Sinopie. Scrive Philippe Daverio: 'Sembrano racconti dell'infanzia ritrovati sui tabelloni dei primi anni di scuola, oppure dettami per una narrazione fumettistica sublimata.'
Tino Stefanoni è un signore minuto e distinto dal gesto misurato, sempre acuto, attento quindi affettuoso. Poco formale, piuttosto al primo impatto composto, razionale e subito, nell’istante successivo, coinvolto e coinvolgente. Priva di iperboli e smancerie, la sua presenza abbraccia ma non opprime così come la sua arte indica, suggerisce, sussurra ma non costringe. Stefanoni uomo/artista colpisce dritto al cuore senza che il cuore se ne accorga. E’ una fascinazione costante ma quasi inconsapevole. La sensazione che si prova nel contemplare un’opera di Stefanoni equivale al godere della compagnia dell’artista stesso, un senso di indefinibile benessere con una nota di malinconia suscitata da un enigma irrisolto. L’enigma irrisolto del sogno che coinvolge la nostra essenza reale ma non la risolve: la chiave di lettura è infatti mutevole, svela e vela allo stesso tempo. Così le sinopie di Stefanoni.
Recita la Treccani: “Dal nome della città di Sinope, sul Mar Nero, da cui proveniva originariamente questo colore. Colore rossastro adoperato dagli antichi, del quale non sono ben accertate la composizione e la gradazione, usato anche – e per ciò soprattutto noto – per delineare direttamente e in grandi proporzioni, il disegno preparatorio degli affreschi sull’arriccio - ovvero lo strato col quale si copre la parete da dipingere formato dalla mescolanza di sabbia e calce spenta – sopra un primo abbozzo eseguito a carboncino. Anche, il disegno così tracciato, coperto dall’intonaco dipinto e restituito dalle moderne tecniche di restauro”.
Sembra semplice l’incantevole agire di Stefanoni, è invece l’ingannevole linearità della fiaba che indaga l’essenza del reale sotto mentite spoglie. Ovvero: le fiabe raccontano di noi ma noi non le capiamo perché parlano un linguaggio i cui codici metaforici spesso ci sono oscuri. Da qui il senso di malinconia, di nostalgia per qualcosa che è nostro e allo stesso tempo ci sfugge, resta un enigma. Così le sinopie di Stefanoni dove l’individuo è di fatto assente ma di concetto presente in quanto coincide con il proprio segno, con il disegno tracciato che da impronta si fa icona e quindi narrazione lirica in una serie infinita di apparizioni.
Scrive Philippe Daverio: “Sembrano racconti dell’infanzia ritrovati sui tabelloni dei primi anni di scuola, oppure dettami per una narrazione fumettistica sublimata. Sono invece segni che ridanno il contorno ai morfemi profondi della nostra lingua visiva perché non sono mere elaborazioni ma piccole magie eterne”. Riduzione all’essenza, energia rattenuta, segno asciugato che appartiene al codice dell’anima, in equilibrio sul confine tra sogno e realtà. Scrive Tino Stefanoni all’amico regista Ermanno Olmi: “L’arte non può mettersi in competizione con il mondo della realtà solo per scioccare perché, in ogni caso, risulterebbe sempre patetica rispetto alle sue stesse fonti d’ispirazione. A cosa servirebbe oggi un’arte priva di piacere – anche se nata dalla catarsi di una tragedia – ma bensì di dispiacere che tanto è presente nel quotidiano?”. “Ognuno che pratica la prassi dell’arte – è opinione di Olmi - ha il dovere di trovarsi un suo proprio e originale sentiero”. E il sentiero percorso da Stefanoni è da sempre unico e originale, la sua arte non cerca lo shock, ma custodisce – consapevole ma anche ironica - il segreto dell’esserci.
Il Divano di George
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