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Arte e Critica Anno 15 Numero 59 giugno-agosto 2009



L'Arte Politica dell'Ospitalità (Teheran, Dubai, Venezia)

Ilari Valbonesi

Il primo padiglione degli Emirati Arabi alla 53a Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia



trimestrale di cultura artistica contemporanea


039 EDITORIALE: ATTRAVERSANDO LA CRISI. ALCUNE OSSERVAZIONI SUL RUOLO DELLA GALLERIA
di Roberto Lambarelli

044 L’ARTE POLITICA DELL’OSPITALITÀ / THE POLITICAL ART OF HOSPITALITY (TEHERAN, DUBAI, VENICE)
di / by Ilari Valbonesi

047 THE SEDUCTIVENESS OF THE INTERVAL. IL PADIGLIONE ROMENO ALLA BIENNALE
a cura di / by Eleonora Farina

050 GIAN MARCO MONTESANO. A PROPOSITO DEL FUTURISMO
Intervista a cura di Roberto Lambarelli

052 NUEVA ESCENA DE AVANZADA DAL CILE NEL XXI SECOLO
Intervista a Antonio Arévalo a cura di Marcello Carriero

054 UN FRESCO FETICCIO DA VENEZIA. GEORGES ADÉAGBO PER LA BIENNALE
A FRESH FETISH FROM VENICE. GEORGES ADÉAGBO FOR THE BIENNIAL
di / by Stephan Köhler

055 THIERRY GEOFFROY. STRATEGIE DELL’INTRUSIONE
di Julia Draganovic

056 INTERVALLO. INTERRUZIONE DELLE TRASMISSIONI AL PADIGLIONE TURCO
INTERVAL. INTERRUPTION OF TRANSMISSIONS AT TURKISH PAVILION
di / by Elisa Del Prete

058 ISTANBUL. L’INIZIATIVA PRIVATA AL COMANDO DELLA SCENA TURCA
ISTANBUL. PRIVATE ENTERPRISE IN CHARGE OF THE TURKISH SCENE
Intervista a / Interview with Vasif Kortun a cura di / by Elisa Del Prete

061 PENSIERI IN CHIAROSCURO XV. IL BACON DI KUNDERA
di Alberto Boatto

062 CAI GUO-QIANG. I WANT TO BELIEVE: IPOTESI DI UNA RELIGIONE DELLA CONTEMPORANEITÀ
HYPOTHESIS FOR A RELIGION OF THE CONTEMPORARY WORLD
Intervista a cura di / Interview by Eugenia Bertelè

065 ROBERT RYMAN AND URS RAUSSMULLER. UN DIPINTO È SOSTANZIALMENTE UN MIRACOLO
A PAINTING IS BASICALLY A MIRACLE

068 ARTE ED ESTETICA DEL CONFLITTO. LO SGUARDO FEMMINILE
ART AND AESTHETICS OF CONFLICT. THE FEMALE VIEWPOINT
di / by Marinella Paderni

072 DALLA SENSIBILITÀ AMBIENTALE AL PENSIERO ECOLOGICO
di Lorenzo Giusti

074 NUOVE PRATICHE DI FORMAZIONE
di Marcella Anglani

076 DEIMANTAS NARKEVICIUS. RACCOGLITORE DI STELLE E DI ROVINE / GATHERER OF STARS AND RUINS
di / by Paolo Emilio Antognoli

078 SENSEWARE. MATERIALI HI-TECH
di Sabrina Lucibello

079 GUILTY, ARTDESIGN, NUOVA SPECIE
di Luca Bradini

100 DOMINIQUE PETITGAND. LA CONSISTENZA DEL SUONO / THE CONSISTENCE OF SOUND
di / by Marinella Paderni

101 YVES NETZHAMMER. INVENTORIES OF ABSTRACTION
di / by Claudia Löffelholz

103 IL SUONO: FISICO, REALE, TEATRALE
di Silvia Tarquini

105 MERIS ANGIOLETTI. PROIEZIONI DI CASUALITÀ
di Ilaria Mariotti

106 EVERYBODY TALKS ABOUT THE WEATHER... WE DON’T
a cura di Antonella Miggiano, Elvira Vannini, Matteo Lucchetti

114 IDENTITÀ DELLA GALLERIA CONTEMPORANEO
Intervista a Riccardo Caldura a cura di Rossella Moratto

115 PER UN CIRCUITO DELL’ARTE CONTEMPORANEA A FIRENZE
L’OSSERVATORIO PER LE ARTI CONTEMPORANEE, IL MUSEO MARINO MARINI E BARDINICONTEMPORANEA
Intervista a Alberto Salvadori a cura di Ilaria Mariotti

120 AZIONI MOLTO SEMPLICI SENZA UNO SCOPO PRECISO / VERY SIMPLE ACTIONS WITHOUT ANY PARTICULAR PURPOSE
di / by Viktor Misiano

125 HARUN FAROCKI. LE IMMAGINI COME MEZZO PER UNA SIMBOLICA ASSUNZIONE DI CONTROLLO
IMAGES AS A MEANS FOR A SYMBOLIC TAKING OF CONTROL
Intervista a cura di / Interview by Serena De Dominicis

127 SUBLIMITÀ E FUGA. NOTE SULLA PRESENTAZIONE DEI PAESAGGI PERDUTI DI ARNULF RAINER
SUBLIMITY AND ESCAPE. NOTES ON THE PRESENTATION OF THE LOST LANDSCAPES BY ARNULF RAINER
di / by Lóránd Hegyi

128 LE IDENTITÀ VIRTUALI DEL MUSEO. IL CASO MOMA
di Sara Dolfi Agostini

40 ILYA E EMILIA KABAKOV 42 HANS OP DE BEECK 84 WOLFGANG LAIB 84 GLENN BROWN 84 ROSSELLA BISCOTTI 85 STEFANO ARIENTI 85 NICO VASCELLARI 94 THOMAS RUFF 96 LUIGI ONTANI 96 ANSELM KIEFER 97 ENZO UMBACA 98 JULIAN OPIE 102 KINKALERI 119 MARIA DOMPÈ
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Gita Meh
una veduta dell’installazione Soffreh, 2009
Courtesy l’artista

Lamya Gargash
The Red Majlis, Majlis Series, 2009
Courtesy l’artista e The Third Line

Reem Al Gaith
Dubai What's left of my land 6 meters by 4 meters
una veduta dell’installazione presso la Biennale Sharjah, 2009

L’arte irrompe nel mondo come una sorta di epoché: non si tratta di sospensione del giudizio, né di un dubbio metodico, ma di una vera e propria interruzione del vedere e del sentire abituali. E proprio in questa logica dell’estraneità sono tornata in visita negli Emirati dove, tra due fiere dell’arte e la Biennale di Sharjah, è stata presentata Gerusalemme capitale della cultura araba, iniziativa promossa dall’Unesco e affidata per il 2009 all’Autorità nazionale palestinese.
Negli stessi giorni, l’annuncio del primo padiglione degli Emirati Arabi alla 53. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia: It’s not you. It’s me. Un doppio titolo, per un’affermazione paradossale, che stravolge la forma di ospitalità allo straniero, forma che viaggia perpetua tra l’ospite legittimo, parassita o clandestino. E ancora forma di conflitto, tristemente rappresentata dal sequestro della torcia che segnava il passaggio da Damasco a Gerusalemme, da parte dell’esercito israeliano.
Il Padiglione UAE è un segno molto importante del tempo in cui viviamo. Si parla infatti del primo padiglione arabo generatosi nel giro di pochissimi anni, frutto di una strategia culturale e sforzo collettivo, mirato a rappresentare un’identità nazionale.
Ma di quale identità si parla? Sono 200 le nazionalità residenti negli Emirati che contribuiscono alla formazione di questa nuova identità culturale e panorama d’arte e di mercato. Un volto sfaccettato e riflesso nei mille piani dei grattacieli che a loro volta rispecchiano flussi economici e migratori. Per il mondo dell’arte, la scena più interessante confluente nel Golfo è quella migrante dall’Iran.

Madjid Asgari (1979, Teheran) è un artista iraniano con cui riesco a parlare grazie a un gentile traduttore. Durante la Bastakiya Art Fair di Dubai ha presentato 16 immagini untitled tratte dalla serie Aquarium. Sono delle fotografie di feti immersi in recipienti d’alcool, trafugate da cliniche e centri di ricerca di Teheran, editate e stampate su fogli di acciaio. È un lavoro sugli stati tra la vita e la morte, dove l’immagine trova rifugio in se stessa, in un passato senza tempo.
Trasformandosi in un accesso a qualcosa di inaccessibile, così come testimonia un altro lavoro che utilizza la porta di una cella-frigo destinata al mantenimento del corpo morto. Tra gli artisti di riferimento: Andy Warhol e l’ammirazione per il lavoro di Paolo Gioli, due esempi espliciti di auto/riflessione e icono/fotografia

Rodin Hamidi (1983, Teheran) vive da tre anni a Dubai. Ci siamo incontrati il 22 marzo 2009 in un caffè di Al Bastakiya. Un giorno dopo il Naw Ruz, il capodanno del calendario iraniano, in cui il Presidente USA Barack Obama ha parlato alla Repubblica islamica dell’Iran con un videomessaggio e un appello “Superiamo trent'anni di conflitti”. Che Rodin commenta con una risata. Egli è artista e filmmaker che viaggia liberamente tra i media. Earth in Pain (2006) è un video scuro che esplora il territorio di confine tra dolore privato e simbolo universale “perché noi ragazzi eravamo confusi”.
Non c’è una struttura narrativa lineare affidata al montaggio di scene che lo hanno sorpreso: un altopiano iraniano; un’ambulanza passa nella città e sfiora un uomo senza gambe, perse durante il terremoto. Per i primi 4 minuti l’audio è desincronizzato provocando un’esperienza di estraneazione nello spettatore. Suono e visione emergono come mondi paralleli, il ritmo è diastatico. La sincronizzazione ritorna nella ripresa della mano che suona la tastiera di un piano, ma poi i tasti si trasformano nella corteccia di un albero, nella scorza di una tartaruga, e si trasfigurano nel suolo terrestre, screpolato. Un’alchimia delle forme, già pattern.
Mi parla dell’Iran, di una vita quotidiana angosciante, ma anche di una scena underground molto attiva e divertente “quel che è reale ti rende pazzo ma ti fa anche pensare a qualcosa di nuovo”.
E il video finisce con una citazione psichedelica dei Pink Floyd. L’interesse per la musica, l’utilizzo di nuove tecniche di editing – junk cuts – per uscire “fuori dagli schemi” sono le modalità di una figurazione interiore che prosegue nella serie di fotografie di case demolite per la costruzione di nuovi grattacieli a Dubai, intitolata Phoenix: “perché a Dubai tutti vogliono volare in alto, e così trasformano tutto in cenere, ma poi rinascono dalle proprie ceneri, che è triste ma anche gioioso nello stesso tempo”.
Ma “gli artisti non possono sopravvivere senza ispirazione”.

Reem Al Gaith (Dubai, 1985) è una giovane artista che trae ispirazione dalle ceneri della sua città. Dubai What's left of my land 6 meters by 4 meters è il titolo di un’installazione ambientale in mostra alla Biennale di Sharjah che occupa un’intera stanza mettendo in scena un sito edile e forme organiche, in bilico tra progettazione e illusione.
“Sono nata a Dubai – mi racconta – dove c’è una scena promettente: non è una città araba, tutti vogliono stare qui; mi sento un’ambasciatrice di Dubai”. Le chiedo cosa ricorda di Dubai, e della sua infanzia “Mi manca la tranquillità delle spiagge e della città, ma sono felice del cambiamento e dobbiamo imparare a convivere con il cambiamento”.

Lamya Hussain Gargash (Dubai, 1982), fotografa e filmmaker, rappresenta l’identità nel cambiamento per il primo padiglione nazionale di un paese arabo del Golfo alla Biennale di Venezia. The Majlis 2008-09 in mostra alla Biennale di Sharjah sono ritratti di ambienti privati che riflettono l’estensione della casa all’esterno e, nello stesso tempo, uno sguardo dall’interno sulla società araba contemporanea.
Sono vere e proprie introspezioni ma anche analisi dei trend della globalizzazione, che prendono corpo in queste stanze apparentemente vuote, dedicate al ricevimento degli ospiti. Mi racconta che in passato questi luoghi erano aperti solo agli uomini.
In qualche scatto ci sono piccoli dettagli come un televisore o un telecomando. Perché l’inquadratura è simmetrica, la composizione degli ambienti è la stessa, ma sono gli elementi di arredo a fare la differenza. Sono Majlis in cui ci si siede più tradizionalmente per terra, su una poltrona, o in un salotto tappezzato di quadri. Sono finestre interne al mondo, spazio politico, anche dal punto di vista architettonico, che incorpora elementi culturali estranei in coesistenza con la tradizione.
Lo stesso padiglione a Venezia rifletterà questa duplice estensione dello spazio con un’attenzione al design e la combinazione di elementi scenografici a cura di Rami Farook e il collettivo belga di D'haeseleer & Kimpe & Poelaert. Significativa la rimessa in scena della conferenza stampa fatta a Art Basel Miami Beach (2008) e a Art Dubai (2009) a cura del Jackson Pollock Bar; un archivio di artisti residenti in UAE, Hassan Sharif (1951, Dubai), Tarek Al-Ghoussein (1962, Kuwait, palestinese) e Huda Saeed Saif (1978, Sharjah), cinque conversazioni tra figure chiave della scena nazionale sulla formazione degli UAE e sulla protezione delle specie, realizzate da Hannah Hurtzig; e i modellini architettonici della scena museale UAE, tra cui il MOMEMA. Ma l’ospitalità esige che io condivida la mia dimora, senza chiedere il nome degli ospiti.

Così è l’arte di Gita Meh (1963, Teheran), che ha partecipato alla Biennale di Sharjah con una performance di arte commestibile. L’origine della performance è da ricercare in un rito persiano descritto dalla parola “soffreh”, che in farsi significa “tovaglia”.
In origine il rito è esclusivamente al femminile: quattro donne si riuniscono per due giorni per pregare e invocare l’intercessione della divinità mediante un sacrificio di un animale. L’invito al banchetto è aperto alla famiglia così come agli sconosciuti. I partecipanti si siedono per terra, su tappeti allestiti intorno al cibo: si parla, si balla al centro della tavola, si canta, si confidano segreti, si mangia, si suonano strumenti e, in mancanza, le donne percuotono gli utensili.
Il pubblico è essenziale parte integrante e costitutiva di questo corpus dell’opera che prosegue nella digestione. Migrante da 26 anni, Gita Meh ha vissuto in Italia, in Germania, a Los Angeles e ora a Dubai. La performance, nata durante il difficile soggiorno americano, al posto della tovaglia bianca prevede l’utilizzo di 300 kg di zucchero: la migrazione è così amara che viene addolcita. Arte pubblica e una poetica del sentire comune che torna in Sweet Cities, una torre di zucchero cristallizzato, icona del processo di trasformazione della cultura islamica, dove la torre è insieme minareto e luogo domestico. La torre sarà coperta di resina per proteggerla dalle formiche e dalle mosche. Please do not lick.