Da oltre vent'anni l'artista e fotografo russo, compone in ogni parte del globo il proprio personale diario per immagini intorno alla natura. Nei suoi scatti astrazione, mistero, segni sublimati e immediatamente evocativi incidono un paesaggio, lo analizzano e ne colgono l'anima per poi suggerire altro indicando ulteriori passaggi semantici.
Da oltre vent’anni Sergey Yastrzhembskiy, artista fotografo russo, persegue in ogni parte del globo a comporre il proprio personale diario per immagini intorno alla natura, ai suoi mille fenomeni, alle infinite mirabili trasformazioni che la caratterizzano.
Sorvolando alla velocità di 150-200 km. orari dall’alto di un piccolo aereo o d’un elicottero quelle vastissime regioni del nord ostaggio dell’inverno, le aree indefinite e affascinanti dove la terra si atomizza, si frantuma nelle anse sinuose ed ipnotiche di grandi fiumi e si risolve in una perlacea superficie marina, o ancora seguendo il morbido e radiante profilo delle colline toscane appena arate, Sergey Yastrzhembiskiy documenta la verità assoluta del mondo naturale, legge con minuzia quasi fotogrammetrica la morfologia di un paesaggio e insieme ci spalanca senza esitazione alcuna i suggestivi files dell’immaginazione. Egli utilizza una scala di misura esatta e illusoria dell’universo.
L’occhio ne viene travolto, ingannato, sedotto. Sergey rintraccia la prima veste terrena d’un immagine mitica, ne riconduce le ampie e vaghe linee nella fermezza incorruttibile del reale, in un peregrinare di verità che sovente raggiunge il pathos. E’ la bellezza il medium scelto dall’artista per intraprendere una catarsi per immagini. In maniera analoga alle visioni oniriche, l’aria non è più che un vuoto radioso privo di confini.
Lo spazio deflagra, si assottiglia a livello di emotiva pulsazione cromatica, mentre gli elementi che ritmano la complessione del paesaggio, siano essi alture, nastri di fiumi, l’alternarsi di campi verdissimi e suolo nudo e pettinato delle Crete, in cui chissà mai chi ne sia stato capace, qualcuno ha delineato un sigillo circolare, una calligrafia misterica, assurgono finalmente a puro segno, come in un teatrino o un Taglio di Lucio Fontana.
La definizione spaziale naufraga nell’irrazionale con scorci vertiginosi ed emblematici che rammentano quelle stilizzazioni paesistiche allucinate e incorporee, così diametralmente lontane dalle conquiste prospettiche del rinascimento fiorentino, cui davano vita i sofisticati pittori del Quattrocento senese, dal Sassetta a Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta, fino all’arcaicità zen del Maestro dell’Osservanza.
L’obiettivo di Sergey documenta e al contempo trasfigura, cattura un istante zenitale per trasporlo in un tempo vibrante e perennemente penultimo, lo sospende nel silenzio, in un annuncio sommesso di metamorfosi continuamente differita. E’ questa la sostanza duplice e sibillina del suo lavoro, risolto nel sovrapporsi armonico di contrastanti piani ermeneutici, temporali e visivi. La presenza dell’immenso si essenzializza nel piccolo e il piccolo si dilata in una dimensione solenne ed immensa.
Astrazione, mistero, segni sublimati e immediatamente evocativi che incidono un paesaggio, lo analizzano e ne colgono l’anima per poi suggerirci altro e indicarci ulteriori passaggi semantici. Da straordinario storyteller qual è, da grande inesausto favolista, Sergey Yastrzhembskiy intesse sovrapposizioni geologiche innumerevoli per portarle al fulgore del minerale perfetto. Paesaggi integri e fatati presi prigionieri e immobilizzati dalla morsa del ghiaccio siberiano, pointillisme di chiome d’albero fitte fitte e incipriate di neve nelle sterminate pianure baltiche.
Il tratteggio obliquo e geometrico del vento che increspa uno specchio d’acqua ialina subito rammenta i grafismi a matita senza soluzione di continuità delle lavagne di Twombly. Percorsi acquei che centripetri e caparbi intaccano la solidità umida di barene e dune sabbiose, che ne risvegliano l’anelito, l’eros per la luce. Fiumi lucidi di jais nero liquefatto, acqua di velluto che pare ferma e si muove, va oltre senza scorrere.
Della contemplazione del limite, di quel necessario perdersi, celarsi, interrompersi della visione, la vita sembra proprio nutrirsi. No, proprio come accade nella narrazione delle fiabe, negli scatti di Sergey non ci sono che di rado strade certe, itinerari assodati e sicuri. E’ fatale. Qui non è dato sapere dove ci si trovi, soprattutto dove si stia andando. Si tratta di un viaggio la cui mappa, per chi avesse deciso di tracciarla, non apparirebbe meno assurda né meno ragionevole di quelle del cartografo medievale che disegnava la terra “ora come disco al centro dell’oceano, ora sparsa nelle acque a guisa di fronda”.
In proposito viene in mente un pensiero di Andrei Tarkovsky, indimenticato regista la cui visionarietà mistica di imprinting visceralmente russo e l’aspirazione al segno paesistico astratto e sublimato, testimoniata dalla Russia ancestrale del suo capolavoro Andrei Rublev e negli ’80 dell’esilio dalla struggente telluricità senese di Nostalghia, lo apparentano per tanti versi al cammino creativo di Yastrzhembskiy: “ C’è un solo viaggio possibile: quello che facciamo nel nostro mondo interiore. Non credo che si possa viaggiare di più nel nostro pianeta. Così come non credo che si viaggi per tornare. L’uomo non può tornare mai allo stesso punto da cui è partito, perché, nel frattempo, lui stesso è cambiato. Da se stessi non si può fuggire….”
La meta cammina dunque inevitabilmente al fianco del viaggiatore, sembrano suggerirci le immagini di Sergey, foriere d’un destino in lenta formazione, presagio di una rinascita genetica e di spirito, depositarie di un’energia prepotente e salvifica, pronta a rivelarsi ma ancora tenera, occulta, palpitante. E’ l’elogio dell’attesa, la perfetta poesia in cui le antitesi finalmente si conciliano, si consumano in un rapporto di osmosi. La grande foresta scioglie i sogni e i sortilegi, offre la sua estensione incalcolabile, la moltiplicazione dei sentieri, una luminosità densa e tremante che non è né giorno né notte.
“L’arte vera- ci avverte Bernard Berenson nel suo Piero della Francesca o dell’arte eloquente- non ha mai, né mai dovrebbe, rappresentato, ma presentato. L’arte è basata sulla realtà, ma vive indipendentemente da essa, senza guardare dal trampolino dal quale si lancia nell’oceano dell’Essere. L’arte vera è Essere, e con Jehova dell’Antico Testamento dovrebbe rispondere , se richiesta cos’è: Io sono colui che è.” Parole che sembrano scritte per il lavoro fotografico di Sergey Yastrzhembskiy, che ne lambiscono e identificano il significato più profondo.
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