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Art'O (2005-2009) Anno 10 Numero 24 autunno-inverno 2007



Il critico come etnografo?

Viviana Gravano

Il posizionamento nella scrittura da Santa Fé ad Hal Foster



cultura e politica delle arti sceniche


Art’o numero ventiquattro
Ottanta
_cultura e politica delle arti sceniche

PRIMA PAGINA
Ottanta 1

GEOGRAFIE
I dolci anni del disincanto
Un’introduzione alla scena degli anni ottanta
di Gianni Manzella 4

1980 Ein Stück von Pina Bausch
di Susanne Franco 10

Il critico come etnografo?
di Viviana Gravano 18

Paesaggi artificiali e opere astratto-geometriche
Uno sguardo sulla trilogia d’esordio del Teatro Valdoca
di Piersandra Di Matteo 24

Frigidaire, un giornale fatto in un certo modo
di Fabio Acca 32

L’arca perduta dell’underground bolognese
Conversazione con Giampiero Huber e Giorgio Lavagna su Traumfabrik blowup
di Monica Nannini 40

Ecce Robot! Cronaca di un’invasione
di Daniele Timpano 48

Replay o Re-play?
Su Christian Marclay e D. A. Pennebaker
di Elfi Reiter 52

Gregor Samsa è vecchio
di Annalisa Sacchi 58

Per un’archeologia del gesto
di Enrico Pitozzi 64

L’altra notte in fondo al mare
Un atlante concettuale su Enduring Midnight di Francesca Grilli
di Jacopo Lanteri 68

Fra quelli di Bergman: grandi attori da vecchi
di Vanda Monaco Westertåhl 74

DEC-ROOM
Teodora Castellucci 83

DARK ROOM
di Fabio Acca 87
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

My Complement, My Enemy, My Oppressor, My Love. Kara Walker
Giulia Grechi
n. 28 autunno 2009

Teatro Superstite
Marco Pustianaz
n. 27 primavera-estate 2009

Il teatro della memoria futura
Annalisa Sacchi
n. 26 autunno 2008

Deep Trance Behavior in Potatoland di Richard Foreman
Giulia Palladini
n. 25 primavera 2008

Alla ricerca del gesto perduto
Gianni Manzella
n. 23 primavera 2007

Da Slumberland al Parador
Monica Nannini
n. 22 inverno 2006


Samuel Fosso
Tati. Autoportraits, 1997
Courtesy Centre Georges Pompidou

Jimmie Durham
Malinche, mixed media
Museum van Hedenaagse Kunst
Ghent, 1988-1991

Nel 1984 la School of American Research di Santa Fé, in New Mexico, ospita un seminario-incontro tra dieci studiosi che discutono le questioni legate alla costruzione del testo etnografico.
Gli interventi di tutti i partecipanti – G.E. Marcus, J. Clifford, M.L. Pratt, V. Capranzano, R. Rosaldo, S.A. Tyler, T. Asad, M.M.J. Fischer, P. Rabinow – sono riportati in un volume, curato dagli stessi Marcus e Clifford, pubblicato dalla University of California Press(1), che esce nel 1986 provocando un vero e proprio terremoto, non solo in ambito antropologico, ma più generalmente in una parte dei Cultural Studies. Ciò che mi interessa mostrare è come queste riflessioni, partite da un ambito disciplinare ben preciso e accademico, fondamentalmente compreso tra antropologia e etnografia, abbiano potuto di fatto modificare in modo radicale la visione delle arti, della critica d’arte e della scrittura possibile sulle arti. Una serie di testi e di posizioni hanno riesaminato il mondo visuale con uno sguardo diverso, filtrato dalle considerazioni nuove che questo libro, con tutti i suoi limiti, e i suoi attuali superamenti, ha indubitabilmente aperto sul rapporto tra il punto di vista del colonizzatore e quello del colonizzato, che ha determinato la cultura di gran parte del mondo almeno dal XV secolo in poi. Il rapporto tra intellettuale e “mondo” resta un tema centrale della nostra contemporaneità, e la necessità di un posizionamento chiaro, ri-soggettivizzato, all’interno della scrittura “dell’altro”, ha costretto, a cascata, anche la critica e la scrittura sull’arte (ma anche l’arte stessa, usando questa parola ovviamente al di là di qualsiasi distinzione disciplinare) a una revisione del suo ruolo in epoca post-coloniale. Non a caso molti degli studi postcoloniali contemporanei(2) sono partiti proprio dalla rilettura di opere d’arte e, più in generale, del mondo della rappresentazione estetica, che è stata compagna di strada dell’affermazione radicale del potere coloniale, tanto quanto è oggi forte ripetitore delle istanze delle letture post-coloniali.

L’introduzione al volume, a firma di James Clifford, porta il sottotitolo di verità parziali, e mette nell’incipit una citazione di Roland Barthes che definisce l’interdisciplinarietà non come una nuova pratica tra discipline, ma piuttosto come la capacità di creare un “oggetto che non appartiene a nessuno”(3).
Questi due primi elementi propongono due focus centrali: l’impossibilità di produrre una scrittura “oggettiva”, documentaria, su qualsiasi oggetto di studio, e la definizione di cosa sia un “oggetto” di studio. Parlando dei saggi riportati nel libro, Clifford dice a proposito degli autori : “Il loro interesse per la costruzione del testo e la dimensione retorica vuole porre in evidenza la natura costruita e artificiale delle descrizioni culturali, mette in crisi i modelli più palesi di autorità e pone l’attenzione sul cruccio storico dell’etnografia, il fatto cioè che quest’ultima ha sempre a che fare con l’invenzione delle culture, e non solo con la rappresentazione”(4).
In altre parole, la scrittura compie sempre e comunque un lavoro di traduzione che porta con sé almeno tre soggetti parlanti, nelle descrizione di qualsiasi forma culturale: l’oggetto prodotto (che sia un rituale collettivo o un’opera individuale), l’autore (che sia un gruppo o un singolo) e lo scrittore che ne scrive. Questa è la prima rivoluzione sistematica che realizza il seminario di Santa Fé: scrittura/scrittore sono soggetti attivi nell’interpretazione, e quindi, per definizione stessa, produttori di verità parziali e mobili, determinate e ridefinite da un continuo possibile riposizionamento. Non solo quindi l’oggetto di studio è in realtà un soggetto che parla di sé, e parla del suo stesso osservatore, ma l’osservatore non può che essere parziale – sia nel senso che sceglie in che punto posizionarsi, sia nel senso che dice qualcosa che non è mai esaustivo – ma a sua volta, paradossalmente, è lui stesso l’oggetto/soggetto di studio di se stesso. Poco oltre, ancora nella stessa introduzione, Clifford fa cenno al fatto che l’etnografia, cioè la scrittura sul campo, il “luogo”(5) culturale che, secondo una visione classica, è destinato alla raccolta “oggettiva” dei dati, “Descrive processi di innovazione e di strutturazione, ed è essa stessa parte di quei processi”. La scrittura deve quindi sottoporre ad autocritica le proprie categorie, in quanto anch’essa sottoposta a un continuo processo di (auto)-ri-definizione determinata dal suo ruolo di elemento interno all’oggetto di studio.

Torniamo per un attimo all’incipit tratto da Barthes: Clifford vuole spostare il fulcro del suo approccio dall’appartenenza del ricercatore (disciplinare, accademica, di formazione) all’oggetto/soggetto della ricerca che diviene uno spazio in between, dove non si annullano le competenze specifiche, ma si supera naturalmente l’“appartenenza” disciplinare, di fronte alla necessità di un posizionamento poetico/politico. In altre parole, se prima di Santa Fé il punto di partenza della ricerca poteva essere connesso a una precisa branca di studio, di ambito disciplinare, ora il punto di partenza è uno “spazio"(6) concettuale nel quale confluiranno le diverse visioni di uno stesso soggetto/oggetto di studio, che non sarà di pertinenza specifica di nessuno, perché produrrà in ciascun soggetto/ricercatore una propria visione, che si creerà e si modificherà proprio in con-presenza con l’oggetto/soggetto di studio. La storia dell’arte è costellata di racconti, a sfondo biografico-celebrativo, di incontri cruciali tra artisti e critici, scrittori, teorici e così via. Non è questo il punto, non è la costruzione di una certa intimità tra un “oggetto di studio” e il suo interprete, il suo traduttore, ma è la considerazione che l’incontro tra i due possa creare un terzo spazio/oggetto, che non appartiene né all’uno né all’altro. Potrei citare due esempi, per me cruciali e anticipatori, di questa idea: il libro di Gilles Deleuze Francis Bacon. Logique de la sensation(7) e tutto il lavoro di Aby Warburg, riassumibile nell’Atlante Mnemosyne(8). Del primo vorrei citare poche righe di premessa al volume che scrive lo stesso Deleuze: “Ciascuna delle rubriche che seguono considera un aspetto dei quadri di Bacon, in un ordine che va dal più semplice al più complesso. Tale ordine è però relativo, e ha senso unicamente nella prospettiva di una logica generale della sensazione”(9).
Dove già si enuncia che il soggetto/oggetto del lavoro non è una lettura dell’opera di Bacon, ma lo scontro/incontro tra le opere dell’artista e le idee di Deleuze, sul ring comune del concetto di sensazione. La stessa sistematizzazione della scrittura, “dal più semplice al più complesso”, è giocata secondo la logica “relativa” alla sensazione. Deleuze non solo non si preoccupa di definire un “percorso” esplicativo all’interno dell’opera baconiana, ma fa in modo che siano le sue opere pittoriche a discutere la logica della sensazione del filosofo francese.

Per quanto riguarda invece Warburg, qui intendo proporre solo un cenno alla logica che impronta l’Atlante, così come, in generale, la sua metodologia di studio. Warburg costruiva delle lavagne nere sulla quali affiggeva fotografie (che spesso scattava lui stesso, e questa sottile analogia con il lavoro di documentazione fotografica dell’etnogafo-scrittore-fotografo in quegli stessi primi decenni del novecento mi affascina molto) di dettagli di opere d’arte, ma anche di foto di cronaca sua contemporanea, creando degli arcipelaghi, dei sistemi interpretativi piuttosto che delle letture definitive. Inoltre, molta parte della ricerca era volutamente condivisa con gli allievi ricercatori, e sottoposta a una revisione continua. Tant’è che, ad oggi, l’Atlante è pubblicato in schede, in modo da sottolineare questo valore ri-combinatorio della sua struttura metodologica. Ciò non conduce affatto all’arbitrio, ma alla costruzione di uno spazio nel quale i collegamenti, la rete dei significati e la logica delle connessioni, non appare mai come definitiva ma sempre fluttuante, al punto da rendere interessante quello spazio interstiziale nero, che si viene a creare sulle lavagne tra un’immagine e un’altra(10).
Ipotizzo dunque che nella scrittura visuale di Warburg si possa leggere un’anticipazione dell’idea di “creare un oggetto che non appartiene a nessuno”, proprio nella sua “invenzione” di una scrittura che vorrei definire “performativa”.

Tornando a Clifford e a Santa Fé, credo che proprio lì si possa ritrovare la radice iniziale di questa idea di scrittura performativa. Clifford definisce il concetto di finzioni, proponendo lui stesso la parola in corsivo, per toglierla subito dal suo significato letterale. Si preoccupa quindi di dire finzione non nel senso di qualcosa di falso, ma piuttosto di qualcosa che ha a che vedere con l’invenzione, con il “creare cose che non sono propriamente vere”(11).
Qui Clifford chiarifica come già i soli espedienti retorici, le metafore e le descrizioni “oggettive”, siano totalmente segnate dalle scelte preconcette e sanamente soggettive del narratore/relatore, il quale racconta indubitabilmente secondo una propria logica di appropriazione, e secondo una restituzione culturale ed emotiva, quanto “osservato”. Dove conduce questo concetto di finzioni è subito chiaro in una frase, che oggi, a vent’anni di distanza appare quasi vagamente ingenua, e persino in parte già ridiscussa, ma che allora ha avuto un ruolo davvero rivoluzionario, e ripeto non solo per l’antropologia e l’etnografia: “Le verità etnografiche sono quindi intrinsecamente parziali: di parte e incomplete.”(12)
Questa affermazione ha scosso il senso del ruolo di molti studiosi che hanno visto vacillare la loro “credibilità”, a lungo confusa con il potere coercitivo e descrittivo. Appare evidente come il seminario di Santa Fé grida una realtà a lungo bisbigliata, ma mai scritta nero su bianco: la rappresentazione dell’altro – che quest’altro sia un’intera cultura o la singola opera di un individuo – non può essere il risultato di una lettura oggettiva, dove l’osservatore/scrittore e il suo soggetto di ricerca vivono una condizione in cui il secondo è assoggettato alle percezioni del primo. Ancora oltre, e inversamente, lo stesso soggetto osservante è continuamente “osservato” dal suo soggetto di studio e da se stesso nel momento in cui, scrivendo, vede la sua ombra proiettata sulla scena descritta(13).

Vorrei ora citare un’opera di Coco Fusco e Guillermo Gomez Peña che credo possa servire come filtro di passaggio tra le riflessioni proposte fin qui e le conseguenze che queste hanno portato negli anni novanta, e continuano a portare a tutt’oggi. Coco Fusco ha conseguito il Bachelor of Arts in Literature and Society and Semiotics alla Brown University nel 1982: il suo si può dire sia, quindi, un approccio assolutamente teorico, anzi collocato in quel demanio di natura interdisciplinare che è la semiotica. Nel 1992 insieme all’artista visivo Gomez Peña, realizza la performance Undiscovered Amerindians(14), durante la quale i due si chiudono in una gabbia, (rap)presentandosi come due indiani Guatinauis: “Gomez-Peña was dressed in an Aztec style breastplate, complete with a leopard skin face wrestler's mask. Fusco, in some of her performances, donned a grass skirt, leopard skin bra, baseball cap, and sneakers. She also braided her hair, a readily identifiable sign of “native authenticity.” Durante la performance una guardia dà loro banane, mentre diversi cartelli, appesi alla gabbia, riportano frasi rassicuranti sulla loro bontà, e sulla loro adattabilità al mondo occidentale. Quest’opera si inscrive in una serie di lavori realizzati dall’inizio degli anni novanta che rendono visibili e scandagliano le teorie postcoloniali. Potrei quindi citarne molte altre simili, ma questa in particolare manifesta una precisa peculiarità: Coco Fusco non viene da studi artistici, non è un’artista visiva, semmai è più una semiotica/sociologa. La messa in esposizione del suo stesso corpo appare quindi come un gesto che va ben oltre un utilizzo “spregiudicato” dell’interdisciplinarietà, ma comporta una scelta radicale, direi epocale, di messa in gioco della propria fisicità, in una scrittura teorica performativa. Alcuni anni dopo, nel 1998, Jimmie Durham, con Self-Portrait, riproporrà il tema dell’autorappresentazione realizzando un se stesso/feticcio, costruito secondo tutti gli stereotipi della rappresentazione del cheroke – quale lui è – compiuta dagli occidentali. In ambedue le opere diventa evidentemente fondamentale il concetto di autorappresentazione, rapportato all’inversione della descrizione dell’altro imposta dal pensiero coloniale. Il racconto del proprio vissuto in relazione e attraverso il vissuto di altri è, per un certo verso, una delle sigle nate dalle conseguenze di Santa Fé nella scrittura critica ed etnografica, e per un altro verso, è anche il crinale di pericolo dell’identificazione totale, della perdita di collocazione e posizionamento. Questo credo sia un tema centrale dell’oggi a cui arriverò tra un attimo passando attraverso il saggio The return of the real di Hal Foster. Tornando a Coco Fusco, in una presentazione del suo lavoro in Italia nell’ambito di Facts and Fictions(15), lei stessa definisce il senso della sua scelta performativa come “reverse ethnography” (capovolgimento etnografico), inteso come un processo che si sviluppa in presenza del pubblico, quindi si nutre e si evolve davanti alla sua reazione. L’esporsi non è quindi un atto dichiarativo, semmai un atto problematico, che pone il teorico nella necessità di esporre il proprio corpo come oggetto di studio all’interno di una finzione. Coco non è un’indiana che mostra se stessa per affermare la propria “appartenenza” utilizzando una forma di autorappresentazione performativa, ma è una ricercatrice newyorkese che indossa un’etnia che non le appartiene, potendo così sia rappresentarsi che vedersi rappresentata. In atre parole materializza la condizione generale della scrittura etnografica e della scrittura critica dopo Santa Fè: identificarsi con l’altro per potersi mostrare nei suoi panni restando nel proprio corpo, con tutti i rischi e gli sviluppi di questo processo. E proprio da questo punto estremamente problematico dell’identificazione, da possibile a ossessiva, con l’altro, parte la riflessione del teorico dell’arte Hal Foster. The return of the real(16), scritto nel 1996, dedica gli ultimi tre capitoli all’analisi della relazione tra arte ed etnografia, sollevando questioni derivate dagli sviluppi degli anni ottanta di cui ho fin qui parlato, che aprono da un lato prospettive ulteriori in quella direzione, e dall’altro scoprono apertamente i nervi di tutti i pericoli più gravi nati e cresciuti da quel pensiero. Nel paragrafo dedicato a La cultura politica dell’alterità, Foster solleva in primo luogo la questione di una sorta di monopolio della auto-rappresentazione, di nuovo “affidata” all’altro in quanto tale. Cioè a dire: il rischio di riconoscere la possibilità della rappresentazione dell’alterità solo per voce e per bocca dell’alterità stessa identificata in generale come subalternità: “(…) se l’artista in causa non è percepito come socialmente e/o culturalmente altro, lui/lei ha solo un accesso limitato a una simile alterità trasformativa, mentre se è percepito come altro, vi ha accesso automatico”(17).
Infatti nei decenni seguiti a quel seminario del 1984, uno dei rischi che ha ripetutamente sfiorato l’etnografia e l’arte a questa connessa, è stato una sorta di nuova identificazione forzata nella quale il “nativo”, il subalterno, l’altro, prende diritto di parola in quanto tale e diviene così di nuovo lo stereotipo di se stesso, tornando a essere una costruzione aprioristica che, forte dei suoi diritti di parola “a prescindere”, si fossilizza in un’identità universalistica deterritorializzata di appartenenza: l’alterità. Basti pensare a quanta demagogia contemporanea tenta di definire categorie come “i poveri della terra”, o i “paesi altri” e così via, nell’apparente tentativo di far emergere il sommerso, ma in realtà nel palese intento di definire nuovamente la differenza attraverso un solo punto di vista. Foster insiste molto su questo punto e suona un campanello d’allarme anche per gli artisti che a suo avviso possono cadere in questo gioco di ruoli (specie nella cosiddetta Public Art o Relationship Art) trovandosi a essere tanto nativi quanto etnografi e informatori. In altre parole, la politica dell’altro, “prima connotato e poi appropriato”(18). Con grande lucidità Foster infatti conclude: “Non c’è dubbio che la proiezione del sé nell’altro sia fondamentale per una pratica critica dell’antropologia, dell’arte e della politica. Con dinamiche come quella surrealista, con l’uso dell’antropologia come autoanalisi (come in Leiris) o con la critica sociale (come in Bataille) questa proiezione diventa culturalmente trasgressiva, persino politicamente significativa. Chiaramente ci sono anche dei pericoli perché, allora come adesso, la proiezione del sé nell’altro può diventare improvvisamente automatica, e il progetto di un’“auto-determinazione etnografica” può diventare la pratica di un narcisistico accomodamento”. L’ultima questione, tra le molte interessanti, che mi sembra importante recuperare dal saggio di Foster, è il problema della “distanza critica”: cioè la capacità di non cadere nella totale identificazione con l’oggetto di studio, e nello stesso tempo la possibilità del critico/etnografo di proiettare il proprio sé all’esterno. Problema centrale nella teoria postcoloniale, da Franz Fanon in poi, specie per l’intellettuale “nativo”, che deve trovare la giusta distanza dal potere coloniale come dal suo passato “nativo”. Ma lo stesso problema si pone evidentemente per l’intellettuale occidentale, che deve pur superare il senso di colpa coloniale senza rischiare l’identificazione piatta e insensata con l’oggetto/soggetto “altro” di studio. Scrive ancora Foster: “In modi diversi la distanza è il vero enigma del soggetto per quanto riguarda la sua immagine corporea, i suoi altri culturali e le sue protesi tecnologiche. È anche il vero enigma del soggetto rispetto alla sua teoria critica, che spesso dipende da una distanza intellettuale dal suo oggetto” . La maggiore questione ereditata da quei mitici anni ottanta dei Cultural Studies, che si pone alla nostra contemporaneità in maniera a mio parere ancora irrisolta, è quindi proprio la negoziazione determinante, e a tratti violenta, tra ciò che è la risoggettivizzazione tanto dell’oggetto di studio quanto dello studioso stesso. Per chiudere, ancora con le parole tratte da The return of the Real: “La distanza critica non è prevedibile e deve essere ripensata; non è per niente utile lamentare e celebrare la sua morte presunta. Spesso coloro che si lamentano immaginano un momento mitico di pura critica, mentre coloro che lo celebrano vedono la distanza critica come un ottimo congegno di camuffamento”.
In questo sfilacciato territorio contemporaneo, sia quello visuale dell’arte, sia quello della scrittura, resta fondamentale la questione etica del posizionamento, dal momento che mi sembra sia divenuta una necessità dell’oggi, più che una caratteristica del postcoloniale.

1 J. Clifford, G. E. Marcus, Writing Culture: Poetics and Politics of Ethnography, The Regents of the University of California, University of California Press 1986 (trad. it. Scrivere le culture, Meltemi editore, Roma 1997), p. 20.
2 Sarebbe troppo difficile citare tutti gli studiosi che lavorano in questa direzione, ma potrei indicare alcuni punti di riferimento di un approccio visuale che condivido a pieno: Stuart Hall, Okwui Enzewor, Carlos Basualdo, Renato Rosaldo, Fiamma Montezemolo e, di Massimo Canevacci, Sincretismi, Costa & Nolan, Milano 2004 e Antropologia della comunicazione visuale, Meltemi, Roma 2001.
3 J. Clifford, G. E. Marcus, cit., p. 25.
4 Ivi, p. 26.
5 Vorrei qui usare questo termine nella definizione che ne dà Michel de Certeau: “Vale quindi la legge del ‘luogo proprio’: gli elementi considerati sono gli uni a fianco degli altri, ciascuno situato in un luogo ‘autonomo’ e distinto che esso definisce. Un luogo è dunque una configurazione istantanea di posizioni. Implica un’indicazione di stabilità”. M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2001, p. 175.
6 Ancora citando de Certeau: “Si ha uno spazio dal momento in cui si prendono in considerazione vettori di direzione, quantità di velocità e la variabile del tempo. Lo spazio è un incrocio di entità mobili. È in qualche modo animato dall’insieme dei movimenti che si verificano al suo interno. È spazio l’effetto prodotto dalle operazioni che l’orientano, lo circostanziano, lo temporalizzano e lo fanno funzionare come unità polivalente di programmi conflittuali o di prossimità contrattuali”. Ibidem.
7 G. Deleuze, Francis Bacon. Logique de la sensation, La Différence, Paris 1981 (trad. it. Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 1995).
8 Devo qui un ringraziamento sentito: la mia rinnovata passione per la figura geniale di questo pensatore, che avevo studiato nei lontani anni universitari, la devo ad Annalisa Sacchi. Le vicende editoriali dell’Atlante di Warburg sono molto complesse quindi citiamo, per i lettori italiani, solo l’ultima traduzione e raccolta sistematica: Aby Warburg, Mnemosyne: l’Atlante delle immagini, a cura di M. Warnke, con la collaborazione di C. Brink, edizione italiana a cura di M. Ghelardi, Nino Aragno editore, Torrino 2002.
9 G. Deleuze, cit., p. 6.
10 Questo argomento sarà sviluppato in un mio saggio ospitato nel libro di prossima pubblicazione, curato da me e dall’antropologa Ana Maria Forero (della Cattedra di Antropologia della Facoltà di Scienze della Comunicazione di Roma), che discuterà il concetto di costruzione pubblica dell’identità nell’ambito della rappresentazione (dal Museo al Romanzo Nazionale), attraverso una raccolta di saggi di studiosi internazionali.
11 J. Clifford, G. E. Marcus, cit., p. 30.
12 Ivi, p. 32.
13 In proposito si noti come nelle fotografie antropologiche tra il XIX e il XX secolo, anche in condizioni di luce molto forte, non appaia mai l’immagine dell’ombra del fotografo, quasi a voler volutamente cancellare la presenza umana del “registratore”, come se la macchina della verità, la macchina fotografica, non avesse dietro un “autore”. È stata Giulia Grechi (giovane antropologa studiosa di Postcoloniale e arti visive della Cattedra di Antropologia della Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Roma) a indicarmi questo fenomeno e le riflessioni ad esso connesse.
14 La performance ha debuttato alla Plaza Colombo, a Madrid, in Spagna, nell’ambito dell’evento Edge ‘92 Biennial, organizzata per il cinquecentenario del vaggio di Cristoforo Colombo verso il Nuovo mondo. La performance è stata poi ospitata al Covent Garden di Londra, al National Museum of Natural History, allo Smithsonian di Washington D.C., al Field Museum di Chicago, al Whitney Museum's Biennial a New York, all’Australian Museum of Natural History e infine in Argentina, su invito della Fundacion Banco Patricios a Buenos Aires.
15 R. Pinto, La generazione delle immagini, Postmedia, Milano 2003, p. 76.
16 H. Foster, The Return of the Real The Avant-Garde at the End of the Century, Massachussets Institute of Technology, Cambridge 1996. Trad. it. Il ritorno del reale. L’avanguardia alla fine del Novecento, Postmedia, Milano 2006.
17 Ivi, p. 177.
18 Ivi, p. 179.
19 Ibidem
20 Ivi, p. 227.
21 Ivi, p. 229.