dipingono la fotografi a trasportandola fuori della sua rassicurante oggettivita', creando autentici trompe l’oeil tanto apparentemente assoluti e rassicuranti quanto ingannevoli e ambigui (Luciano Ventrone e prima di lui tanti altri “ingannatori ottici") e, di contro, fotografi che cercano di “soggettivizzare" la realta' visibile, trasportandola nel sottile non-sense della pittura (uno per tutti potrei citare subitaneamente Joel Peter Witkin, ma anche il nostro Luigi Severini o, ancora piu' estremo, il cinematografico Peter Greenaway). A quest’ultima scuola appartiene anche Gianluca Chiodi, che senza esitazioni e senza mezzi termini s’esprime attraverso una fotografi autenticamente tale ma contaminata da una personale tecnica “pittorica", base delle sue “Opere al nero" e rinnovata, ne' “L’amore ai tempi del colera", da un’irriverente ambiguita' interpretativa. Un’ambiguita' dichiarata ed esasperata, al limite del capriccio, dello sberleffo ed arricchita di citazioni cinematografiche che escludono in partenza qualunque tentazione seriosa o drammatica.
La direzione intrapresa da Chiodi parte da suggestioni legate alla pittura di Caravaggio, che in un qualche modo si puo' considerare l’inventore di un’idea di “montaggio fotografico" avanti lettera e certamente il padre di un’idea di “luce" destinata a cambiare per sempre la storia dell’arte.
Sul filo di un’ironia sottile ma pericolosa, distaccato eppure presente, lucido seppure allucinato, Chiodi illumina (o rabbuia) i sentimenti e gli accadimenti umani d’oggi con la luce (o le ombre) del Merisi, esaltandone, con una figurativita' sempre vertiginosamente al limite dell’eccesso, quella dimensione malata, insana, artificiosa cosi' tipica dei nostri giorni (e di tutti quelli che ci separano dall’amato Barocco propriamente detto).
Ecco allora esaltata l’ambiguita' di san Sebastiano, piu' “belle" che santo, o quella di un’altrettanto improbabile Pieta', “Cronaca di una morte annunciata" dove l’esasperata espressione di una madonna badessa contrasta con la beata seraficita' di un Cristo travestito piu' beatamente sognante che propriamente morto (e certamente non suo). Ed ancora la furba innocenza degli angioletti/san Giovannini, che ad occhi ben aperti vigilano sui maliziosi pensieri altrui (ricordandoci che il male sta nell’occhio di chi guarda).
E che dire di quella “Per grazia ricevuta", vanitosa (ma)donna col bambino gia' stanca del fi glio ancor prima d’averlo riconosciuto, cosi' presa com’e' dai suoi profumi e dai suoi balocchi d’adulta?
Ed ancora il Rembrandt rivisitato de “Il ventre dell’architetto", piccolo capolavoro di sadomasochismo fra sangue e frattaglie (al pomodoro), o “Straziami ma di baci saziami", altrettanto irresistibile ed altrettanto malata metafora di “strani" sentimenti d’oggi (con buona pace del buon Bartolmeo Manfredi e del suo Cupido punito).
Cleopatra in “A 30’’ dalla fi ne" pare sin contenta d’andarsene (e come darle torto!), mentre in “Donne sull’orlo di una crisi di nervi" il fotografo (ispirato nuovamente da Caravaggio) pare quasi ci voglia dire che una morte in croce a volte e' meglio di una vita crocefissi (quelle tre madonne effettivamente non promettono nulla di buono)…
Sentimenti in un’epoca malata raccontati attraverso l’artificio della fotografi a (o della pittura) ed infarciti di un’ironia che si fa sarcasmo.
Come se Chiodi volesse proprio raccontarci “L’amore ai tempi del colera". Alberto Agazzani
Inaugurazione: sabato 13 gennaio 2007 ore 17,30
Galleria Primo Stato
Via dei Due Gobbi, 5 - Reggio Emilia.
Orari: Tutti i giorni 9-12 e 16-19. Lunedi' e giovedi chiuso. Festivi per appuntamento