cura.magazine Anno 1 Numero 1 giugno-luglio 2009
I nuovi spazi di Massimo Bartolini, Tobias Rehberger e Rirkrit Tiravanija al Palazzo delle Esposizioni dei Giardini di Venezia
Fare mondi/Making Worlds: l'idea della costruzione di una nuova cosmologia dell'arte visiva sembra essere, fin dallo stesso titolo, alla base dell'edizione della Biennale di Venezia curata quest'anno da Daniel Birnbaum. Uno degli obiettivi della mostra è infatti quello di dare inizio a progetti che vadano oltre le tradizionali discipline artistiche, che rendano elastici e mobili i confini e i limiti in cui troppo spesso esse si rinchiudono. All'artista di oggi si chiede un coinvolgimento in una dinamica di costruzione di spazi di senso e di vita, di piccoli cosmi di comunicazione e di azione. Non è più sufficiente porsi come demiurgo di oggetti separati dal flusso del quotidiano, rinchiudersi in un white cube spesso asfissiante e asettico. È invece necessario lavorare negli interstizi dell'hic et nunc, nei margini espressivi di ciò che ci circonda, costruire mondi abitabili. Il concetto di arte pubblica su cui a lungo si è dibattuto negli ultimi anni assume quindi un significato forte, politico nel senso alto del termine. L’arte può diventare l’occasione per definire nuovi principi e inedite pratiche di comunità, di condivisione, di scambio.
È sotto questo segno che è possibile leggere il coinvolgimento di Massimo Bartolini, Tobias Rehberger e Rirkrit Tiravanija in questa Biennale. Tre artisti affermati, da sempre impegnati sull'idea di un'arte di relazione, si trasformano qui a Venezia in progettisti di spazi di vita pubblica e comune. A loro infatti il curatore Birnbaum ha chiesto di occuparsi rispettivamente dello spazio educational, del bar caffetteria e del bookshop, strutture del rinnovato Palazzo delle Esposizioni dei Giardini, che si vuole oggi trasformare in centro di attività permanenti, libere dai confini del semplice e transitorio evento Biennale. Non si tratta di anacronistici progetti decorativi, nei quali l’intervento dell’artista si sovrappone a strutture predefinite, quanto di un impegno in prima persona nella definizione architettonica dello spazio, nella conformazione dei luoghi e quindi delle loro modalità di fruizione. Affidarne il progetto a degli artisti significa credere nella loro capacità di manipolare lo spazio, per dare ad esso una direzione semantica ed espressiva fortemente connotata.
Non stupisce il coinvolgimento di un artista come Tobias Rehberger. Tedesco, classe 1966, vincitore quest’anno dell’Hans-Thoma Prize, Rehberger porta avanti sin dagli anni Novanta un lavoro che erode le barriere tra discipline diverse, come arte, architettura e design, ma anche cinema, moda, artigianato, musica. Ciò lo conduce a realizzare installazioni che riconsiderano l’ambiente domestico, trasportando l’estetica della vita quotidiana in una situazione in cui funzionalità e immaginazione si incontrano. L’opera d’arte si trasforma così in un oggetto avente una funzione al di là del suo presunto valore o significato artistico. L’identità dell’opera è inoltre spesso il frutto della collaborazione tra l’artista e altri individui: come gli artigiani del Camerun cui si chiede di replicare i grandi capolavori del design modernista o i meccanici tailandesi impegnati a ricostruire auto da sogno sulla base di schizzi a memoria dell’artista. Ma anche il pubblico, più in generale, concorre alla realizzazione dell’opera: ambienti da vivere, usare, spazi che assumono senso solo attraverso la presenza e l’azione di chi li occupa sono il segno distintivo dell’opera dell’artista tedesco. Il progetto del bar caffetteria si costruisce quindi su queste basi. Un insieme di architettura, design, arte relazionale, è il frutto di un processo creativo cui concorrono fattori diversi, in un mix inedito e stimolante.
Il nome di Rirkrit Tiravanija, artista di origine tailandese nato a Buenos Aires nel 1961, è ormai da decenni legato all’idea di un’arte basata sulla relazione, lo scambio, la comunicazione, le dinamiche di partecipazione. Celebre per le sue performance in cui serve cibo (di lui parleremo presto nella rubrica arte in cucina), Tiravanija innesca dinamiche in cui si forza il ruolo dello spettatore e del pubblico, costretto ad assumere una posizione attiva all’interno della fitta rete di relazioni che l’artista intende creare con le sue azioni. Il suo lavoro non è solo cucina, ma più in generale “casa”, se con questo termine si intende uno spazio in cui si tessono rapporti, si realizzano comunicazioni, si operano scambi materiali e emotivi. Salotti in cui fare una pausa rilassante, “Speakers Corners” in cui fermarsi a parlare, angoli di ristoro in cui servire caffè turco… l’opera di Tiravanija è disseminata di spazi, di luoghi domestici e privati ma allo stesso tempo pubblici e aperti all’altro. Nel 2004, nell’ambito di un workshop realizzato a Milano, l’artista intitolò il suo intervento No Vitrines. No Museums. No Artists. Just a Lot of People. Su questo statement si costruisce anche lo spazio del bookshop da lui progettato per questa Biennale: un luogo in cui si scambiano libri e riviste, anziché cibo e pietanze, e in cui si attua una negoziazione culturale, all’insegna del nomadismo e della diversità.
A Massimo Bartolini, nato a Cecina, in provincia di Livorno, nel 1962, si è invece chiesto di progettare lo spazio educational del nuovo Palazzo delle Esposizioni. Un impegno sul fronte della condivisione e della comunicazione di cui lui stesso ci ha parlato.
C.P. Il tuo lavoro appare da sempre come un'indagine sul tema dell'abitare. Penso alle tue stanze con gli angoli arrotondati, ai tuoi pavimenti rialzati o oscillanti o ancora alle porte luminose e agli ambienti odorosi. Tutti luoghi, più che opere, da attraversare, vivere, occupare fisicamente e mentalmente. Come ti sei avvicinato all'idea di questo nuovo progetto per lo spazio didattico della Biennale? Quanto c'è del tuo lavoro in questa nuova sfida?
M.B. Ogni progetto su committenza permette di verificare il proprio lavoro. Se il proprio lavoro “non viene smentito” dalla destinazione d’uso, se riesce a mantenere certe caratteristiche, vuol dire che c’è qualcosa di vero. Uno spazio come lo spazio didattico si compie generalmente quando è usato, qui ho cercato di fare uno spazio che anche “vuoto” sia in funzione, attivo. Lo spazio è più riferito ad una macchina che ad una architettura e come macchina, imita e richiama gesti e sentimenti dell’ uomo.
C.P. C'è un tuo lavoro del 1995 che si chiama Aiuole e che si è poi sviluppato negli anni in una serie di performance e fotografie. I limiti e la forma dello spazio “coltivato” erano segnati dai corpi uniti di diverse persone. Quanto è importante il rapporto tra la progettazione di un nuovo spazio e la sua abitabilità e praticabilità da parte dei corpi che lo occuperanno? Esiste uno spazio a misura d'uomo?
M.B. Lo spazio è un unico continuo ed indivisibile e l’uomo ne fa parte. La misura d’uomo è determinata dal progettista, che è uomo e da chi lo userà, uomo anch’esso. Mi piace non perdere mai di vista il fatto che una scultura è spazio tanto quanto una stanza. Lo spazio non è determinabile da dimensioni, forse nemmeno dalla scala, lo spazio è un fatto affettivo.
C.P. In un'intervista ho letto questa tua affermazione: “sto cercando di rendere praticabile l'immaginazione”. Pensi che anche in questo caso, in cui ti sei trovato a lavorare sulla forma di uno spazio dedicato alle attività educative legate alle arti visive, sia presente una tensione, un'attenzione simile? Può l'immaginazione diventare qualcosa di concreto?
M.B. L’immaginazione è concreta, così come “il gioco è la cosa più seria che ci sia”.
C.P. Nel 2001, per la 49. Biennale di Venezia, hai partecipato a Refreshing, a cura di Pier Luigi Tazzi e Fabio Cavallucci. Tra gli altri artisti, c'erano anche in quel caso Rikrit Tiravanija e Tobias Rehberger, oltre a Cai Guo-Qiang e Olafur Eliasson. In cosa consisteva il tuo progetto Rot Bostaneeducational dei Giardini?
M.B. Le premesse sono molto diverse, lì la cosa aveva carattere temporaneo e si innestava su una struttura di mostra esistente, qui invece si cambia letteralmente destinazione ad uno spazio e l’intervento è permanente. Per Refreshing dovevo realizzare un bar mentre qui ho dovuto realizzare un educational, le due destinazioni hanno molto in comune quindi può darsi che qualcosa di quel progetto sia servito a sviluppare alcune parti di questo.
Rot Bostane significa giardino rosso in tedesco-arabo e conteneva una dedica occulta ad un amico cui piacevano molto i bar. Questo era fatto come un chiosco-bar il cui tetto si apriva e si chiudeva come un ostrica sopra ad un bancone continuo di forma rettangolare con due semicirconferenze al posto dei lati corti. Con il tetto aperto anche il bar si apriva all’esterno, come una bocca aperta che parla, come un camion con il rimorchio alzato, mentre con il tetto chiuso diventava un posto più raccolto con la testa nascosta ma le gambe scoperte.
Sia da aperto che da chiuso, seduti all’interno ci si sentiva come dentro ad uno stomaco mentre a pochi centimetri di distanza si era fuori e si poteva bere una gazzosa quasi senza fermarsi, molti mondi erano vicini l’un l’altro compresenti ma isolati, proprio come le persone sedute intorno ad un bar.