L'edicola digitale delle riviste italiane di arte e cultura contemporanea

::   stampa  

Espoarte Anno 8 Numero 49 ottobre-novembre 2007



Pier Paolo Calzolari

Paola D'Andrea

Intervista



Contemporary Art magazine


[GIOVANI]
46 Anila Rubiku
52 Riccardo Benassi
56 Claudia Losi
60 Elisabetta Novello
64 Andrea Buglisi
68 Paolo Troilo

[PROTAGONISTI]
74 Pier Paolo Calzolari
82 AES+F Group
88 Pier Luigi e Natalina Remotti

[SPECIAL GUEST]
94 Daniel Canogar
98 Florin Tudor e Mona Vatamanu
102 Luca Vitone

[RUBRICHE]
111 Speciale Kassel - Münster
126 No Man's Land

[Progetti&Dintorni]
130 Futuro Presente / Present Continuous
134 From & To
136 Joseph Kosuth
138 Natura e Metamorfosi
140 Sissi e Fogliati
142 Donald Baechler
143 Biennale del Muro Dipinto
144 FLORA
145 Mimmo Paladino

[Profili]
146 Stephen Wilks

[EVENTI]
152 David Lachapelle
154 Numerica
156 Sequence 1
158 Tony Cragg
160 Alberto Burri
162 Lewis Baltz

[Recensioni]
164 Ghada Amer
166 Ironia Domestica
167 Amy Cutler
168 Plinio Martelli
169 Jan Vercruysse
170 La Via del Sale

[IN GALLERIA]
174 Musica per Occhi
175 Liliana Porter
176 Sara Rossi
177 Chantal Joffe
178 Marzia Migliora
179 Zhang Huan
180 Orizzonte degli Eventi
181 Arnold Mario Dall'O
182 Vanni Cuoghi
183 Corrado Bonomi / Ueia Lolta
184 Os Gêmeos
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Silvia Camporesi
Chiara Serri
n. 88 aprile-giugno 2015

Andres Serrano
Isabella Falbo
n. 87 gennaio-marzo 2015

Michelangelo Pistoletto
Matteo Galbiati
n. 86 ottobre-dicembre 2014

Mustafa Sabbagh
Isabella Falbo
n. 85 luglio-settembre 2014

Cildo Meireles
Ginevra Bria
n. 84 aprile-giugno 2014

Beatrice Pediconi
Chiara Serri
n. 83 gennaio-marzo 2014


Materassino, 1970
materassino in mollettone, piastra ferro, bicchieri, lumini ad olio, struttura ghiacciante, motore frigorifero, vasche piombo (cm 270), cm 124x27x19
Collezione Il Ponte Contemporanea, Roma.

Casa che brucia, 2005
proiezione video, struttura in ferro, bruciatore, bombola di gas (tre copie), cm 290x200x90
Courtesy Il Ponte Contemporanea, Roma
Foto: Studio Semprucci

Senza titolo (dettaglio), 2006
struttura ghiacciante, rame, ferro, pittura, tempera al latte

Esponente dell’Arte Povera in Italia, Pier Paolo Calzolari si distingue per il suo vocabolario plastico originalissimo e informato sulla contemporaneità. Ritorna dopo molti anni a Roma con una personale al Ponte Contemporanea, curata da Achille Bonito Oliva. Artista difficile da inquadrare in schemi oltremodo riduttivi per la complessità del suo lavoro e delle sue esperienze artistiche ed estetiche, ha esperito a più livelli tutti i linguaggi, creandone di nuovi all’interno delle sue opere. Il suo metodo disciplinare, che affascina le nuove generazioni per cui ne applicano tutt’oggi le sue linee guida, ha reso il suo lavoro una poesia oggettuale e vibrante nello spazio-tempo.


Paola D’Andrea: La sua lunga carriera non mi permette di fare un vero e proprio excursus analitico sul suo lavoro. Nell’immediato, il mio pensiero va alla sua prossima mostra. L’incontro con le Nature morte, pensate per il Ponte Contemporanea, può significare che l’arte è messaggio o segno di qualcos’altro? Sono installazioni ambientali oppure grandi sculture che contribuiscono oggi ad elaborare un preciso vocabolario plastico?
Pier Paolo Calzolari: Nello specifico non so se sono installazioni perché è un termine che mi imbarazza, per quanto riguarda la formazione del linguaggio classico sarebbe molto presuntuoso da parte mia fare dichiarazioni di questo tipo. C’è una conseguente lettura, un maturamento progressivo del linguaggio nelle opere specifiche, che sto conducendo negli ultimi dieci anni: è sicuramente un momento di attenzione sulla funzione del linguaggio, ma è un fatto disciplinare. C’è un tentativo di ridurre la ridondanza del linguaggio, gli effetti eco: non voglio parlare di purificazione perchè sarebbe eccessivo, anche quello rischioso indubbiamente. Negli ultimi anni ho guardato ai primitivi, a qualcosa di molto italiano, l’attenzione al tema dei “Valori Plastici”, a qualcosa che riguarda gli anni ’30 e ’40 italiani, che si dinamizza su temi metafisici ma precipita poi sul “Ritorno all’ordine”, termine da usare con grande cautela e con dolore; è un momento assolutamente importantissimo per il costituirsi dell’arte contemporanea, in maniera specifica in Italia, che porta ad una soluzione reazionaria, ma che in partenza non aveva questa vocazione ma quella di un’ottimizzazione dell’idea della forma e non di chiusura sull’idea della forma, sulla libertà dell’immagine, cosa che è avvenuta dopo.

Per la sua esperienza di oggi, si può intendere non come un “Ritorno” ma come un guardare a...
Non mi fraintenda, è un’esperienza chiave dell’arte e del vissuto ma non per questo ho nessuna nostalgia del passato. Ne ho molta di nostalgia, però non sono un predicatore del passato, in questo senso c’è anche molta nostalgia per il futuro.

A tal proposito le volevo chiedere se le sue installazioni ambientali, se posso definirle così per semplicità, in cui sono stati esperiti tutti i linguaggi e, a mio parere, hanno permesso di reinventarne di nuovi, si possono definire “pensieri silenziosi”, un’espressione utilizzata già altre volte per commentare l’opera di grandi maestri (opere di pura poesia, direi trattati filosofici) come Morandi e Cézanne, che hanno avuto a che fare con la natura morta tradotta ovviamente con la pittura, altro linguaggio da lei esperito a più livelli.
È una domanda alla quale, per modestia e per difficoltà oggettiva, non posso rispondere, se l’avesse fatta a De Chirico le avrebbe risposto di si, perchè era una persona molto simpatica, giustamente presuntuosa e molto sicura di sé.
Io non ho queste caratteristiche ed è anche per questo che non potrei risponderle in maniera esplicita. Chiaramente si fanno delle scelte precipue nel lavoro, in qualche modo si preferiscono degli strumenti intimi, evocativi ed altri che sono congestionati da desiderio definitorio; la mia è un’elaborazione dell’immagine che non è solamente intima o del soggetto usato, stilistica diciamo, ma c’è anche una volontà edificante della cifra stilistica. Per semplificare: penso ci siano due termini che non divorziano mai, la vocazione più silente e intima e un’altra, che è una vocazione sul presente. Le due si fondono e, a volte, si creano delle cifre stilistiche che hanno una significanza prospettica.

Secondo lei le nuove generazioni utilizzano in modo improprio lo stesso rapporto con l’oggetto? Il rapporto con il reale diventa un recupero di pratica, di metodo di maestri dell’arte, che purtroppo rimane spesso di superficie. Sono applicazioni che perdono quella manifesta poesia degli artisti di un certo passato storico. Dov’è il gap, inteso proprio come vuoto di contenuti?
Mi permetta un’osservazione. Le sue domande sono capziose, una capziosità che condivido, ma non posso non segnalarle che sottintendono già un tipo di giudizio espresso, formale o etico...

E io vorrei anche giustificarmi per correttezza. In Discorso sull’orrore dell’arte, Enrico Baj parla di vuoto dell’arte e di incapacità di relazionarsi al pubblico, perché l’arte non ha più a che fare con l’uomo; si riaffronta il discorso caro alla critica su una sorta di apocalisse dell’arte (apocalisse del visibile che ha lontane radici nelle avanguardie, un discorso che purtroppo non possiamo ripercorrere insieme in questa occasione, perché troppo lungo e complesso). Potrei allora chiederle, parafrasando le parole di Baj, se pensa che «l’arte possa uscire da quella funeral-home in cui si trova in attesa di inumazione»? È d’accordo con questa affermazione?
Queste affermazioni portano con sé una tale complessità di argomenti che costringono a degli step se parliamo degli anni ’90; se invece mi parla di Stockhausen o di Mahler, di una situazione violentissima fra fruitore, pubblico, uomo, come lei ha detto giustamente, era pur vero anche per Tatlin e per Bach che è sparito per 150 anni ed è stato recuperato postumo; è una graticola complessa... se mi riporta la sua presa di posizione e la tipicità della sua domanda...

Riflessioni che mi portano a pensare all’ultima Biennale ad esempio.
Allora perché non pensare alle ultime tre Biennali... se un vecchio signore dovesse parlare di carenze o vuoti di un’arte giovane, posso essere d’accordo con lei e con gli autori, ma parliamo anche di un’arte precedente, degli ultimi trent’anni. C’è una mummificazione funerea che riguarda tutti noi...

Da che punto di vista, secondo lei?
Ci sono più livelli, a mio avviso, da un punto di vista qualitativo, ma c’è una cosa meno grave e mai disgiunta, sicuramente a livello della riflessione della sonorità dell’arte prodotta, ammesso e non concesso che l’arte debba averne ma io suppongo di si. L’arte non può essere una voce muta, può essere un silenzio, ma non può essere una cosa mutola, oppure può diventare un silenzio fra suoni, che sono considerati espliciti, anche se non espressi. Però è già un vizio intellettuale e letterario, non è una realtà dell’arte, c’è una situazione che non è funerea, perché funereo vuol dire già ricco di sentimenti, è proprio mummificata ma riguarda trent’anni d’arte, tranne qualche nome che adesso mi sfugge...

... e non li facciamo...
Questo argomento difetta degli artisti ma non riguarda l’arte che non è muta o sorda, è soltanto malespressa...

... perché forse c’è più attenzione ad un sistema dell’arte piuttosto che a un metodo e a una ricerca più approfondita?
Questo soprattutto riguarda quella parte di artisti ufficializzati che sono coinvolti in una logica di lavoro e in una routine all’attualità, un assorbimento al reale che si può definire “reality”: c’è più reality, diciamo così, c’è un abbassamento forte dell’interpretazione ai fini di una rappresentazione appiattita, c’è una forte connivenza da parte di tutti noi sicuramente, con un’arte che si è appiattita e stilizzata sulla bidimensionalità e questo riguarda gli ultimi trent’anni, chi più chi meno, e tocca in maniera protagonistica e grave anche molti giovani.

Durante l’ideazione del suo lavoro, un artista in qualche modo seleziona il suo interlocutore o non viene preso in considerazione questo aspetto?
Non vedo per quale motivo uno oggi debba comunicare; abbiamo discipline avanzate della comunicazione, indubbiamente tutta la parte di comunicazione fino al ’700/800 non c’è più, tutta la pubblicistica picassiana, nazista picassiana o comunista, è stata eliminata, non del tutto direi, perché le male radici continuano anche nell’arte giovanissima. La pubblicistica tardo ottocentesca fascio marxista c’è stata, oggi come oggi non c’è più. A chi si parla? Si parla a chi non sente, si parla a chi non vede. Le devo confessare che ho più interrogativi che riguardano me stesso e il mio lavoro; sembrano motivi leggeri ma in realtà hanno delle conseguenze drammatiche, il tema che mi ha supportato è “chi o che cosa mi ha fatto strumento”, il secondo tema è “chi o che cosa mi suona”, e lei quindi capisce che il problema dell’interlocutore io non ce l’ho. Quello che io le ho posto con la mia risposta è un problema che non è metafisico ma incombente, molto astratto... chi ti fa strumento e chi ti suona, nel senso “fattuale” del termine.


Si è molto parlato di immagini ipnagogiche ma lasciamo stare. Quando lei si sposta camminando, ha la percezione oggettiva delle cose che lei inquadra e poi ha delle impressioni di cose che si muovono velocemente a lato, a volte sfiorano trasversalmente il suo campo visivo. L’angolo che, a mio avviso, riguarda l’emotività, è questa trasversalità, l’immagine è quella cosa, quell’ombra che sfiora il suo angolo visivo ma in effetti ha un’emozione percettiva ben chiara e sicuramente non meno solida e fisica del monolite che ha di fronte, perché è tanto forte la costruzione dell’immagine e l’emozione che incide nel suo essere. Però, normalmente, si è portati a pensare che l’immagine è quella che otticizziamo di fronte: io penso sia il contrario. Oggettivamente, peso, posizione, paura, tranquillità, dimensione fisica sono realissime, siamo educati a non sviluppare la considerazione di questi temi.

Non ricordo chi l’ha detto, l’artista è forse un errore biologico rispetto all’opera d’arte?
Non credo sia nemmeno una considerazione così interessante, forse non è vero perché abbiamo artisti che sono persone raffinatissime che esprimono un’arte raffinatissima, ma è altrettanto vero che abbiamo artisti intellettualmente raffinatissimi che esprimono un’arte mediocre. Accetto con stupore il miracolo, conosco persone con cui non riuscirei a sopravvivere più di venti minuti a cena, persone che con la loro piattezza e stupidità fanno un’arte francamente molto affascinante. Non è un errore biologico, non riesco a spiegarmelo, è un miracolo. Bisogna accettare passivamente la cosa come un atto soprannaturale...

Si possono definire i suoi lavori “simboli evocativi” informati sulla contemporaneità? L’artista si avvale di una metodologia che indaga la realtà e, se si, in che senso e con quali presupposti?
Non so chi mi ha fatto strumento, implicitamente c’è già la risposta. Può pensare che un artista sia uno strumento camminante, è un’applicazione disciplinare...

Una coerenza legata a determinate scelte?
Se pensa al mestiere come alla scomposizione di elementi dati, come carico del fattore fisico-emozionale per poi disgiungerlo, fratturalo, per poi suddividerlo e ricomporlo, per capire da dove esce il suono emozionale e da dove entra per poi ribaltarlo, questo è un metodo disciplinare che va applicato al suo degno strumento.

In sintesi, questo può rendere “immortale” un’opera d’arte, oggi come cent’anni fa? La cura, il metodo, il valore aggiunto dei contenuti, o qualcos’altro di più impalpabile?
... fra virgolette, lievemente sospese ... sicuramente la ricerca e la volontà oggi di chi pratica l’arte è di essere attuale; avere una visione dislessica e scivolante, una visione orizzontale sul mondo del reale, dove per esempio c’è una valenza continua fra passato e futuro. In quel preciso momento c’è una nuova volontà attualizzante di fare “ricette” affinché il lavoro prodotto sia un tentativo di finalizzare un lessico, ci sono tante risposte, direi la prima ricetta.

C’è un modo per sintetizzare la sua carriera in una sola parola o in un’immagine o in una sola opera da lei prodotta?
Restare in ascolto...

Ha avuto una collaborazione artistica, uno scambio di idee, più interessante di altri durante la sua carriera artistica?
Con le persone in genere non è male, non una persona più dell’altra, tutte molto. Sono un lettore di poesia ma lo siamo un po’ tutti forse. Non riesco a quantificare, io credo che un momento di frizione e di scambio di dati emozionali, pur minimo, abbia lo stesso valore di uno scambio culturale lungo e protratto, non a livello qualitativo.

Negli ultimi anni abbiamo visto troppa bidimensionalità contenuta all’interno del calderone del termine “visivo”, forse indirettamente ne abbiamo già parlato...
Si, io intendevo bidimensionalità intellettuale ed emozionale...

L’essere informati sulla contemporaneità vuole anche dire essere informati sui media e avere una conoscenza approfondita del linguaggio multimediale, bisogna fare i conti con quello che ci circonda oggi e non si può far finta di ignorarlo...
Il tentativo è di utilizzarlo e non di ignorarlo, il problema è vergognosamente questo, ho un’ottima cultura di elaborazione mediatica, lavoro da una vita con il computer, ho insegnato nei due centri più avanzati di elaborazione e tecnologia mediatica, conosco a fondo l’uso dei software e dei media, sia gli strumenti usati a livello di multimedia, sia l’utilizzazione del software per i montaggi e la composizione di effetti speciali, che non ho usato quasi mai nel mio lavoro. Devo segnalare due cose, una riguarda il pessimo e generico uso degli strumenti mediatici, che sono strumenti al pari di una tavolozza: nel ‘400 sarebbe stato imperdonabile non sapersi preparare un colore o fare un impasto, gli strumenti portano con sé una complessità disciplinare e strumentale grossa. Io soffro molto quando vedo i giovani artisti utilizzare sia i software per l’elaborazione di immagini, sia proiezioni o elaborazioni al computer in maniera così generica e vaga. Oppure si può dire che, alla fine degli anni ’60, inizi ‘70, ci sono soluzioni video con immagini delle più elementari e più varie, un impasto fra camera ferma e immagine mossa che possedeva una primitività molto affascinante. Passato quello stadio, quando i media diventano complessi e gli strumenti anche e, tornando alla sua questione di prima, è angosciante vedere l’utilizzazione di massa di strumenti molto sofisticati in modo così catastrofico e deprimente. Questo è un problema che riguarda gli artisti europei in genere, per usare questi strumenti occorrono mezzi ampi, economici e strutturali, bisogna avere esattamente il senso di ciò che si fa con i mezzi che si hanno. Se un americano, ad esempio, lavora vicino alla pubblicità o alla produzione cinematografica, convive con questi strumenti e con le sale di montaggio; i risultati possono essere di un certo tipo. Bill Viola, che ottiene ottimi risultati, ha un cast e un set incredibili e allucinanti, ed è anche un ottimo artista che sa cosa usa, ha i mezzi economici e tecnici e la cultura necessaria, cose cui scarsamente possiamo accedere in Europa. C’è un fatto di coscienza: bisogna conoscere gli strumenti che si usano, questo specie di reality show a tutti i costi, anche dell’uso degli strumenti dei media, è catastrofico quando si usano dei media non proporzionali ai propri mezzi e alla propria cultura. Si arriva ad un’arte di una scandalosa genericità. Invito anche i curatori e i critici ad essere più informati tecnicamente...

Anche i collezionisti che devono sapere o educarsi a sapere cosa comprare...
... e soprattutto i curatori che sono autoeducati, o sono stati autoeducati, o si educano a pensare che i portatori di emozione siano tout court artefici di qualcosa riguardante l’arte. Non è vero. Di diari intimi ne è pieno il mondo e tutti ugualmente hanno dignità d’esistenza e d’emozione. Solo alcuni sfiorano l’emozione artistica perché sono fatti da persone che sanno elaborare un linguaggio e un pensiero. La tendenza oggi, che riguarda l’arte, è questa iperdemocraticizzazione che risulta un fatto dannosissimo per tutta la filiera dell’arte...

Per concludere, per il suo ritorno a Roma ci sono delle particolari aspettative da parte sua?
A Roma ho esposto pochissimo, tanti anni fa, da Plinio De Martiis e da Sperone. Le mostre mi affaticano, le faccio perché è bene farle, gli artisti soffrono di crisi di panico e di angoscia durante le inaugurazioni. L’artista convive nel suo studio con vari problemi, forse quando uno è giovane sono importanti, poi non ti cambiano la vita, tranne se qualcuno ti tira i pomodori sui lavori, c’è una tale circolazione espositiva che non so se è un bene o un male: in effetti bisognerebbe fare meno personali.

Cosa sopravvive dell’opera di Calzolari e di grandi artisti che hanno guardato al lavoro considerando il quotidiano una poesia da rendere oggettuale?
Spero la curiosità, un silenzio, un sussurrarsi emotivo. Sopravviverà qualche cosa... è un po’ presto per poterlo dire.

Pier Paolo Calzolari è nato a Bologna nel 1943.


Evento in corso:
Pier Paolo Calzolari, Nature morte
A cura di A. Bonito Oliva
Il Ponte Contemporanea
via Monserrato 23, Roma
Info: 06 68801351
18 ottobre - 15 dicembre 2007