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Art e Dossier (2003 - 2005) Anno 19 Numero 202 luglio/agosto 2004



Franco Angeli

Patrizia Ferri

Fantasmi metropolitani



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Franco Angeli, Half dollar (s. d.).

Franco Angeli, Corteo (1968).

Franco Angeli, Pelle umana per oggetto decorativo (1958).

Franco Angeli
Fantasmi metropolitani
Un artista silenzioso e spericolato, genio e sregolatezza dei 'favolosi' anni Sessanta: questo fu Franco Angeli, la cui pittura ha ironicamente depredato il repertorio degli emblemi ideologici della seconda metà del Novecento, con uno sguardo privilegiato sulla realtà romana.

Lo spessore interiore e umano della persona spesso si manifesta nel silenzio, in una capacita' naturale di catalizzare l'attenzione attraverso un modo di essere che non ha bisogno di parole per esprimersi. Il «silenzio come aura» di cui parla Benjamin apparteneva a Franco Angeli: un silenzio pensante ed enigmatico, peculiarita' della persona che si trasmette nella qualita' dell’opera, un silenzio profondo ereditato da una metafisica dell’anima, filtro dei conflitti ed espressione
dell’ombra, di chi ha metabolizzato Signorelli, Caravaggio, Van Dongen, Schwitters, Fautrier, un certo Monet, il barocco romano, De Chirico, Scipione, Mafai. Ombra come spazio che si apre in una tensione, in quell’idea di soglia, di essenza che emana dalla sua pittura introversa con sprazzi di vitalita' e slanci di felicita' poetica assoluta, ancorata a un deciso senso della realta',come lui stesso affermava, che lo accomunava ai suoi compagni di strada Festa e Schifano nella cosidetta Scuola di piazza del Popolo, accanto a Bignardi, Fioroni, Lombardo, Mambor, Tacchi e Kounellis, uniti allora dall’esigenza di superamento dell’istanza informale avvertita da un’intera generazione. Una pittura autentica e affascinante che attraversa i territori del sogno e del corpo, della memoria attraverso i detriti e i frammenti amati dell’infanzia e della storia parlando il linguaggio silenzioso dei simulacri simbolici tradotti nel loro aspro mutismo, disinnescati dal loro originario significato, come cancellati dalla polvere della memoria e dell’oblio, ricacciati in quell’ombra che già in quegli anni si stava insediando nei sistemi apparentemente incrollabili delle ideologie.

Trasparenza delle superifici

Una pittura tutt’uno con l’autore, scriveva Goffredo Parise, che ne parlava come del 'prodotto misterioso e perfetto di queste quattro parole [...] bellezza, grazia, popolare, romana'(1), diretta emanazione della vita, appendice autobiografica e insieme 'altro' che lo trascende, autoritratto e ritratto epocale in perfetta sinergia di rimandi, coagulati in alcuni momenti straordinari di vera e propria illuminazione che costellano tutto il suo itinerario creativo. Quel quadro 'senza retorica, senza riporti culturali, senza preoccupazioni di cultura del tempo, senza lenocini, trucchi, inviti, allusioni, fascini, inganni» di cui parlava Renato Guttuso, padre del neorealismo pittorico, sono molti quadri di Angeli, frammenti compiuti, parti di «un mondo nero, un mondo malinconico e rivoluzionario, privato e pubblico, fatto di pessimismo interiore e di speranza per l’uomo che vive di quel che ha dietro, di quel che ha sotto la sua pelle'(2). Un mondo drammaturgico e insieme popolare condiviso tra gli altri da Pasolini, dai poeti Penna e Balestrini, dove, tra le altre, abitava la passione per il teatro e l’architettura, testimoniata anche da progetti di scenografie. Proprio di pelle si puo' parlare per definire la qualita' di superficie viva e sensibilissima dei suoi lavori, dedotta inizialmente da Burri e per certi versi da Turcato e Scarpitta, con uno sguardo alle Impronte di Scialoja, elaborando quella poetica della lacerazione esistenziale in termini piu' vicini al vuoto e all’assenza, all’interno di una tendenza comune, generazionale, all’azzeramento e alla fenomenologia orientale, con in testa Klein e Fontana e in sintonia con lo spazio-luce di Rothko, che inaugura il nuovo corso della ricerca e della pittura. Una poetica della negazione caratterizza le prime opere, i monocromi e la serie delle garze e delle calze strappate, a cominciare dal 1958, data della sua prima mostra alla Salita di Roma e contemporaneamente ai primi Achromes di Manzoni (che gli dedichera' un’opera, La scarpa di Franco Angeli) e subito dopo gli schermi fasciati di Fabio Mauri, artisti ai quali era legato da una sincera amicizia. Opere dai titoli inequivocabili: Roma, Ferita, Morte prematura, Frammenti capitolini, Elementi negativi, Pelle umana per oggetti decorativi, Emblema, dove il velo 'respinge l’immagine fino ai limiti dell’assenza e su quella soglia la trattiene, snervata dell’astio, del rancore, dell’ironia che pure la caricava', scriveva Calvesi nel 1970(3), precisandone il valore di messa a fuoco e di dissolvenza dedotto anche dai procedimenti fotografici e dal cinema, per cui la stratificazione e l’evanescenza non sono lirismo fine a se stesso, ma espressione di 'interiorita' morale'. L’immagine fantasmatica del simbolo e del segnale impresso sul gesso, che a volte sostituira' il velo, e' quella stessa della pittura, fermata tra sparizione e affioramento, sulla soglia, sul limite del proprio superamento, stemperata da una concettualità complessa che lo avvicina alla radicalità dei Filtri di Francesco Lo Savio, che negli stessi anni a Roma sperimentava accanto a Giuseppe Uncini una linea decisamente astratta.

Poesia quotidiana

La pittura di Angeli si nutre di suggestioni metropolitane: 'I miei primi quadri sono la testimonianza del mio contatto quotidiano con la strada, vidi i Ruderi, le Lapidi, simboli antichi e moderni come l’Aquila, la Svastica, la Falce e Martello, obelischi, statue, Lupe romane sprigionare l’energia sufficiente per affrontare l’avventura pittorica'(4), diceva come un Basquiat 'ante litteram'(5). Quei segnali minimali e ambivalenti continueranno fino a tutti gli anni Settanta – svastiche, falci e martelli, lupe capitoline e bandiere, l’aquila dell’Half Dollar, stemmi, iscrizioni lapidarie, epigrafi retoriche, tratti dai graffiti sui muri o dal repertorio iconografico della pittura celebrativa di regime –, all’interno di un clima comune di attenzione e prelievo dall’iconosfera urbana da Schifano a Rotella e Kounellis. Sono presenze in cui Vivaldi percepiva 'quel tanto di larvale e diremmo medianico [...] rammemorante fatti umani e concreti: sofferenze, gioie, trasalimenti e dolori, ancora una volta 'forme''(6) che, come e' stato più volte ribadito, hanno poco da spartire con il sottile cinismo edonistico dell’icona mediatica di Warhol e con l’impatto visivo della Pop Art statunitense che imperversava in quegli anni, assunta semmai criticamente verso metà decennio, ma che eventualmente sono più assimilabili al New Dada di Jasper Johns. La poetica informale del muro – da Tapies a Rotella, Novelli, Twombly – e' condivisa da Angeli con lo scarto linguistico del velo che orienta la lettura del quadro non tanto sui segnali e dunque sull’istanza ideologico-politica seppure molto usata dalla critica, quanto sulla funzione del velo stesso, una funzione simbolica a sua volta, nella consapevolezza che le dinamiche occulte e onnipotenti dei poteri siano inevitabilmente risucchiate anch’esse dallo scorrere della vita e del tempo: 'Velo allontanante-introiettante. In questo movimento e' tutta la novità e l’altezza dello straordinario pittore. [...] Quei simboli fantasma, quei simboli-cometa transitanti e dalle code di sgocciolature operano come suggestione non dell’ideologia, ma del tempo: del tempo che li abrade, del tempo remoto in cui affondano, del tempo che uniforma le contraddizioni e trasforma gli ideali in ruderi'(7).

Giochi fatali

Le stesse immagini che, anticipando di molto il clima citazionista inaugurato dalla Trans­avanguardia alla fine degli anni Settanta, o della'citazione differente'(8), dal 1965 circa in poi saranno via via 'svelate' e rimpicciolite con tecnica a spruzzo su mascherine, acrilico e smalto, proliferando ossessivamente mischiate sulla superficie per tutti gli anni Settanta: ancora lupe e dollari accanto ad altri stereotipi, lune e stelle, cuori, svastiche ripetute in cimiteri partigiani e croci a cui seguiranno obelischi, strumenti musicali, piazze deserte, voli di aereoplanini e deflagrazioni, oasi notturne e geografie alla deriva del secolo, mari in tempesta inseriti in nitidi spazi geometrici, come una tarsia lucida dai toni accesi, fino alle marionette dei primi anni Ottanta, dove gli echi neometafisici si stemperano in malinconico sarcasmo, amara ironia, emblemi dell’infanzia perduta e della vita come gioco fatale, che annichilisce, simboli ancora una volta ambivalenti, ludici ed enigmatici. Opere dove convivono elementi minimali, echi neofuturisti, sciabolate di colore e 'dripping' pollockiano, nella compresenza di tecniche, gesso e calce insieme all’acquerello e all’olio, il collage, lo smalto. Tra queste opere, sul finire degli anni Sessanta fino ai primi del decennio seguente, una serie di tematica esplicitamente politico-ideologica con riferimenti autobiografici, di impianto neoespressionista: da Studio dell’artista a Compagni Giap e Ho Chi Min, Vietcong, Paesaggio thailandese con figura, i nove Dazibao, e Film, una sequenza di fotogrammi ingranditi del 1972 dal repertorio di immagini mediate da cinema, fumetto e tv, alcune con intervento pittorico, tra i primi esempi di contaminazione in linea con le esperienze in­­ternazionali. Infine un brano di una testimonianza inedita di Fabio Mauri, frammento tra frammenti d’artista: «Franco quell’ultimo periodo faceva fatica a far mostre, o magari mi sbaglio, comunque si lamentava per delle esclusioni di certo improprie.Nel ristorante si celebrava una mostra, cui partecipavo, non ricordo il titolo, vi erano convocati artisti che avevano fatto del dolore una materia prima di espressione. 'Perche'?', mi chiese Franco, 'io non so cos’e' il dolore?'. 'Io non ho mai provato il dolore?'. Aveva ragione lui. La mia risposta non ci fu, non ero il responsabile della mostra, e fu solo nella tenerezza con cui lo abbracciai e continuo ad abbracciarlo ogni volta che ricordo quella frase accorata, il mio affetto e la mia stima per lui. Di chi fino all’ultimo non si rende sul serio conto dell’ingiustizia del mondo, non vi si arrende, poiche' e' il contrario esatto della sua natura, l’opposto del vero, del suo valore di artista e della sua vita di uomo, che era semplicemente e visibilmente grandiosa nei caratteri, nei fini e nelle azioni che convogliava a chiare lettere, nella sua generale stesura di artista. Ciò che non si capisce bene, quando si capisce, si sente come un grido. Così gridano tanti quadri di Franco. [...] In un suo quadernetto a righe, Franco fa infine una summa del dover essere. Si dice e dice che si deve amare tutto ciò che e' successo, ma anche il suo opposto. E' un’amnistia a favore di tutto, una resa applicabile all’inesplicabile, e al senso ultimo della morte, come insieme quasi ragionevole di un tragitto, uso la sua parola, per me difficile da scrivere, di 'amore'. Non so a favore di chi e' quell’insolito invito. Certo per sua figlia, per se', per noi altri amici. Di istinto, come di fronte a un suo disegno, ci credo. Franco e' uno che ha ragione. Io possiedo un suo meraviglioso disegno: un sampietrino. Lo guardo spesso come la pietra di un David un po' dinoccolato, senza arie epiche, come era Franco. Penso di essere stato fortunato. In una vita sola ho conosciuto molti di quelli che avrei voluto conoscere in più vite. Sembravano di altri mondi. Se mi volto indietro, vedo che erano la mia stessa vita. Ne sono felice. So dove sono, dove e' il mondo mio e dei miei amici'(9). Un 'mondo nero', quello di Franco Angeli, un mondo d’ombra dove si scorge il senso della libertà e della vita e da cui nascono tutti i colori della luce: simbolo tra i simboli degli enigmi drammatici che il Novecento non ha risolto e dell’avventura di un artista e di un uomo davanti alle domande radicali e ai conflitti vissuti con tormento e speranza. Quelli che ne hanno scritto il destino.