"Osservatore - Anni Novanta" e' il titolo della mostra su Renato Mambor a cura di Francesco Gallo.
Osservatore - Anni Novanta
A cura di Francesco Gallo
MAMBOR OSSERVATORE
stralcio dal testo di Francesco Gallo
Gli anni Novanta sono stati attanagliati dalla crisi derivata dal terremoto avvenuto sul finire del decennio precedente, quello dei famosi o famigerati anni Ottanta, a seconda dei punti di vista, con un riversamento sul nuovo inizio di millennio che in qualche modo li rispecchia, anche se per tanti versi ne è negazione.
Un decennio di mezzo che ha visto l'accelerarsi di crisi appena accennate, l'aprirsi di nuove prospettive, nel settore delle comunicazioni, incentivando nuove definizioni dell'arte e dell'espressione, manipolazioni di sensi e significati che hanno configurato una rivoluzione sui generis delle coscienze e della forme dell'esistenza, il diffondersi di un eclettismo che va oltre il concetto di post moderno, termine ben presto consumato, anche se non sostituito da alcun altro. Questo perché le parole trovano difficoltà ad assumersi il carico di definizioni che non solo tali, ma grovigli caotici di filamenti di cui è possibile osservare solo un tratto di percorso, perché difficilmente individuabili nella genealogia e nella destinazione.
Filamenti di una realtà che si sta stabilizzando nella destabilizzazione, combinando dinamiche trasversali, tangenziali, in moltiplicazioni labirintiche che sfiorano i significati della tradizione, ma solo per illuminarli con la luce ambigua del codex impazzito dell'attualità , dove vocazioni al tradizionalismo si dialettizzano con aspirazioni futuriste, passando per un filtro barocco che si articola in mille e mille rivoli, disperdendo il concetto residuo di centro e di periferia. Sono anni in cui si chiude un cerchio ottimistico, caratterizzato dall'illusione dalla fine della storia in una posterità che guarda a tutto quanto è successo prima con l'occhio dell'osservatore che ha troppi problemi aperti nel definirsi concettualmente, per diffondersi in una nuova nomenclatura delle cose e delle persone, pur avendo chiaro di trovarsi ai confini di un linguaggio, in via d'esaurimento.
Anni di crisi, insomma, dai caratteri sfuggenti, dagli orientamenti complicati, perché sono riapparsi, come liberati dai tappi saltati delle ideologie, ma sostanzialmente da una, il marxismo che si proponeva come erede di tutta la cultura (occidentale) e come tale capace di imporre una via obbligata, "storica", "dialettica", "scientifica", a cui si poteva opporre solo l'ignoranza o il bieco disegno reazionario. Quello sì che era un pensiero unico, abolitore di ogni differenza, omologatore per eccellenza, con penose e crudeli litanie asiatiche, africani, sudamericane, tutte scimmiettanti stereotipi europei.
Soltanto il tappo, con il crollo dell'economia di piano, la riduzione in miseria di mezzo mondo, fallito anche esteticamente, moralmente e civilmente, sono riemerse tutte le posizioni millennaristiche, intolleranti che hanno travolto lo stesso concetto di fine della storia ed hanno introdotto quello dello scontro di civiltà , tra modelli diversi tra di loro, orientati verso un inesorabile contesa.
Non si tratta di uno scherzo, ma di un dramma che può sfociare in tragedia, coinvolgendo accumulazioni di cultura che vengono esposte al pericolo degli ideologismi a confronto, o forse dovrei dire dei dogmatismi, a cui si riducono anche le filosofie più problematiche ed aperte al dialogo, una volta che vengono costrette all'angolo, ad affermare la propria volontà di esistere, di sopravvivere, dall'angolo verso cui sono costrette. Una crisi, un groviglio di crisi, un moltiplicarsi di contraddizioni proiettate su uno schermo in cui la tecnologia mostra successi e vittime a ripetizione, inibendo ogni euforia ed ogni depressione, in favore di una quiete nella non speranza.
In sostanza, una finzione di sentimenti in quella che sta diventando un'umanità ad una sola dimensione, trent'anni dopo la sua teorizzazione da parte di Herbert Marcuse, come sottrazione della passione, della partecipazione, come residuale condizione dell'osservazione, della mera presenza, come aggettività senza interesse, senza partecipazione, distaccata nel senso pieno del termine, indifferente ad ogni altro che non sia il proprio tornaconto, derubricato ad un fatto segnaletico di passaggio obbligato che ti costringe a fare qualche cosa, ma senza il coinvolgimento della coscienza. (...)
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