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Art e Dossier (2003 - 2005) Anno 18 Numero 20 maggio 2003



Ca' Pesaro a Venezia

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Umberto Boccioni, Ritratto della sorella che legge (1909); Venezia, Galleria internazionale d'arte moderna di Ca' Pesaro

Vasilij Kandinskij Zig zag bianchi (1922); Venezia, Galleria internazionale d'arte moderna di Ca' Pesaro.

Veduta in sezione dell'edificio di Ca' Pesaro

Nella cornice seicentesca di Ca' Pesaro e' stata riaperta, dopo vent'anni, la Galleria internazionale d'arte moderna. Una storia tormentata, moltissimi capolavori, un nuovo allestimento e qualche occasione mancata: si arrivera' prima o poi a dare i giusti spazi e un rilievo adeguato alle opere che lo meritano?

Dopo un lunghissimo silenzio, durato oltre vent'anni, ha riaperto il 30 novembre scorso la Galleria internazionale d'arte moderna di Ca' Pesaro. Una riapertura attesa, e per certi versi necessaria, a colmare almeno in parte i lacunosi percorsi tra modernita' e contemporaneita' fino a oggi lasciati in mano esclusiva alla Peggy Guggenheim Collection.
Ci saremmo aspettati una grandiosa cascata di pittura ''pompier'' con tutto il merchandising etno-social-chic dell'arte europea tra fine Ottocento e inizi Novecento. Ci saremmo aspettati cascami di storia e costume a intreccio tra arti maggiori e minori, spolverio d'arti decorative, brume visive, paesaggi ''Zeitgeist'' e ''Stimmung''. Ci saremmo aspettati in nicchie protette, al riparo dal diluvio modernista, le rare gemme di una collezione che, similmente a Venezia, ha inteso in ogni modo fuggire da un confronto con la storia. Ci saremmo aspettati di trovare poderose ''insulae'' sculturee, chiuse intorno a Rosso, Martini e Wildt. Ci saremmo immaginati un rilancio sul fronte del contemporaneo con un'apertura del senso moderno inteso finalmente come un ''modus hodiernus''. Ci saremmo aspettati quindi qualche frammento, qualche scheggia del nostro tempo oscuro anche in forma di rovina, di disincanto, di caduta. Ci saremmo aspettati un rilancio degli anni Cinquanta a Venezia che pur qualcosa hanno contato sulla scena italiana. Ci saremmo aspettati una collaborazione istituzionale con soggetti come Biennale, con il suo archivio, la Peggy Guggenheim Collection cosi' contigua, il Mart e le sue proposizioni novecentiste legate a doppio filo alle stagioni capesarine e alle proposizioni piu' audaci sul fronte del moderno o altre aperture istituzionali capaci di rompere l'isolamento del museo e la sua estraneita' al corpo sociale e istituzionale della citta'. Ci saremmo aspettati, dopo tanto silenzio, un catalogo finalmente definitivo sulle vicende composite di questo sito, con saggi illuminanti di museografia, museologia, stratigrafia culturale legata alla storia del gusto e dell'arte, schede, apparati, bibliografie e quant'altro. Ci saremmo infine attesi la restituzione alla citta' del grande monumento longheniano finalmente impaginato chiaramente con indirizzi e assetti definitivi riguardo Ottocento e Novecento e Museo d'arte orientale.

le occasioni mancate

Tante di queste aspettative, forse tutte, con gradi e sfumature diverse, sono andate incontro a una frustrante disattesa, confermando forse ancora una volta la vocazione del luogo, noto agli storici e ai cultori del moderno come la galleria delle occasioni mancate.
La galleria si costitui' con l'ambizioso programma di formare, a seguito del fortunato lascito La Masa, la componente permanente di quella straordinaria avventura con-temporanea, e temporanea per definizione, costituita dalla Biennale di Venezia, fondata nel 1895.
La fondazione del museo e' di pochi anni piu' recente, e' nato infatti nel 1902, per ospitare le collezioni moderne avviate nel 1897, in concomitanza con la seconda edizione della Biennale, da un programma di acquisizioni municipali e da donazioni di varia provenienza.
È evidente a tutti come una politica di acquisizioni meno sciagurata avrebbe potuto rendere questa galleria uno dei luoghi piu' prestigiosi del mondo occidentale. Alcuni dati possono venire in aiuto per comprendere questo raro fenomeno di cecita' storico-critica nel programmare le collezioni di un museo dedicato ai percorsi del moderno. Nel 1903, come ci dice il vecchio catalogo redatto nel 1980 – per certi versi piu' articolato di quello attuale – da Guido Perocco, il fondo acquisti del museo ammontava a 100.000 lire. Tramite gli uffici della Biennale, in vendita vi erano opere di Monet, Le piramidi Port Coton per 10.000 lire e Le scogliere di Dieppe per 15.000; di Pissarro La piazza del teatro francese per 10.000 e Il giardino delle Tuileries per 10.000; le Bagnanti di Renoir per 20.000; di Sisley, Colpo di vento per 12.000; una Natura morta di Ensor per 2000 e Vista di Ostenda per 1500 lire. A queste opere si preferi' una raccolta che comprendeva artisti come Dall'Oca Bianca, Milesi, Sartorio, Scatola, Tito, Miti Zanetti e altri tra gli italiani, e di Cottet, Zuloaga, Lembach e altri tra gli stranieri.
Ma senza rinvangare inutili lamentazioni, tutte peraltro facili considerazioni figlie del senno di poi, dobbiamo ritenere un'ottima notizia la riapertura di un museo cosi' a lungo secretato e comunque importante nel vasto panorama museale cittadino. Tuttavia una certa mancanza di fantasia curatoriale ha tenuto l'evento al di sotto del potenziale d'attenzione che tale istituzione meriterebbe. Si e' voluto privilegiare un allestimento conservativo e tradizionale. Non si e' voluto rischiare una messa in opera in grado di evidenziare e spettacolarizzare il piano d'acquisizione delle opere, in verita' alquanto lacunoso e complesso, mantenendo un percorso cronologico, sempre meno adottato dalle istituzioni simili e solo a tratti impercettibilmente tematizzato. Il rischio e' quello di riaprire smagliature storico-critiche che potrebbero riaffondare l'istituzione nel silenzio.

il nuovo allestimento

Ma veniamo al rilievo museologico specifico: quadri e sculture molto importanti riemergono dal lungo letargo e rifioriscono a rinnovata vita.
Le sale dedicate ad Adolfo Wildt, a Medardo Rosso e ad Arturo Martini (non propriamente sale per questi ultimi, come meriterebbero, ma faticose e dispersive coabitazioni) ci restituiscono pienamente la grandezza di questi protagonisti assoluti della scultura italiana del Novecento. Alcuni capolavori sono radiosi: Il rabbino di Vitesbsk del 1914, di Chagall, la notissima Giuditta II di Klimt del 1909, forse il capolavoro del museo (male allestito in una quinta precaria, instabile e priva di profondita'), lo Zig Zag kandinskiano ottimamente datato 1922, il Paesaggio urbano di Sironi del 1924, il Ritorno dai campi del 1937 di Carra', provenienti dal cospicuo lascito De Lisi(1) assieme a Kandinskij, il Nudo allo specchio di Bonnard (1932), tardo ed estenuato ma certamente autorevole. Accade d'altra parte ripetutamente di ritrovare nelle collezioni di Ca' Pesaro opere connotate da un certo, forse a volte eccessivo e irreparabile, ritardo. Alcuni esempi: un Dufy del 1942, Miró del 1950, Arp del 1942, Matisse del 1947 (a poco valgono come integrazioni le pur notevoli litografie del 1924), un Max Ernst del 1951 e si potrebbe continuare con un Rouault del 1947 e De Chirico con i suoi sospetti Bagni misteriosi, portatori di una metafisica tarda e di maniera (datati in origine nel primo catalogo 1917, ridatati oggi 1935).
Ma se l'occasione di una verifica sul moderno appare ardua impresa, perfino l'Ottocento (sala I e II) si presenta in modo frammentario e disorganico. Si consideri il fatto che le opere antecedenti il 1880 dovrebbero essere rigorosamente escluse da un panorama espositivo dedicato alla modernita' (criterio adottato dalla museografia piu' autorevole). Ritroviamo in questa sede i begli episodi veneziani di Ciardi, Favretto, Caffi, Selvatico e Nono e quelli piu' segnatamente italiani di De Nittis, Signorini, Morbelli e Fattori e altri presentati privi di indicazioni, orientamenti critici e apparati d'orientamento linguistico o geografico in un modo che non ci aiuta – e non aiuta il pubblico – a percepire le linee guida di un'introduzione ai temi della modernita' oppure a quelle altrettanto interessanti legati alla persistenza e resistenza della tradizione.
L'Ottocento delle prime sale inizia un modo espositivo che tende all'affollamento, alla saturazione visiva dello spazio; il salone centrale dedicato alle Biennali d'epoca non distingue tra un piano storiografico e uno legato ai percorsi del gusto (indovinato titolo di una rassegna dedicata al centenario della Biennale del 1995). Anche qui, una certa approssimazione non ci aiuta a seguire un'idea espositiva coerente: Klimt e Lavery, Chagall e Sorolla, Cottet e Kandinskij, Bonnard e Maljavine, Bressanin e Larson.
L'intervento dell'architetto viennese Boris Podrecca, assai ben individuato, e' molto efficace nell'impaginazione complessiva dell'edificio tra funzioni di varia natura e momenti espositivi, anche se evidentemente, dato il prestigio storico dell'edificio di Longhena, non poteva essere che di natura conservativa. Tuttavia il tocco connettivo dello scalone crociato, che mette in comunicazione i piani secondo uno schema di piranesiana memoria, ha introdotto una nota di classe concettuale nell'indicare percorsi e suggestioni spaziali. Anche l'androne monumentale risulta riscattato e rivitalizzato dall'intervento di Podrecca.

percorsi del moderno

L'arte della Secessione capesarina(2) (sala V e VI) tra il 1908 e il 1924, una tappa obbligata e fondamentale, si riconferma senza presentare novita' alcuna: il Casorati gigantesco nelle Signorine del 1912, un ritratto di Boccioni, La sorella che legge del 1909, e poi Rossi, Semeghini, Valeri, Moggioli e altri.
La donazione De Lisi (sala IV), preziosa ma non meritevole di essere mantenuta unitaria, ci presenta alcuni capolavori accanto a opere meno necessarie.
Continuando il percorso (sala VII), e venendo quindi verso i tempi nuovi della piena modernita', si avverte un'ulteriore stanchezza e opacita'. Il piano espositivo dell'arte tra le due guerre sembra un piano inclinato, sdrucciolevole, non museograficamente stabile. Sembra che tutto sia come sospeso (giudizio incluso) in un tempo che non si e' mai sedimentato nella certezza museale del valore. Nei confronti dell'ardua impresa, l'allestimento ha mantenuto un atteggiamento leggero e certamente legittimo, nuovamente distinguendo il piano municipale da quello nazionale e da quello internazionale sempre piu' povero (bellissimi rimangono il giallo velenoso di Ben Nicholson del 1949 e il Triple Gong, un ''mobile'' di Alexander Calder annullato nei suoi valori cromatici dal pesante affresco del soffitto del salone). Nella sala VIII, un'arte italiana degli anni Cinquanta, indubbiamente irrisolvibile in questa sede, con le belle presenze di Music e Leoncillo.
Dal piano scivoloso dedicato al rapporto spazialismo / Fronte Nuovo delle arti (sala IX), con un bel De Luigi, si estranea la figura di Vedova che al solito si smarca e si ritaglia un suo spazio autonomo al piano terra nel grande androne centrale e in due salette laterali dedicate alle mostre temporanee. Al centro dell'androne monumentale un grande Disco: Dagegen (1987-1995) e il grande Plurimo dell'Absurder Tagesbuch di Berlino del 1964: le opere appaiono ben allestite e lavorano molto bene all'interno dello spazio carico di suggestioni dell'edificio.
Una riflessione merita ancora il concetto di modernita', che se non e' in grado di traghettarci nella contemporaneita' rimane un concetto vuoto di senso. Ecco perché il lacunoso piano del moderno e la pasticciata sequenza del dopoguerra non ci trasportano nel contemporaneo, un approdo questo obbligato, come ci segnala la prestigiosa operazione del Mart di Rovereto, in grado di consegnarci il Novecento intero, come un oggetto museograficamente ordinato e descritto nella sua compiutezza.
Infine un catalogo privo di schede critiche e di saggi storici ha piu' il sapore di un esile guidina che risulta insufficiente per documentare la complessa stratigrafia museologica di questo sito e non celebra nella dovuta misura un avvenimento importante come la sua riapertura dopo tanto silenzio. Riapertura peraltro incompleta: il secondo piano e' chiuso, lo scalone crociato di Podrecca e' inagibile e, infine, al terzo trova ancora sede la bella raccolta di arte orientale, segnatamente giapponese, della collezione Borbone, tuttora esposta nel curioso allestimento Barbantini.
Ma al di la' di ogni rilevo museologico che potra' trovare nuovi assetti – allestimenti a rotazione, miglioramenti espositivi e quant'altro – la vera difficolta' rimane quella rappresentata da una collezione disomogenea e frammentaria, incapace di attraversare gli anni Cinquanta e di giungere alla contemporaneita' per una definitiva affermazione della propria autorita' sul fronte del moderno.
Cio' che sembra invece possibile potrebbe essere lo sfalsare i piani espositivi, spettacolarizzando la cultura retro' di cui il museo risuona (qualcosa di simile e' stato tentato nella Gare d'Orsay di Gae Aulenti) e isolare in nicchie protette le poche gemme e i poderosi corpi scultorei (Rosso, Martini e Wildt) che consentono al museo di fregiarsi del ridondante titolo di Galleria internazionale d'arte moderna.

La sede della Galleria internazionale di arte moderna di Ca' Pesaro e' a Venezia, Santa Croce 2076. La Galleria e' visitabile tutti i giorni con orario 10-17, chiuso il lunedi'. Per informazioni si puo' telefonare al numero 041-5240695.