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Art'O (2005-2009) Anno 12 Numero 27 primavera-estate 2009



Teatro Superstite

Marco Pustianaz



cultura e politica delle arti sceniche


PRIMA PAGINA
Il teatro naturale di Oklahoma o del futuro 1

FUTURO PROSSIMO

Con le mani piene di fantasmi
di Joe Kelleher 4

Teatro superstite
di Marco Pustianaz 13

(Il futuro della) democrazia in America:
l’utopia come esercizio di possibilità
di Giulia Palladini 22

Conversazione con Annie Dorsen
di Giulia Palladini 30

Al teatro dell’uomo, tra natura e cultura
di Chiara Cappelletto 33

Anatomies: nuove geografie della percezione
Conversazione con Marie-Claude Poulin e Martin Kusch di Kondition Pluriel
di Enrico Pitozzi 39

Pensare in video: realtà e finzione
per un nuovo linguaggio visivo-sonoro.
Appunti dal cinema cinese
di Elfi Reiter 47

China goes parametric
Strategie avanzate per la reinvenzione di un’identità urbana conemporanea
di Annarita Papeschi 52

FUTURO ANTERIORE

Passioni inferni
Dislocazioni temporali della scena
di Gianni Manzella 66

Fuit hic: per un’archeologia del futuro
di Viviana Gravano 75

Dead-end
Ovvero: il teatro come alibi perfetto per perdere la traccia della società
di Tiago Bartolomeu Costa 80

Trarre da ogni cosa un auspicio, fare di ogni evento un oracolo
Per un teatro profetico
di Annalisa Sacchi 85

Vittoria sul sole. Apologia del presente
di Erica Faccioli 92

EXPANDED ROOM
Santasangre 99

DARK ROOM
Può esistere un teatro pop? (Grotowski è come Britney Spears?)
di Fabio Acca 109
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

My Complement, My Enemy, My Oppressor, My Love. Kara Walker
Giulia Grechi
n. 28 autunno 2009

Il teatro della memoria futura
Annalisa Sacchi
n. 26 autunno 2008

Deep Trance Behavior in Potatoland di Richard Foreman
Giulia Palladini
n. 25 primavera 2008

Il critico come etnografo?
Viviana Gravano
n. 24 autunno-inverno 2007

Alla ricerca del gesto perduto
Gianni Manzella
n. 23 primavera 2007

Da Slumberland al Parador
Monica Nannini
n. 22 inverno 2006


Tim Etchells
Empty Stages, 2006
Foto: Hugo Glendinning

Compagnie Felix Ruckert
Secret Service, 1998
Foto: Ivan Kralj

Doris Salcedo
Shibboleth, 2008
Foto: Marco Pustianaz

Evocare teatri del futuro e in un tempo futuro è un gesto a cui preferirei sottrarmi in queste pagine. Vorrei sottrarmi a un gesto proiettivo legato a una promessa di conoscenza prima del tempo. Anticipare il futuro sarebbe come venirgli dopo e sopravanzandolo garantirci una persistenza che consuma e depreda l’a-venire.
Evocare teatro guardandolo al tempo futuro, piuttosto che essere azzardo audace e necessario, significa perderlo di vista nella sua evenienza. Significa tradurlo come sempre in un registro scopico, in questo caso telescopico. Sarebbe come perdere teatro, e ugualmente sarebbe come perdere futuro, iniziando già da ora a consumarne la scena.
Produrremmo riconoscimento di noi stessi in una scena futura e anteriore senza ammettere la chance di perderci di vista. Il futuro sarebbe sempre con noi, e noi con lui. Come spettatori in un teatro. Gettare uno sguardo proiettivo dispone e allestisce una prospettiva che replica, amplificandola, una nozione spettatoriale che diamo per scontata quando parliamo del teatro come di una scena che ci fronteggi, che è, è stata, sarà stata dinanzi a noi. Porre la scena come oggetto dinanzi a noi e precedente o anteriore a noi, visione osservabile solo qui e solo ora, agevola una reificazione del discorso teatrale legata a un oggetto presente e una concezione spettatoriale che elude la temporalità non lineare dell’evenienza di teatro e la vibrazione affettiva, non solo oculocentrica, di chi è detto “spettatore” (1).

Sì, potremmo guardare ancora una volta al teatro, ma non al tempo futuro. Magari secondo un tempo incompiuto e ancora una volta rimemorato così che possiamo parlarne e mostrarlo, continuando nondimeno a perderlo di vista. La questione spazio-temporale del teatro, la sua fenomenologia disallineata, il fatto che nessuno dei suoi tempi o luoghi o soggetti possa dirsi pienamente compiuto, sono questioni troppo importanti per consegnarle a un presente, passato o futuro puramente cronologici.
Mi interessa rimemorare una scena in eccesso dove qualcosa sta ancora succedendo, e tuttavia mai la stessa cosa. Un “evento” che continua a proporsi e che ho chiamato evenienza: un evento senza l’orizzonte o la promessa di un oggetto. Tale evenienza è certamente sia attorale che spettatoriale, ma se qui paio sottrarmi alla prima è perché l’evenienza spettatoriale è usualmente disattesa, testimonianza non testimoniata, teatro segreto produttivo di immagini e memorie talmente altre che sembra non appartengano più al teatro.

Preferirei differire il teatro del futuro affinché l’evenienza non venga ancora archiviata per me “spettatore”, perché il suo più facile silenzio e invisibilità non renda più muti e ciechi gli archivi spettrali del teatro. Guardando ancora una volta la scena ormai vuota so che la scena non è finita, che c’è un resto di teatro che del teatro è condizione di imminenza.
Esso potrebbe finire soltanto a patto che la sparizione ufficiale dello spettacolo, il suo “compimento”, disconosca una evenienza che continua a prodursi, che ha le sue memorie, può avere le sue scritture-immagine. Se è vero che non preservano specificamente alcun teatro, esse non possono comunque esserne cancellate.
Guardando e sentendo noi che abbiamo sentito e guardato, il testimone superstite differisce una scena necessaria che sottende il tempo istituzionale dell’evento. Una durata dell’evenienza che ritorna su se stessa, inesorabilmente altra.

Quale altro futuro più desiderabile se non quel resto non esaurito di teatro? Risituare la memoria di teatro dove non appartiene più, questo è il gesto metonimico che cercherò di produrre: con tre fotografie.
Se l’iconografia che ne risulta dissipa forse il teatro in tracce indefinibili o intrattabili, io penso che la teatroscopia che va a formarsi sia il negativo necessario per contrastare l’oggettivazione del teatro, il suo feticismo dello spettacolo.
Guardare dove si è già visto non è un gesto nostalgico. Guardare il vuoto della scena non equivale a negare la presenza di teatro. Le tre immagini che chiamo qui a testimoni contestano l’apparente sparizione del teatro; ne rimandano la testimonianza alla scena superstite dove qualcuno non cessa di essere spettatore. Finché ci sarà uno spettatore ad agitare memorie nessuna scena potrà dirsi compiuta, e il futuro continuerà a essere differito. In fondo, anche il teatro superstite ha la sua strumentazione scopica: quella affettiva e vibrante di un’immagine residua (afterimage)(2).

GUARDAR GUARDARE

L’installazione di Doris Salcedo nella Turbine Hall della Tate Modern a Londra non offre nulla allo sguardo se non una faglia che taglia a zigzag il terreno per una lunghezza di oltre 170 metri (3). È un sito cri(p)tico e cavernoso che non presenta attori né azioni, solo una scena inaugurata da un taglio. Recante il nome (celaniano e derridiano) di Shibboleth (4) questo spazio solcato è leggibile in modo produttivo soltanto come spazio dell’interrogazione.
Quando è stato riprodotto come oggetto installativo nelle fotografie del catalogo ufficiale (5), Shibboleth appare piuttosto come scena già consumata, come un evento che già si è dato e null’altro promette. Perciò chi ne osservi la documentazione non può fare a meno di sentirsi mancato testimone. Eppure, dal momento che l’installazione è stata fotografata prima dell’apertura al pubblico, essa è al contrario una scena aperta, o meglio in attesa. Visitandola e risolcandola il suo senso si fa e si disfa al passaggio di centinaia di migliaia di “spettatori”.
Tali visitatori e io in mezzo a loro saggiamo il terreno aperto dal suo segno gigantesco – indice di un sisma, segno della differenza, alveo di un tracciato. Tentando di cogliere dove sia l’oggetto che ci chiama non facciamo che fotografare. Più fotografiamo lo spazio della faglia per catturare alla cieca “qualcosa”, più lo spazio si satura di registrazioni e trasforma gli spettatori in documentatori mobili.
L’ubiquità degli apparecchi di registrazione digitale produce una meta-documentazione che inscrive il nostro guardare in una rete di altro guardare e secondo una disposizione affettiva che muove il nostro corpo ed eccede la mera visione (6). Vagando per una scena evacuata dall’artista gli spettatori troveranno soltanto altri spettatori e guardandoli, ri-prendendoli, guarderanno anche il proprio guardare.

Il taglio produce una circolazione, un desiderio inappagato che si riverbera nell’assenza di un oggetto determinato. La scena tagliata promette e differisce l’apparizione di senso. Perciò, guardando, dobbiamo muoverci... Sinché il giorno 4 novembre 2007 mi blocco.
Alla ricerca come tutti del mio oggetto (del mio shibboleth)(7) il cammino si fissa insieme con il mio sguardo. Tra tutti gli accadimenti che punteggiano questo spazio senza evento, ce n’è ora uno che aggancia un’evenienza che è anche la mia. La mia mano destra prende in mano l’occhio digitale del cellulare per riprendere un giovane inginocchiato per terra, la cui mano sta esplorando cautamente l’interno della fessura.
Tra i molti atti intorno a me questo ha fermato la mia attenzione. Forse a causa della postura del giovane, o della sua assoluta, privata concentrazione. Forse a causa della sua mano. Non è forse il suo un gesto incredibilmente intimo, compiuto pubblicamente senza curarsi né della vulnerabilità evidente del suo corpo né dell’osceno sfioramento di quel bordo slabbrato? Del resto, che dire del mio, di gesto? In piedi accanto e al di sopra di lui, il dito ha premuto l’occhio digitale come se anch’esso fosse stato toccato dal tocco della mano altrui, appena dentro la faglia. Tale è l’affetto della sua genuflessione che l’ho dovuta catturare.
Ma in realtà con tutta evidenza è lei che ha catturato me. Il mio e il suo guardare e toccare, in reciprocità non speculare, si sono congiunti seguendo una sintassi oculodigitale che tende il nostro corpo in una attenzione assai differente da quella che ordinariamente attribuiamo a uno “spettatore”. Ho visto Shibboleth e ancora lo rivedo attraverso lo sguardo tattile di un visitatore che guardatocca piegato a terra. Perché vi sia presenza di uno sguardo e di uno sguardo su uno sguardo non è necessario che vi sia alcunché da vedere. Probabilmente sono più spettatore ora di allora, quando solcavo la scena salcediana.

La mia istantanea digitale a bassa risoluzione, ho scoperto poi, fa parte di un database assai più ampio di immagini e video che i visitatori di Shibboleth hanno accumulato nei sette mesi in cui l’installazione è rimasta aperta, prima di essere letteralmente “sigillata”. Parte di queste registrazioni è entrata in circolazione in rete” (8).
Rispetto alla documentazione ufficiale l’archivio documentario dei visitatori opera una preziosa, seppur terribile, disseminazione e destabilizzazione dell’unicità presunta dell’opera installativa. Preziosa perché mostra lo spazio salcediano in veste di sito ospitante altri atti performativi, tra i quali gli stessi atti di registrare, fotografare e documentare (9).
Terribile perché calpestando le tracce di Doris Salcedo “autrice”, la disseminazione documentativa le cancella e le riscrive, non più dalla parte dell’autrice, ma dalla parte dello “spettatore” registratore. Guardando le performance contemporaneamente rese visibili e attuate tramite la documentazione mobile Shibboleth emerge, anche ora che è stata ufficialmente chiusa, non come già installata ma come campo o scena di una significazione eveniente, in via di installazione.
Tale scena non può essere né ridotta a testo né essere catturata come oggetto visivo. Un discorso testuale o visivo servirebbe a instaurare una struttura di controllo a salvaguardia dell’autorialità di Salcedo e dell’autonomia della sua opera. Più interessante, allora, continuare a registrare questo spazio, anzi “spaziatura” (10). La Sala Turbine il cui terreno Salcedo ha scisso emerge come spaziatura poiché opera come precondizione affinché uno o mille spazi possano essere performati.
La cripta riverberante della spaziatura salcediana è performativa nel tenere in sospensione una possibilità efficace di evenienza. A confronto con la ricca bibliografia critica e con la documentazione del catalogo ufficiale le registrazioni e le immagini in rete dei visitatori appaiono an-archiche e spesso fallimentari: nel tentativo, ciascuno dei quali singolarmente fallito, di cogliere e catturare un senso o un oggetto che plachi il desiderio di vedere sì, ma vedere qualcosa, viene distrutta l’illusione di un senso originario che viene qui costantemente mosso, sfocato, rinominato, trivializzato e riappropriato.

Eppure, sparito e moltiplicato da una documentazione infedele all’originale, si può dire che Shibboleth non si limiti più a citare un’oscura poesia di Paul Celan: grazie ai suoi testimoni visitatori essa può divenire evenienza della “estranea madrepatria” di cui scrive la poesia. Tutte quelle immagini superstiti sono strumento e atto di una decostruzione felicemente non autorizzata.

GIÀ, PRIMA, ANCORA, DOPO

Tra scena e spettacolo sembra insinuarsi una lezione divergente di temporalità. Siamo già implicati nella presenza di una scena quando ancora lo spettacolo non è iniziato, quando stiamo andando incontro al teatro, allertati nell’attesa di una qualunquità emergente che forse emergerà davvero, per quanto intermittente. La scena dell’attesa precede con certezza il nostro ingresso nello spazio dell’evento così come quello dei cosiddetti “attori”.
Lo spettatore è nato come aspettatore e anche quando guarda non cessa mai di aspettare per sé qualcosa. L’accento sulla presenza attorale, per quanto importante da un certo punto di vista, è strutturalmente appoggiato a una concezione di umbratile presenza spettatoriale. Confinato a un cronotopo scenocentrico orientato dalla cornice temporale dell’evento, il qui e ora del teatro è pur sempre funzione di una presenza attorale che origina quella dello spettatore e di conseguenza il tempo presente della performance.
Compiendosi e sparendo ogni singola volta l’unicum del teatro ricreerebbe ogni volta un’ombra temporanea di comunità. Secondo il tempo di questo teatro una volta finito lo spettacolo lo spettatore cesserà di esserlo, ma non così l’attore, o non in modo così radicale.
Viene il dubbio che l’unicità del teatro si debba più all’unicità non replicabile del pubblico, alla sua ripetibile sparizione, che non a una propria intrinseca qualità di presenza. In ogni caso la sparizione dello spettatore, al pari dell’umbratilità della sua presenza, paiono essere condizione fondativa (ergo punto cieco, non denotato) per continuare a descrivere la pratica del teatro, contro ogni evidenza di chi lo fa e di chi lo vede, come se fosse costituita da una serie di finite singolarità.

Come si creano questi effetti selettivi di sparizione? Quale idea di teatro fissa lo sguardo sul suo farsi ma non sul farsi della sua visione, così da sigillare l’evento spettacolare in una dimensione temporale compiuta, un evento di cui la critica può di conseguenza produrre analisi e storicizzazione come se lo spettatore ne fosse esonerato? Il suo esonero dall’incombenza della scena è condizione non irrilevante per neutralizzare l’evenienza di teatro. Quel che è certo è che si tratta di un esonero carico di effetti e con dirette conseguenze: sulla memoria di teatro, sulle modalità e i generi del suo archivio, sul concetto di presenza e di presente (di chi? di che cosa?), sul non riconoscimento della performance spettatoriale.

In colloquio con Nick Kaye e Gabriella Giannachi, Tim Etchells di Forced Entertainment ha espresso la sua posizione sull’illusione di una pura presenza in termini che non si riferiscono solo a quella del performer sulla scena teatrale: “L’essere presenti è sempre in qualche modo costruito. Forse possiamo pensare alla presenza come a qualcosa che accade quando cerchiamo di fare una cosa. Nel tentativo di farla diventiamo visibili, visibili per il fatto che non vi riusciamo del tutto, visibili attraverso le crepe, le fessure […] Mi riferisco alle strutture sociali, ai codici di comportamento, agli spazi e alle aspettative della società.
In effetti a renderci visibili sono le molteplici stratificazioni, cornici o costruzioni che producono la nostra presenza in un determinato luogo”12. Se la presenza dell’attore è definibile come insieme di tecniche psico-corporee capaci di generare la compresenza dello spettatore in un cronotopo comune, la presenza di cui parla Etchells sembra originarsi in modo diverso, non dalla concentrazione assoluta su un luogo pieno di senso, ma a partire dalla decostruzione di una scena mai coincidente con se stessa, con effetti di sparizione e apparizione da cui derivano effetti di presenza.
I performer di Forced Entertainment si rendono presenti attraverso i vari modi di mostrarsi, di dire e di fare che essi sperimentano, come un catalogo possibile di finzioni. In questo senso sono le cornici a fare apparire i performer. L’artificio della presenza non è garantito né incentrato su ogni singolo attore. Si dà negli interstizi tra attore e attore, tra attore e (propria e altrui) parola, nelle zone grigie tra azione e rappresentazione, azione e non azione, in breve nei differenziali di scena.

Insieme con il fotografo Hugo Glendinning, Tim Etchells ha raccolto un’affascinante serie di fotografie di palcoscenici teatrali “vuoti”, o meglio di palcoscenici teatrali svuotati di spettacolo, di attori e di pubblico (13). Empty Stages fissa il proprio sguardo sul prima del teatro, quando tutto sembra pronto per accoglierlo, sulla latente durata tra uno spettacolo e l’altro, o sul dopo, sulle tracce materiali che testimoniano in silenzio il passaggio di un evento (14). Si tratta di palchi allestiti di ogni genere e per ogni sorta di evento. In assenza di spettacolo, osservano Etchells e Kaye nell’intervista sopracitata, la fotografia sembra cogliere un teatro sorpreso in potenza, come di cornice da riempire (15). Le fotografie di Empty Stages, in ritardo o in anticipo rispetto al cosiddetto evento, installano nella loro differenza rispetto al tempo interno al teatro una possibilità di visione che superficialmente potremmo considerare marginale, inessenziale, esterna, se non estranea al teatro. Esse non documentano alcun teatro in particolare.

D’altra parte, l’occasione di teatro perduta, (non) raffigurata, in queste immagini sembra accrescere la visibilità del dispositivo di scena, la presenza assente della potenzialità di teatro. Diventa visibile ciò che il successivo o precedente ingresso di performer e spettatori inevitabilmente ha occluso, vale a dire la struttura di conoscibilità dell’evento stesso, nonché la relazione di potere e di supplementarietà tra scena e platea.

Nella fotografia del palco allestito alla Highgate Wood School di Londra il posizionamento dell’obiettivo, a dispetto della fuga prospettica focalizzata sul modesto palcoscenico amatoriale, sbilancia lo sguardo verso lo spettatore che non c’è e rende percepibile la dominanza della platea: la massa delle seggiole in verde – spettro spettatoriale – sovrasta cromaticamente il palco lontano dove un pomposo sipario di velluto lascia intravedere una scenografia di cartapesta dipinta. La geometria regolare delle file di seggiole rende sì omaggio al punto focale della scena che (prima o dopo) terrà soggiogata l’attenzione dei giovani spettatori, ma almeno per il tempo di questa fotografia è il peso della platea a incombere, facendoci intuire quanto fragile sia l’illusione della performance e quanto essa dipenda dallo spazio “non denotato” (16) della platea e dall’occupazione spettrale di quelle sedie.
Le fotografie di Glendinning fanno slittare la durata dell’evenienza teatrale in un prima/dopo indefinito rispetto all’effettivo evento, aprendolo così a una memorazione possibile anche a chi non veda altro se non la scena latente e l’evento mancato. Guardando le vuote scene vediamo dei pieni che lo spettacolo e il suo discorso oscurano. Alla luce di questo teatro in potenza si rendono visibili gli spettatori, non i singoli irriducibili spettatori, ma la posizione dell’essere spettatore, nonché l’architettura politica di palco e platea che insieme fanno la scena.
A differenza della fotografia teatrale a cui siamo abituati, questa non è convenzionalmente una “fotografia di scena”, commemorativa e atta a eternizzare la presenza di questo o quell’attore. Obiettivo di questa tattica fotografica non è quello di installarsi dentro la macchina teatrale sino a esserne completamente assorbita e celebrarne un suo frammento, bensì insistere ai/sui suoi margini. Non ultimo di questi margini è la presenza dello spazio spettatoriale le cui rifrazioni percettive e affettive si giocano sull’assenza non meno che sulla presenza, sul già prima e ancora dopo di una scena che è sempre in qualche misura fantasmatica.

L’inserimento di un obiettivo fotografico (o digitale mobile) a teatro pone domande critiche non più evitabili. In che modo guardare al teatro con l’occhio supplementare di altri apparati di visione, di registrazione e di riproduzione? Sino a che punto l’occhio dello spettatore ne è defraudato (17) o invece potenziato? Se la documentazione teatrale è stata sino a oggi centellinata al servizio prevalente di un’ideologia della presenza e dell’attimo eternizzati, di quali sparizioni automatiche si è nutrita l’iconografia della storia dello spettacolo? Se dell’unicità dell’evento è testimone lo spettatore, a quali condizioni lo spettacolo è consegnato al silenzio di quest’ultimo, alla dispersiva memoria di uno, nessuno e centomila che mai saranno chiamati a testimoniare? Nell’economia razionata dell’iconografia dei teatri, ostile alla riproduzione di ogni immagine non autorizzata, esiste una segretezza dell’evento fondato su una “ontologia della sparizione” selettiva?

UNO SPETTATORE VIENE BATTUTO

Ritorno una seconda volta sulle fotografie di Ivan Kralj. Ne avevo brevemente accennato in altra sede parlando di alcune performance per spettatore unico della compagnia di Felix Ruckert (18). Riferendone come di un esempio di “teatri dell’affetto”, in cui viene meno la sicurezza fisica della segregazione tra spettatore e performer, la performance Secret Service di Ruckert mi interessava per diversi motivi.
Evolvendosi da altre “danze partecipative” dello stesso danzatore berlinese, anche in questo caso i performer e lo spettatore si toccano, ma le somiglianze terminano qui. Il guadagno della tattilità, infatti, viene qui “pagato” con l’eliminazione della funzione oculare dello spettatore, che essendo bendato non può più essere, letteralmente, “spettatore”. Come sottolinea Kralj nell’articolo di cui le fotografie sono corredo, questa è una performance che nessuno ha mai visto al di fuori degli esecutori.
Oltre alla rimozione della visualità spettatoriale, compensata tuttavia dall’accentuazione della percezione sensoriale globale, l’aspetto “segreto” di questa performance consiste nel patto consensuale che fonda un temporaneo rapporto sadomasochistico tra performer/master e “spettatore” sottomesso, scandito in due fasi ciascuna delle quali accessibili su base volontaria. Il corpo di quest’ultimo viene guidato e trasferito da un danzatore master all’altro (uomini e donne) e la scena di questo teatro è giocata interamente sulla percezione da parte dello “spettatore” di ciò che succede al (intorno e sul) suo corpo.
In questo esperimento radicale il teatro spettatoriale viene privato della vista e ridotto, o piuttosto amplificato, sino a farsi flusso tattile, cedevole relazione di potere, passaggio di energia esperibile come segreto erotico.

Ma è la scoperta casuale delle fotografie “segrete” di Ivan Kralj online che ha provocato in me un moto di arresto. Torno a guardarle, con lo sguardo fisso sul suo oggetto, di una evidenza tangibile: le lesioni ricevute da Kralj sul proprio corpo durante la performance e da lui fotografate subito dopo. Le fotografie di questo spettatore su di sé producono a cascata una serie di slittamenti performativi non meno radicali della violenza tattile e accecante della performance.
La tangibilità della “prova” offerta non riesce a essere risolutiva, ovvero l’immagine fissa lo sguardo ma non lo colma. Facendo vedere i segni delle proprie ferite che cosa dà a vedere Kralj? E che cosa, ad esempio, dà a vedere della performance? Iniziando a riflettere su queste immagini la prima a emergere è stata la figura visivamente potente di Kralj “spettatore cieco”, l’osceno del teatro, colui che esso non vuole vedere.
La performance fotografica di Kralj non è affatto semplice da osservare, nonostante essa si presenti modestamente come uno svelamento giornalistico, puramente fattuale, documentario. Mostrando quello che le resta, questa immagine dice anche: “poiché i performer hanno avvolto nell’invisibilità del segreto la performance e hanno esercitato un controllo inesorabile su chi può o non può vedere, l’unica documento possibile sono questi effetti, visibili per un paio di giorni sul mio corpo”.
Lo statuto della testimonianza ne viene esibito al grado zero: ciò che resta di questo teatro è uno spettatore battuto il quale, rimuovendo la rimozione, esibisce il proprio corpo nudo come segno di una “verità”.

Quando finisce e quando inizia il teatro? In chi o in che cos’altro passa? Che cosa è politicamente ed eticamente possibile far vedere del teatro, attraverso e addirittura oltre il teatro? Il genere della performance convenzionalmente denominata in inglese “one-to-one” opera nella direzione della privatezza e dell’intimità, consegnando a ogni partecipante una relazione performativa che sembrerebbe privilegiare lo statuto custodiale dello “spettatore”.
A differenza dello spettatore parte di un pubblico, lo spettatore unico percepisce affettivamente la performance soltanto su se stesso, piuttosto che attraverso un riverbero che si riflette su più corpi. Lo spettatore parte di un pubblico non solo compone affettivamente la propria visione insieme con gli altri suoi sensi, ma sente anche la presenza, consonante e dissonante a un tempo, degli altri spettatori.
L’unicità dello spettatore nelle performance “one-to-one” ne altera invece radicalmente lo statuto, sebbene a prima vista essa non faccia che portare in primo piano, isolandolo, quell’aspetto di singolarità che caratterizza invero ogni esperienza spettatoriale. In Secret Service viene giocata sul corpo stesso del teatro (20) una serie di violente riduzioni e ribaltamenti di potere: lo spettatore è segregato dal pubblico; è gettato fuori dallo spazio “suo proprio”, che viene ora a coincidere con quello della scena, ma una scena al buio, dove lui o lei è condotto in uno spazio “altro” terribilmente coincidente con il proprio spazio interiore.
Privato della vista, del resto, l’unica scena che lo “spettatore” può visualizzare è il proprio spazio segreto - interfaccia fra terreno, pelle-a-pelle e materia psichica. Interiorizzata con una certa forza, e impressa tangibilmente sulla pelle dello “spettatore”, la sua sottomissione al teatro è pura e assoluta riduzione ad attesa: che cosa mi attende, che cosa mi attende di me? Il partecipante si consegna alla performance e la performance si consegna a ognuno di loro nell’unicità soggettivamente esperita di una terribile lezione.

La fotografia che riproduco a mia volta qui reitera dunque un precedente gesto di mostrare tutt’altro che semplice. Mostrando ciò che il teatro S/M di Ruckert ha “fatto” a Ivan Kralj, non posso fare a meno di mostrare anche quello che le fotografie di Kralj hanno fatto a me. Possiamo dire di essere ancora dentro la performance di Secret Service? O siamo in un suo futuro intimo? Di cosa sono documento questa e le altre immagini che la accompagnano? Quali tracce visibili della performance esse ne costituiscono l’unica documentazione possibile: quella del corpo dello “spettatore”. Nella loro evidenza anatomo-patologica esse parrebbero indizio naturale e senza più segreti di una causa originaria.
Come un’orma sulla neve, la lesione sul corpo è la trasparenza stessa del segno. Ma le cicatrici teatrali di Kralj, una volta mostrate, eccedono palesemente la pura e semplice dimostrazione di un evento passato. Sono indice e sintomo insieme. Mostrare il proprio corpo denudato e battuto dice anche l’indicibilità di un evento segreto, l’impossibilità di esaurirne la testimonianza. In effetti la superficie cicatrizzante del corpo è indice in assenza anche di un altro luogo, una camera oscura dove un’altra durata persegue il suo tempo di posa e dove ancora sta toccando il tocco della performance: “Le fotografie che vedete sono il risultato del secondo livello. Probabilmente ne uscirete, come è accaduto a me, leggermente feriti con cicatrici che scompariranno nel giro di un giorno o due. La memoria di Secret Service, invece, durerà un poco più a lungo”. In questo senso, pensando forse di esibire “tutto” e di svelare il segreto della performance di Ruckert, Kralj non può che tornare a mostrare altro: l’inaccessibilità al controllo scopico di ciò che è ancora evenienza, non tanto sulla sua pelle, ma in un tempo e spazio che possiamo soltanto figurarci incompiutamente come “dentro”. La performance di Secret Service non può essere terminata da un gesto di volizione né tanto meno da un unico mostramento. Il mostrare manca nuovamente il suo oggetto, lo sospinge in una scena più inaccessibile.
Il mancamento è tuttavia produttivo, avendo esso aperto un’altra scena (ferita, faglia) di traslazioni segrete. Se il futuro di Secret Service si dà a vedere come leggera ferita, ematoma e impronta di un morso, il corpo che lontano dagli occhi ne prolunga la scena mostra che quel futuro è, ora come non mai, eveniente, presente in una scena a noi differita.

Le fotografie di Kralj sono prolungamento della performance di Ruckert anche in un altro senso: rispondono alla sottomissione che le ha precedute e provocate con un rovesciamento che muta lo “spettatore cieco” in regista di una visione destinata ora ad altri “spettatori”. Sono esse ad avere generato me come spettatore, venendo a “sostituire” un’esperienza performativa che avevo purtroppo mancato. Interrogandomi sul motivo per cui quelle fotografie mi avessero così colpito (“battuto”) mi chiedevo se non costituissero la violazione di un patto di invisibilità, di segretezza della performance, di rimozione consensuale di spettatorialità.
Il gesto documentario di Kralj, servo divenuto padrone, si fa carico di trasmettere il sapere di uno “spettatore che non ha visto” offrendolo in dono come traccia fotografabile soltanto dopo l’evento. Si potrebbe dire che il corpo stesso di Kralj funga contemporaneamente da apparato fotografico e da pellicola, impressa nella durata del contatto performativo sino a emergere ora alla luce come corpo/documento che parla. Tale ulteriore passaggio attua performativamente la reversibilità della relazione S/M tra performer e “spettatore” e nel far ciò dimostra che la performance di Secret Service è evenienza in più di un luogo e in più di un tempo. Non solo non è finita tangibilmente, almeno sinché le ferite non si saranno chiuse, non è finita nemmeno sinché agisca la risposta alla sottomissione.
Con un gesto (questo sì, teatrale) di presa di potere che trasforma unilateralmente una performance segreta in spettacolo (in)visibile a tutti, Kralj, spettatore ed esibitore a un tempo, si rimette in scena come padrone dei mezzi di riproduzione e rimemorazione.

In qualità di unico superstite al proprio Secret Service Kralj è il solo che possa tacerne o testimoniarne. La testimonianza dell’artista è la sua stessa apparizione in scena. Quale sarà la testimonianza dello spettatore, la sua visione cieca? Dove avverrà la sua rimessa in scena? È vero, la scelta di Kralj di mostrare sembra in questo caso esibire troppo, essere troppo “teatrale”. Ma non è forse vero che ogni testimonianza produce una posteriore rimessa in scena? Persistente, insistente, superstite.


Note
1) Sono debitore della riflessione femminista di Rebecca Schneider nella sua critica all’oculocentrismo e al modello visuale dominante del theatron. Cfr. R. Schneider, On Taking the Blind In Hand, “Contemporary Theatre Review”, n. 10/3, 2000, pp. 23-38. In “Epilog: returning from the dead”, a conclusione del volume The Explicit Body in Performance, Routledge, London 1997, Schneider cerca di resistere al prospettivismo, condizione di un regime che pone un soggetto in controllo scopico rispetto al proprio oggetto esterno. I tropi da lei invocati di un “ritorno sulla scena” della visione, così come quello di “testimone cieco” mi hanno guidato sul sentiero di un teatro superstite e sulle tracce evanescenti e ritornanti di una spettatorialità non scopica, soggettivante, e dunque, implicata dalla visione stessa.
Se mantengo il termine “spettatore”, spesso tra virgolette, lo faccio per marcare la sua fondamentale improprietà, che ci è tuttavia familiare. Oltre alla scrittura performativa di Schneider, di Peggy Phelan e altri/e, il mio spettatore, che non potrà mai dire o mostrare il proprio oggetto, è debitore del corpo affettivo deleuziano, del testimone derridiano, e di tanti altri oscuri e perlopiù anonimi spettatori. Questa è la catena di rinvio di teatro e di spettatorialità testimone che mi interessa.

2) L’immagine residua è l’effetto di una sospensione vibrante del corpo, teorizzato come movimento e affetto. Cfr. B. Massumi. Parables for the Virtual: Movement, Affect, Sensation, Duke University Press, Durham NC 2002. Ma è anche strumento per il ritorno dello sguardo su una scena ancora vibrante che si ripete, nella différance.

3) L’installazione di Doris Salcedo, Shibboleth, è rimasta aperta al pubblico dal 9 ottobre 2007 al 6 aprile 2008. Sulla documentazione performativa dei visitatori della Turbine Hall ho iniziato a scrivere un saggio intitolato provvisoriamente “Shibboleth Remix”, parte di un progetto più ampio sulla documentazione di eventi performativi. Per alcuni accenni alla nozione operativa di “documentologia performativa” cfr. la guida online alle risorse cartacee e video della Live Art Development Agency di Londra: M. Pustianaz, In search of documentology. Walking (half) the study room reperibile all’indirizzo http://www.thisisliveart.co.uk/pdf_docs/SRG_Pustianaz.pdf.

4) J. Derrida, Schibboleth: pour Paul Celan, Paris, Galilée 1986, trad. it Schibboleth: per Paul Celan, Ferrara, Gallio 1999. La poesia omonima di Paul Celan fa parte della raccolta Di soglia in soglia, a cura di G. Bevilacqua, Einaudi, Torino 1996.

5) A. Borchardt-Hume (a cura di), Doris Salcedo, Tate Publishing, Londra 2007.

6) L’impatto dei nuovi scenari innescati dall’interfaccia tra la rete e la tecnologia mobile abilitata alla cattura e alla riproduzione di immagini non può che rivoluzionare la loro economia, circolazione e ritrasformazione digitale. In “Shibboleth Remix” vorrei cercare di farmi guidare dalla documentazione mobile dei visitatori condivisa in rete per performare un’interpretazione decentrata dell’installazione salcediana.
La moltiplicazione degli schermi e il loro interlacciamento non può lasciare inalterata la scena teatrale, né la relazione tra performer e spettatore e i relativi diritti e accessi alla “documentazione”. Questo tema è sempre più cruciale per molti studiosi e critici anglosassoni, non da ultimo per le sue ripercussioni sull’unicità dell’evento performativo, i suoi destini memoriali, il suo archivio istituzionale e non.
Per una ricognizione americana sullo scenario dei nuovi media legati alla tecnologia mobile e in rete Cfr. K. Varnelis (a cura di), Networked Publics, M.I.T. Press, Cambridge MA 2008. Significativo è il capitolo che tratta della produzione e rimissaggio amatoriale interpretato come pratica culturale di condivisione/mutazione. Il volume ha anche un blog disponibile all’indirizzo: http://networkedpublics.org/node

7) Shibboleth, dall’episodio biblico di Giudici, 12,5-6 commentato da Derrida, è il contrassegno distintivo per riconoscere l’appartenenza a una comunità, e quindi segno di discriminazione dell’Altro. Funge da segno di una differenza, promessa di salvezza e di identità, al tempo stesso segno arbitrario e senza fondamento, al di fuori della sua performatività.

8) Una ricerca su YouTube ha rivelato la presenza di trentasette video, girati perlopiù con il cellulare. Flickr ha un gruppo dedicato alla condivisione di immagini scattate dai visitatori di Shibboleth: http://www.flickr.com/photos/tags/shibboleth

9) Ma anche passeggiare, conversare, danzare, penetrare, scavalcare, saltare, inserire oggetti…

10) Prendo a prestito il termine derridiano di espacement per designare uno spazio creatore di differenze e quindi di posizioni leggibili come spaziali. La fessura installata nella cripta della Sala Turbine traduce il gesto teorico derridiano; non offre dunque alcun segno singolo bensì una segnatura che spazializza l’apertura del senso nella differenza. Nessuno spettatore troverà il senso della spaziatura, eppure sarà indotto a insistervi sospinto dalla ricerca degli altri.

11) Persino il nome proprio della installazione è stato spesso ignorato e Shibboleth è stato più spesso ribattezzato con il nickname (sessista) di “crack”.

12) Intervista online di Gabriella Giannachi e Nick Kaye a Tim Etchells (15 febbraio 2006) nell’ambito del Presence Project: http://presence.stanford.edu:3455/16/646

13) Si tratta di un progetto collaborativo iniziato nel 2003 in cui entrambi gli artisti hanno fotografato sinora un centinaio di palcoscenici vuoti. Alcune delle fotografie sono pubblicate in rete, sia da Glendinning (http://www.hugoglendinning.com/timetchells.html), sia da Etchells (http://www.timetchells.com/projects/works/empty-stages/). È prevista una pubblicazione a breve.

14) Per ora la serie comprende soltanto una fotografia post-evento, un palcoscenico superstite di una rappresentazione di Bloody Mess di Forced Entertainment (corrispondenza privata con Hugo Glendinning, dicembre-gennaio 2008-09). Sulle fotografie cfr. le osservazioni di Etchells: Step Off The stage, in TheLive Art Almanac, Live Art UK, London 2008, pp. 7-15.

15) Penso alla temporalità della potenza di cui scrive Paolo Virno ne Il ricordo del presente. Saggio sul tempo storico, Bollati Boringhieri, Torino 1999.

16) Riprendo il termine cruciale utilizzato da Peggy Phelan nel volume Unmarked. The Politics of Performance, London, Routledge 1993. Ciò che rimane “unmarked”, segno negativo di un’identità che non ha accesso simbolico alla rappresentazione, non va per Phelan recuperato assimilandolo alla politica della visibilità positiva, con la sua retorica dell’emancipazione. Per lo stesso motivo la performance deve sottrarsi alla logica della riproduzione e insistere sulla propria sparizione. Nel mio caso uno spazio non denotato sarebbe quello di chi guarda, non illuminato dalle luci della scena. Analogamente alla strategia impiegata da Phelan, la visione residuale che pongo a testimone in queste pagine non è assimilabile a un’immagine reale o fedele al teatro e nemmeno a una sua conservazione o salvataggio tramite la riproduzione di un archivio iconografico rappresentativo.
Le immagini e le scritture di teatro superstite sono offerte come un altro atto di sparizione performativa, un “disappearing act” più che una “disappearance”. Questo chiarimento è importante perché la posizione di Phelan, soprattutto quella esemplificata dal suo capitolo “The ontology of performance: representation without reproduction”, è stata letta come apologia puro e semplice dell’unicità effimera dell’evento performativo.

17) Quando ad esempio, come ormai generalmente accade, l’occhio di un obiettivo o di una videocamera si unisca a quello degli spettatori: in questo caso l’immagine che esso produce è destinata all’archivio, a essere preservata e diventare oggetto documentario, mentre l’occhio degli spettatori, con cui il primo condivide così tante circostanze, non farà testo.

18) Le fotografie in questione si riferiscono alla performance di Secret Service della compagnia del danzatore Felix Ruckert, avvenuta in occasione del festival internazionale Eurokaz a Zagabria il 27 e 28 giugno 2004. Le foto sono pubblicate online a corredo di un articolo intitolato “Izmlatili su me” (“Mi hanno battuto”): http://www.kupus.net/tajnasluzba.htm. Per le mie prime riflessioni sul rapporto tra la suddetta performance e le fotografie di Kralj cfr. M. Pustianaz, Teatri dell’affetto, in Sul corpo. Culture/Politiche/Estetiche, a cura di N. Vallorani - S. Bertacco, Milano, Cisalpino 2007, pp. 155-165. Rimando a quel saggio per ulteriori informazioni su altre performance “partecipative” di Ruckert. Il sito della compagnia è esauriente e ricco di materiali; in particolare, su Secret Service, si veda http://www.felixruckert.de/_SecretService.html

19) L’allusione allo scritto di Freud, Un bambino viene battuto è rilevante perché la performance di Ruckert suggerisce forse una componente sadomasochistica in ogni rapporto tra spettatore e performer, anzi ne realizza sperimentalmente la scena che potrebbe sanare il trauma rimosso del theatron. È nulla meno che una relazione di potere che fonda il gioco delle parti diseguale del teatro. Nel suo articolo Kralj ricorda del resto come anche lo spettatore teatrale sospenda la sua incredulità e quindi “si fidi” del teatro; in Secret Service quella fiducia diventa vera e propria consegna del proprio corpo. Ruckert ha continuato ad approfondire il terreno comune tra teatro e scenario S/M in On Pain and Presence, Die Farm e nei workshops alla Schwelle 7 di Berlino. Cfr. anche l’intervista a Ruckert intitolata On Dance and BDSM disponibile online: http://www.felixruckert.de/_OnDance.html

20) Il corpo del teatro è la stessa relazione tra scena e platea, l’estetica e la politica che passa attraverso tale divisione costitutiva. Il teatro di Ruckert può essere letto dunque nella cornice di una tendenza verso la relazionalità nell’arte contemporanea: Cfr. N. Bourriaud, Esthétique relationnelle, Les presses du réel, Dijon 2001.