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FMR (2006-2008) Anno 24 Numero 14 agosto-settembre 2006



Diego Rivera: el Sueño de l’Alameida

Raffaele De Grada

Nella passeggiata domenicale personaggi illustri e gente comune, rivoluzionari e venditori di palloncini spartiscono in parti uguali il peso della storia e le ferite della terra.





WUNDERKAMMER
La Regina delle coppe

Dalla straordinaria collezione di oggetti in pietre dure russe conservata al museo dell’Ermitage di San Pietroburgo spicca un maestoso cratere di diaspro verde, conosciuto come il Vaso di Kolyvan’ formato da una coppa monolitica ovale, poggiante su un massiccio zoccolo quadrangolare: un’opera d’arte applicata, una scultura, un monumento.

Il cratere di diaspro verde dell’Ermitage
di Natalia Mavrodina
Fotografie di Aurelio Amendola


MAPPA MUNDI
Il bambino e la Morte

Nella passeggiata domenicale personaggi illustri e gente comune, rivoluzionari e venditori di palloncini spartiscono in parti uguali il peso della storia e le ferite della terra, capaci di guardare avanti con sguardo fiero restando ancorati alle proprie radici. Rivera sogna così: un Diego bambino accanto all’amata Frida e ai maestri di sempre; la mano stretta a Quetzalcóatl, divinità pre-ispanica tra le più importanti, qui nei panni di Calavera Catrina, pensati per lei da José Guadalupe Posada.

Diego Rivera.
El Sueño de la Alameda
di Raffaele De Grada

Fotografie di Alfredo Dagli Orti


ICONOGRAphIA
Gaspar Becerra e la Controriforma

Testimonianza preziosa di un’epoca, il Rinascimento, e di un messaggio, quello controriformista del Concilio di Trento, il retablo maggiore astorgano è creazione di Gaspar Becerra, scultore spagnolo formatosi a Roma, che scommettendo sulla modernità lascia che un soffio di genialità michelangiolesca si insinui nella sua opera.

Il retablo maggiore della cattedrale di Astorga
di Manuel Arias Martínez e Miguel Ángel González García


FIL ROUGE
Un paradiso buddhista

Dall’antichissima tradizione metallotecnica giapponese risalente al III secolo a.C., una delle più insigni e sofisticate del mondo, le grandi statue buddhiste in bronzo del periodo Edo (1600-1868)
dalla straordinaria qualità dell’espressione plastica, ora esposte al Museo Chiossone
di Genova.

Bronzi giapponesi del Museo Chiossone
di Donatella Failla
Fotografie di Giovanni Ricci Novara


MNEMOSINE
Belardinus de Perusia pinsit

A chi sa guardare con occhi innocenti, la storia dell’arte sa svelare, a volte, le sue gemme segrete: lontano dal racconto ufficiale che a quelle date già conduce sullo scorcio di un realismo che va ben oltre la prospettiva, Bernardino di Mariotto si ostina a dipingere tavole e a incidere a punzone
preziose lamine d’oro.

Bernardino di Mariotto, la favola gotica di Giampiero Donnini
Fotografie di Alfredo Dagli Orti


GRAND BAZAR
Il nobil gioco

“L’eterno è un fanciullo che gioca, che sposta i pezzi sulla scacchiera: regno di un fanciullo”, scriveva Eraclito. Metafora dell’esistenza,
tra lotta e gioco, tra logos e caso,
gli scacchi incarnano anche artisticamente una vicenda unica, che corre sempre uguale, sempre diversa nei secoli.

Gli scacchi del Bargello
di Claude Lemoine
Fotografie di Alfredo Dagli Orti
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Diego Rivera (1886-1957),
Sogno di una notte domenicale nell'Alameda, 1947.
Affresco su pannello trasportabile, m 4,7 x 15,67.
Città del Messico, Museo Mural Diego Rivera.
Particolari dell'affresco.

Diego Rivera (1886-1957),
Sogno di una notte domenicale nell'Alameda, 1947.
Affresco su pannello trasportabile, m 4,7 x 15,67.
Città del Messico, Museo Mural Diego Rivera.
Particolari dell'affresco.

Diego Rivera (1886-1957),
Sogno di una notte domenicale nell'Alameda, 1947.
Affresco su pannello trasportabile, m 4,7 x 15,67.
Città del Messico, Museo Mural Diego Rivera.
Particolari dell'affresco.

Tra i primi che aderirono a Parigi al movimento “cubista”, che si era sviluppato con i fratelli Villon, Gleizes, La Fresnay, Léger, Metinger, Picabia, Gabrielle Buffet, Valensi e Kubka, sotto gli auspici critici di Guillaume Apollinaire e dell’americano Walter Pach, e con Mondrian e Survage, c’era un americano messicano Diego Rivera (1886-1957).
Era per il giovane messicano l’inizio di un cammino di ricerche che lo portano in pochi anni, sotto l’ardore affascinante di André Breton a sperimentare l’immaginazione pura del surrealismo tanto che, con Breton e Trotski fondò la Federazione Internazionale Indipendente dell’Arte Rivoluzionaria. Rivera viaggiò poi molto in Italia e si appassionò dell’antica pittura dell’affresco murale, da Giotto in poi, e si propose di esaltare la rivoluzione contadina del suo paese (1911) con una serie di affreschi che giungono fino a quello del 1945 “La grande Tenochticlan” che rievoca la tradizione precolombiana con un linguaggio moderno.
Rivera fu un artista assolutamente politicizzato, fu uno stretto amico di Trotski che aveva ospitato nella sua casa in Messico dove il rivoluzionario russo fu ucciso.
Rivera partiva da una idea molto semplice: egli vedeva il suo paese diviso in due classi sociali: da un lato la borghesia “compradora” ma incapace di creare una economia nazionale, che in arte si basava sulla imitazione di modelli stranieri e che aveva finito per integrarsi senza condizioni nel potere imperialista; dall’altro lato il popolo che ha prodotto artisti che erano riusciti a personalizzarsi avendo vissuto ed espresso l’aspirazione delle masse dei lavoratori.
Il maggiore di questi artisti era per Rivera José Guadalupe Posada, il geniale incisore, grande come Goya e Callot, interprete del dolore e della gioia dell’angosciosa aspirazione del popolo messicano alla libertà e alla giustizia. Questa mano di operaio, armata di un bulino d’acciaio lancia le più acute inventive contro gli sfruttatori. “Eppure Posada combattente, sarcastico e fiero, è buono come il pane, illustratore di racconti e leggende, canti e preghiere della povera gente, fu anche amico dei divertimenti. La sua opera e la sua vita penetrano nelle vene dei giovani (senza che nessuno se ne avveda) e le loro opere sbocciano come fiori in un campo di primavera, dal 1923.”
Questa “primavera” è passata da Posada a Rivera nei murales come questo del Alameida. A guardarlo si viene coinvolti in questa gran festa dove tutte le componenti della società messicana si presentano nel loro schieramento frontale per essere riconosciuti e, indipendentemente dalla loro posizione sociale, tutti vogliono essere amati. Al centro esatto del convegno figura, come uno dei tanti personaggi, la Morte, la morte trasformata in elemento plastico e anch’essa viene da Posada.
Per noi europei è difficile comprendere la figurazione della Morte qual è nell’arte messicana. Noi siamo abituati a vedere la figurazione della Morte qual è negli affreschi medioevali, dove la Morte figura come ammonimento e spavento. Rivera stesso ci spiega che cos’è la Morte nell’arte del Messico. La Morte per i messicani è un personaggio in mezzo a noi; Rivera dice che la Morte “si ubriaca, piange, danza, è una morte familiare, si tramuta in una figura di cartone con le articolazioni, può diventare una zuccheriera che fa venire l’acquolina in bocca ai bambini mentre i grandi combattono e cadono fucilati o perfino impiccati da una corda”.
L’aver posto al centro del murales dell’Alameida la Morte non è soltanto un omaggio a Posada, è la prova dell’amore che Rivera porta alla sua gente, per la sua sventurata patria messicana i cui il murales dell’Alameida è la sintesi del suo amore per la sua sventurata patria messicana che il murales raccoglie negli elementi più tipici. Ci sono tutti, i coloni col loro piglio, gli artigiani nella loro semplicità, i bellimbusti e infine gli operai e i contadini e perfino gli Spagnoli, in un miracoloso equilibrio tra la realtà e l’ “infrarealtà”, la superrealtà dell’ordine plastico “valori che non si possono rinchiudere nei miserabili limiti dell’ordine plastico”. La tradizione critica, influenzata dalle diverse posizioni politiche dei due grandi realisti messicani, Rivera fedele trotskista e David Alfaro Siqueros prosocuetico, ha sottovalutato la radice comune dei due, entrambi di ispirazione realista e socialista. Anche Siqueros fu severamente critico dell’accademismo dell’arte ufficiale dell’unione Sovietica.
In una intervista rilasciata al critico americano Ralph Parker (1958) Siqueros rivolgendosi ai colleghi sovietici è esplicito: “Voi ammettete con me che il realismo non può essere una forma fissa, una legge immutabile: il realismo può essere solo un metodo di creazione in perpetuo sviluppo, la nostra cultura messicana, considerata nel suo insieme, ha dimenticato questo principio a causa di un formalismo di tipo archeologistico. Anche voi asrtisti sovietici, lo avete dimenticato, e ciò vi ha condotto a mantenere antiquati stili realistici che ricordano la pubblicità commerciale “yankee” dei primi anni di questo secolo.”
Anche la sua critica meno benevola in patria (ad esempiuo Luis Cardona y Aragon, 1940) nell’osservare che Rivera “tende a fare della politica un mezzo dell’arte”, riconobbe tuttavia che “la sua opera contribuì a realizzare “il mutamento della pittura nostrana”. Il nostro amico, il pittore Attilio Rossi che, profugo antifascista in Argentina fu più volte in Messico a trovare Diego Rivera che aveva già dipinto grandi affreschi negli Stati Uniti, ci raccontava che a Rivera “più di ogni altra cosa piacciono i bambini e le macchine”. Dolcissima la bambina che in questo affresco tiene in braccio una bambola.
Essa si è ricavata una nicchia nella grande confusione dell’insieme e nel sorriso intelligente che gli adorna il volto ci fa intuire il senso materno già sviluppato nell’adolescente.
Questo, come tanti altri particolari del murales, dà il vero senso dell’arte di Rivera, una sintesi tra l’educazione all’arte europea e la radice messicana della sua anima, la “selvatichezza” come la definì Samuel Ramos nel 1972, il quale affermò “che il genio non può esistere senza questo spirito demoniaco che è la forza e la speranza del Messico”.
Durante il suo soggiorno a Parigi Rivera aveva allacciato molte relazioni, tra gli altri col nostro Gino Severini che lo ricorda come “un messicano meticcio di cui Modigliani fece uno dei suoi più bei ritratti”. Severini che era sempre interessato alla ricerca, ricorda che Rivera “aveva ritrovato e ricostruito una teoria di prospettiva secondo la quale il piano orizzontale e quello verticale subivano le stesse deformazioni e l’oggetto veniva arricchito di altre dimensioni oltre le tre ordinarie.”
Severini, che io ho ben conosciuto, era quasi maniacale nelle suie ricerche prospettiche. Aveva incontrato Rivera nei primi anni del secolo. Ben diverso il rcordo degli ultimi anni di Rivera che ci ha lasciato quel gentile letterato che fu Cesare Zavattini: “mi disse che il cancro giocava a rimpiattino con lui, debellato in un punto riapparve tranqullamente in un altro. L’avverbio era suo e non ho mai sentito discorrere di questo male con la tranquillità di Diego… Diego era un campione, una coscienza senza pace e voleva ancora dei muri. Dei chilometri di muri per raccontare come stavano le cose passate e presenti del suo paese. Lui sentiva come pochi che “senza armi ma con delle macchine, con dei tessuti, con delle bibite il suo popolo correva il rischio di essere divorato dall’invadente vicino.”
Per reagire Rivera credeva nell’arma della pittura, nella forza della cultura. Aveva convinto il suo governo ad invitare in Messico trenta pittori europei che avrebbero affrescato dei muri. Zavattini ricorda: “Un uomo tanto potente e fantasioso era umile e gli ho sentito dire con un tono testamentario che Orozko era più grande di lui… Diceva che le idee sono come le lucertole, si fermano e sembrano morte ma basta scuotere un ramo perché la lucertola rizzi la testa e riprenda la corssa… voleva spiegarmi che niente era importante come il realismo pittorico, l’arte murale era viva e, come diceva Siquieros, che non c’era un’altra via. Ma bisognava tentare più sentimenti, provocare più scambi di fatti, di immagini. Perciò “la nave dei pittori gli andava a genio… era lotta”.
L’affresco dell’Alameida fu dipinto nel 1947 nell’Hotel del Prado di Città del Messico.
Il suo titolo è esattamente “Sogno di una notte domenicale nell’Alameida”. È veramente un sogno, una viaggio nella memoria… il pittore si raffigura bambino accanto alla Morte, tutta impennacchiata secondo la tradizione, dietro a lui sorge il volto malinconico di Frida Kalo che fu la compagna della sua vita, gli alberi intorno sono illuminati da fuochi d’artificio come si conviene alla festa.
Il bambino e la morte, alfa e omega, tutto il resto è comparsa nella memoria.
La morte nel detto popolare messicano è la Cavalera Catrina, metafora della borghese vanitosa e sofisticata, non è certo quella dei nostri affreschi medievali. La Cavalera Catrina tiene da un lato la mano del bambino Rivera (fig. 1) vestito in modo goffo con le calze a strisce gialle e il cappelluccio di paglia, dall’altro c’è Posada che è stato il suo reinventore. In primo piano, protagoniste della Fiesta, le “signore” in tutta l’eleganza dei loro abiti antiquati e una folla di borghesi seriosi che si confondono coi generali coperti di medalgie e che si arrampicano sugli alberi per figurare, “ci sono anch’io”.

È una vera festa in cui Rivera mescola tutti i suoi ricordi di infanzia in una dedica alla memoria che non prende affatto in prestito, come è stato detto, dall’arte naive. I personaggi se li ricorda tutti, inzuppati nel folclore del paese latino, così diverso dai vicini americani e li descrive puntualmente, gruppo per gruppo e nella festa dell’insieme, figura per figura con lo scrupolo realista.
Rispetto ai suoi murales più impegnati, questo dell’Alameida è uno dei più liberi, dove Ribera ha voluto dare la summa del folclore messicano, mai perà si dimentica di mostrare la grinta dell’indio”, la sofferenza del povero accanto alla vanità della borghesia. Il popolo soffre e gli sfruttatori non riescono a sorreggere il peso delle medaglie, il volto degli sfruttatori è duro, negli sguardi incrociati con gli indios, le “signore si pavoneggiano e non hanno neppure uno sguardo per i poveri che portano loro i frutti faticati della terra.
Ma Rivera non dimentica che gli indios hanno conquistato con le armi la loro libertà che ora consumano tutti insieme in un provvisorio accordo.
I poveri mangiano un po’ di pane, ma i piccoli si disperano.
Rivera con questo affresco ha raggiunto la dolorosa felicità degli antichi pittori che egli ha studiato nella sua gioventù, la dolorosa pietà delle croci intorno alle quali la povera gente sperava nella vita eterna. Ed è festa, all’Alameida.