In mostra disegni, dipinti, sculture, film, che si rifanno alla tradizione Dada. "Progetto comico", ad esempio, girato nel 1977, puntava a un prodotto che alimentasse una sorta di 'ginnastica mentale', una percezione immediata che togliesse il respiro. L'esposizione si completa con un intervento di Sandro Parmiggiani.
Nel maggio 1989, l’Assessorato alla Cultura e l’Ufficio Cinema del Comune di Reggio
Emilia promossero una rassegna, “ARTE E IMMAGINE. Cinema d’artista dalle avanguardie
storiche ad oggi”, a cura di Paolo Vecchi, che in un qualche modo si pone come un
antecedente ideale di ricerca rispetto alla serie di iniziative ospitate in questi
mesi dall’Officina delle Arti. Nella sezione “reggiana” di quella rassegna –
presentata in catalogo da chi scrive –, furono proiettati cinque film ai quali
avevano lavorato artisti reggiani (Gerra, Costa, Ruspaggiari, Squarza, Santachiara,
Gualerzi, Bertoli), realizzati tra il 1968 e il 1979, anni di straordinario fervore
culturale, di speranze ardenti e di illusioni perdute.
Luciano Bertoli inizia a girare Progetto comico nel 1977, puntando a un prodotto che
alimenti una sorta di “ginnastica mentale”, una percezione immediata che tolga il
respiro. Il titolo del film è lo stesso di una sua opera del 1977-78, una sorta di
scultura animata, che può considerarsi un momento di passaggio tra le opere degli
anni Settanta, nelle quali ancora persistente era il retaggio del quadro, dell’opera
dipinta – del resto, Bertoli aveva sempre saputo conservare un equilibrio
straordinario tra innovazione (gli assemblaggi, gli accoppiamenti, le invenzioni
deliranti cui dava vita, collegati alla superficie dipinta) e tradizione (il gusto
tonale) –, e questo film, in cui un pierrot incontra una macchina, che presto assume
una sua vita autonoma e arriva ad amare un’altra macchina, contribuendo a costruire
nuove “relazioni umane”. In un certo senso, il film anima le macchine improbabili,
strampalate e bislacche, di aperto gusto surrealista – si pensi alle continue
allusioni erotico-sessuali – che Bertoli era venuto costruendo negli anni Settanta,
con questa sua ossessione per gli ingranaggi, per gli uncini, per le pulegge e per
le cinghie di trasmissione, e con questa allusione al mito del “moto perpetuo”.
Si
trattava di macchine ottenute attraverso l’assemblaggio, la giustapposizione,
l’incastro di pezzi di origine manifestamente diversa, e apparentemente
contraddittoria, con un operare che subito richiamava alla memoria le avventure di
Archimede Pitagorico, uno dei protagonisti della banda Disney, ma che si faceva
anche – in maniera preveggente, quando ancora la scienza non aveva osato varcare
certe frontiere – metafora preveggente dell’illusione di potere arrivare a un corpo
umano, continuamente rifatto e rigenerato, ricorrendo a “pezzi” della più svariata
provenienza, innestati l’uno sull’altro, anche con modalità da cui affiorava l’umana
follia, la sua persistente illusione di potere tutto governare. In quegli stessi
anni – e la mostra all’Officina delle Arti lo documenta – Bertoli aveva realizzato
disegni di straordinaria suggestione, progetti per le sue macchine i cui titoli,
trasudanti ironica follia, indicavano le improbabili funzioni e irridevano alla
cieca fiducia riposta nelle macchine, una sorta di nuovo “dio” che a tutto avrebbe
potuto provvedere: “macchina che risolve i problemi della gente”, “travasatore di
intelligenza”, “travasatore di fantasia”, “avvita pensieri”, “accalappia idee”.
Il percorso di Bertoli, dai disegni ai dipinti-bassorilievi, dai dipinti-sculture al
film, non è casuale. Basta pensare alle parole di uno dei grandi fondatori del Dada,
Hans Richter, autore già negli anni Venti di pellicole sperimentali surrealiste, e
di altri film, concepiti come puro prodotto artistico, fino ai primi anni Sessanta,
che aveva scritto, prodotto e diretto, nel 1947, un capolavoro, Dreams that money
can buy (Sogni che i soldi possono comprare) – al quale collaborarono Max Ernst,
Marcel Duchamp, Man Ray, Alexander Calder, Fernand Léger e Darius Milhaud –, film
che vinse il Leone d’Oro al Festival di Venezia del 1947 come “Miglior contributo
originale al progresso della cinematografia”. Aveva scritto Richter: “Considero il
cinema come una parte dell’arte moderna, soprattutto come un’arte visibile. Esistono
problemi e sensazioni che appartengono completamente alla pittura ed altri che
appartengono esclusivamente al cinema, ma esistono anche problemi che si legano e si
completano. Ho sperimentato, per così dire a mie spese, che certi impegni della
pittura possono essere realizzati solamente nei film. (...) Il film è lo sblocco di
alcune delle strade indicate dalla pittura che non hanno trovato un completamento
nelle arti figurative. Qui si presentano i grandi compiti per il futuro. Arte
moderna e film moderno si completano.”
Questa mostra di Luciano Bertoli, e questa rassegna all’Officina delle Arti, ci
fanno riflettere su una questione che non può affatto ritenersi conclusa con le
generose sperimentazioni degli anni Sessanta e Settanta, ma che propone, ancora
oggi, interrogativi e sollecitazioni.
Inaugurazione Sabato 12 aprile ore 18.00
Officina delle Arti
di via Brigata Reggio, 29 Reggio Emilia
Orari 17.00 / 23.00 dal giovedì alla domenica
ingresso libero