Direzione Cultura Ufficio Promozione e Comunicazione del Comune di Firenze
Gaia Bartolini, Leonora Bisagno e Lek Gieloshj. In mostra i lavori di 3 artisti di recente generazione, provenienti da esperienze diverse. Ognuno lancia un affondo nella realta', che puo' essere polemico, misterioso e poetico; ma alla radice di tutti i lavori proposti e' comune la generosita' (anche controversa) che e' una condizione necessaria per aprire le proprie visioni al mondo. A cura di Pietro Gagliano'.
A cura di Pietro Gagliano'.
Le città possono avere molte qualità, esistono città vivibili, città caotiche, accoglienti, multietniche, intolleranti... Poi ci sono le città sottili (un attributo felicemente intuito da Italo Calvino) che in generale sono quelle città in grado di valutare sé stesse e indagare la pluralità dei propri modi di essere. Le municipalità (considerate all’interno della tradizione europea, come valori costituiti da volontà e pratiche collettive) hanno diverse possibilità di osservare il futuro. Il riflesso della realtà che affiora sulla superficie dell’arte contemporanea è il più ardito, il più arcano da decifrare. Nell’espressione di chi vive la città in modo dinamico, è racchiuso il senso stesso di una dimensione civica e il suo possibile svolgimento verso il futuro.
Spazio Comune è una possibilità di incontro tra il nome ufficiale di una città e la sua realtà morale; è un invito al dialogo e alla partecipazione che discende felicemente proprio da quei valori repubblicani nel cui segno è nata la grandezza di Firenze. Tre artisti di recente generazione, provenienti da esperienze diverse, si incontrano all’ombra della Torre di Arnolfo rispondendo a questo invito. Ognuno lancia un affondo nella realtà, che può essere polemico, sibillino, poetico; ma alla radice di tutti i lavori proposti è comune la generosità (anche controversa) che è una condizione necessaria per aprire le proprie visioni al mondo.
Gaia Bartolini riflette sul paradosso latente nel dialogo tra l’individuo e il consorzio sociale, prendendo spunto dalla vicenda di Girolamo Savonarola e dall’immaginario iconografico che si è sviluppato intorno alla conclusione della sua parabola politica, terminata il 23 maggio 1498 sul rogo in Piazza della Signoria. Lo spiritualismo radicale e iconoclasta del domenicano, teso fino a un ascetismo sul margine dell’eresia, si manifesta come un’espressione parallela e polare rispetto allo splendore delle arti e del pensiero della Firenze rinascimentale. Nello scorcio di fine Quattrocento non si assiste a niente di più moderno e anticonvenzionale delle sue accese prediche, e non rimane niente di più prossimo all’individualismo contemporaneo della sua ribellione nei confronti della corruzione sibaritica dei sistemi ecclesiastici e secolari. La personalità storica di Savonarola, censore censurato, viene declinata da Gaia nella realtà dei nostri giorni trasferendo l’azione da Firenze a Berlino. La foto è stata scattata nel 2006, durante l´ultima edizione della Love Parade, manifestazione dedicata alle libertà individuali e alla tolleranza che la capitale tedesca ha deciso di non ospitare più. L’immagine del ragazzo echeggia quella del frate sul patibolo, e intorno a questa assonanza iconografica si affollano i temi della sovranità di pensiero e delle contraddizioni in cui cade l’individuo quando si rapporta con la società o con chi incarna il potere, politico e religioso. Al capo carismatico qui si sostituisce la folla, animata da sentimenti gregari, e il Savonarola del titolo è invocato, nelle parole dell’artista, “come beat ritmico, stimolo ideale ed euforico”, ma beat me, alla lettera, si può tradurre anche come picchiami!, o quanto meno prendi coscienza della mia voce, di me peccatore, me sovversivo, me fuorilegge.
Il rapporto che Leonora Bisagno intrattiene con il mondo (la realtà delle istituzioni, ma anche quella della socialità) si delinea intorno a un problema di comunicazione e sulla legittimità dei codici derivati dalle pratiche condivise, sia quelle de iure sia quelle spontanee. Sul piano visivo questa complessità si riduce a una incognita sulla percezione. In prospettive più articolate, Leonora mette in evidenza l’aporia della “sensatezza del linguaggio”, e l’apporto autobiografico dell’artista si amplifica verso una dimensione storica, sociale e politica.
L’occasione di confrontarsi con lo spazio architettonico della Municipalità arriva per Leonora in concomitanza di una causa collettiva. L’artista procede, dunque, a un’interpretazione del luogo fisico, e delle ragioni espresse nel bando che il Comune ha rivolto ai giovani artisti, con un’azione assimilabile alla sensibilità di pratiche dell’arte internazionale in cui l’impegno sociale e l’attenzione alle emergenze geopolitiche diventano i caratteri di un alfabeto estetico. Su una scrivania del vestibolo Leonora accumula centinaia di buste chiuse che contengono le adesioni a una querelle in corso. Così proprio l’oggetto, la missiva imbustata e completa di indirizzo, rappresenta il confine sul quale si svolge (e a volte si infrange) il controverso rapporto di comunicazione tra il cittadino e le istituzioni. Senza rivendicare vani ruoli di pasionaria, e senza strumentalizzare la contestazione in cui come cittadina si riconosce, l’artista muove con eleganza una moderata critica del sistema dichiarando che “quella montagna di buste è solo una delle immagini possibili di una mancanza di comunicazione tra istituzioni e cittadini”.
Per Lek Mark Gjeloshi la natura profonda di ogni cosa si cela nella costruzione delle parole, e nel modo in cui il mondo le percepisce e le trasforma. Questo vale per i luoghi, per le astrazioni, e per tutti i significati che circondano gli oggetti. E forse la sua condizione di cittadino straniero, calato in una cultura linguistica adottiva, è alla base di questa particolare sensibilità alla relatività delle parole. L’arbitrio di interpretazione rende il senso della comunicazione fluttuante e aperto; proprio questa instabilità diventa uno strumento per mettere in evidenza le realtà presenti (ma eluse) all’interno della cultura più democraticamente condivisa.
Così Lek Gjeloshi si pone in dialogo con la società, e con le sue regole, assumendo il ruolo di un osservatore borgesiano, a tratti animato da un’attenzione sociologica, altre volte un po’ censore. L’applicazione diretta (quella visiva, o visibile) della sua arte si svolge attraverso i linguaggi che di volta in volta si mostrano più congeniali. L’invito a lavorare sul progetto Spazio Comune ha fornito l’occasione per una riflessione sulla partecipazione dei singoli agli spazi collettivi e sulle catastrofi nascoste nel senso di possesso e protagonismo. L’artista ritrae, con una tecnica figurativa che si avvicina alla tradizionale animazione manuale, la facciata di Palazzo Vecchio dalla quale è sparito il David, effige delle libertà repubblicane. Quella che ne scaturisce, come afferma Lek, “è una storia quasi assurda o grottesca che parla di un podio rimasto vacante in un luogo comune. Tutta la folla che assiste vuole salire, ognuno per primo. E tutti vano verso la fine”. Con lo stesso spirito di un conte philosophique la narrazione volutamente artificiosa allude a una realtà plausibile. Pietro Gaglianò
Inaugurazione giovedi 20 dicembre 2007 ore 19 - 21
Palazzo Vecchio, Terzo piano, Sala della Miniatura
piazza della Signoria, Firenze
Ingresso libero