Arte e Critica Anno 15 Numero 59 giugno-agosto 2009
Il primo padiglione degli Emirati Arabi alla 53a Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia
L’arte irrompe nel mondo come una sorta di epoché: non si tratta di sospensione del giudizio, né di un dubbio metodico, ma di una vera e propria interruzione del vedere e del sentire abituali. E proprio in questa logica dell’estraneità sono tornata in visita negli Emirati dove, tra due fiere dell’arte e la Biennale di Sharjah, è stata presentata Gerusalemme capitale della cultura araba, iniziativa promossa dall’Unesco e affidata per il 2009 all’Autorità nazionale palestinese.
Negli stessi giorni, l’annuncio del primo padiglione degli Emirati Arabi alla 53. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia: It’s not you. It’s me. Un doppio titolo, per un’affermazione paradossale, che stravolge la forma di ospitalità allo straniero, forma che viaggia perpetua tra l’ospite legittimo, parassita o clandestino. E ancora forma di conflitto, tristemente rappresentata dal sequestro della torcia che segnava il passaggio da Damasco a Gerusalemme, da parte dell’esercito israeliano.
Il Padiglione UAE è un segno molto importante del tempo in cui viviamo. Si parla infatti del primo padiglione arabo generatosi nel giro di pochissimi anni, frutto di una strategia culturale e sforzo collettivo, mirato a rappresentare un’identità nazionale.
Ma di quale identità si parla? Sono 200 le nazionalità residenti negli Emirati che contribuiscono alla formazione di questa nuova identità culturale e panorama d’arte e di mercato. Un volto sfaccettato e riflesso nei mille piani dei grattacieli che a loro volta rispecchiano flussi economici e migratori. Per il mondo dell’arte, la scena più interessante confluente nel Golfo è quella migrante dall’Iran.
Madjid Asgari (1979, Teheran) è un artista iraniano con cui riesco a parlare grazie a un gentile traduttore. Durante la Bastakiya Art Fair di Dubai ha presentato 16 immagini untitled tratte dalla serie Aquarium. Sono delle fotografie di feti immersi in recipienti d’alcool, trafugate da cliniche e centri di ricerca di Teheran, editate e stampate su fogli di acciaio. È un lavoro sugli stati tra la vita e la morte, dove l’immagine trova rifugio in se stessa, in un passato senza tempo.
Trasformandosi in un accesso a qualcosa di inaccessibile, così come testimonia un altro lavoro che utilizza la porta di una cella-frigo destinata al mantenimento del corpo morto. Tra gli artisti di riferimento: Andy Warhol e l’ammirazione per il lavoro di Paolo Gioli, due esempi espliciti di auto/riflessione e icono/fotografia
Rodin Hamidi (1983, Teheran) vive da tre anni a Dubai. Ci siamo incontrati il 22 marzo 2009 in un caffè di Al Bastakiya. Un giorno dopo il Naw Ruz, il capodanno del calendario iraniano, in cui il Presidente USA Barack Obama ha parlato alla Repubblica islamica dell’Iran con un videomessaggio e un appello “Superiamo trent'anni di conflitti”. Che Rodin commenta con una risata. Egli è artista e filmmaker che viaggia liberamente tra i media. Earth in Pain (2006) è un video scuro che esplora il territorio di confine tra dolore privato e simbolo universale “perché noi ragazzi eravamo confusi”.
Non c’è una struttura narrativa lineare affidata al montaggio di scene che lo hanno sorpreso: un altopiano iraniano; un’ambulanza passa nella città e sfiora un uomo senza gambe, perse durante il terremoto. Per i primi 4 minuti l’audio è desincronizzato provocando un’esperienza di estraneazione nello spettatore. Suono e visione emergono come mondi paralleli, il ritmo è diastatico. La sincronizzazione ritorna nella ripresa della mano che suona la tastiera di un piano, ma poi i tasti si trasformano nella corteccia di un albero, nella scorza di una tartaruga, e si trasfigurano nel suolo terrestre, screpolato. Un’alchimia delle forme, già pattern.
Mi parla dell’Iran, di una vita quotidiana angosciante, ma anche di una scena underground molto attiva e divertente “quel che è reale ti rende pazzo ma ti fa anche pensare a qualcosa di nuovo”.
E il video finisce con una citazione psichedelica dei Pink Floyd. L’interesse per la musica, l’utilizzo di nuove tecniche di editing – junk cuts – per uscire “fuori dagli schemi” sono le modalità di una figurazione interiore che prosegue nella serie di fotografie di case demolite per la costruzione di nuovi grattacieli a Dubai, intitolata Phoenix: “perché a Dubai tutti vogliono volare in alto, e così trasformano tutto in cenere, ma poi rinascono dalle proprie ceneri, che è triste ma anche gioioso nello stesso tempo”.
Ma “gli artisti non possono sopravvivere senza ispirazione”.
Reem Al Gaith (Dubai, 1985) è una giovane artista che trae ispirazione dalle ceneri della sua città. Dubai What's left of my land 6 meters by 4 meters è il titolo di un’installazione ambientale in mostra alla Biennale di Sharjah che occupa un’intera stanza mettendo in scena un sito edile e forme organiche, in bilico tra progettazione e illusione.
“Sono nata a Dubai – mi racconta – dove c’è una scena promettente: non è una città araba, tutti vogliono stare qui; mi sento un’ambasciatrice di Dubai”. Le chiedo cosa ricorda di Dubai, e della sua infanzia “Mi manca la tranquillità delle spiagge e della città, ma sono felice del cambiamento e dobbiamo imparare a convivere con il cambiamento”.
Lamya Hussain Gargash (Dubai, 1982), fotografa e filmmaker, rappresenta l’identità nel cambiamento per il primo padiglione nazionale di un paese arabo del Golfo alla Biennale di Venezia. The Majlis 2008-09 in mostra alla Biennale di Sharjah sono ritratti di ambienti privati che riflettono l’estensione della casa all’esterno e, nello stesso tempo, uno sguardo dall’interno sulla società araba contemporanea.
Sono vere e proprie introspezioni ma anche analisi dei trend della globalizzazione, che prendono corpo in queste stanze apparentemente vuote, dedicate al ricevimento degli ospiti. Mi racconta che in passato questi luoghi erano aperti solo agli uomini.
In qualche scatto ci sono piccoli dettagli come un televisore o un telecomando. Perché l’inquadratura è simmetrica, la composizione degli ambienti è la stessa, ma sono gli elementi di arredo a fare la differenza. Sono Majlis in cui ci si siede più tradizionalmente per terra, su una poltrona, o in un salotto tappezzato di quadri. Sono finestre interne al mondo, spazio politico, anche dal punto di vista architettonico, che incorpora elementi culturali estranei in coesistenza con la tradizione.
Lo stesso padiglione a Venezia rifletterà questa duplice estensione dello spazio con un’attenzione al design e la combinazione di elementi scenografici a cura di Rami Farook e il collettivo belga di D'haeseleer & Kimpe & Poelaert. Significativa la rimessa in scena della conferenza stampa fatta a Art Basel Miami Beach (2008) e a Art Dubai (2009) a cura del Jackson Pollock Bar; un archivio di artisti residenti in UAE, Hassan Sharif (1951, Dubai), Tarek Al-Ghoussein (1962, Kuwait, palestinese) e Huda Saeed Saif (1978, Sharjah), cinque conversazioni tra figure chiave della scena nazionale sulla formazione degli UAE e sulla protezione delle specie, realizzate da Hannah Hurtzig; e i modellini architettonici della scena museale UAE, tra cui il MOMEMA. Ma l’ospitalità esige che io condivida la mia dimora, senza chiedere il nome degli ospiti.
Così è l’arte di Gita Meh (1963, Teheran), che ha partecipato alla Biennale di Sharjah con una performance di arte commestibile. L’origine della performance è da ricercare in un rito persiano descritto dalla parola “soffreh”, che in farsi significa “tovaglia”.
In origine il rito è esclusivamente al femminile: quattro donne si riuniscono per due giorni per pregare e invocare l’intercessione della divinità mediante un sacrificio di un animale. L’invito al banchetto è aperto alla famiglia così come agli sconosciuti. I partecipanti si siedono per terra, su tappeti allestiti intorno al cibo: si parla, si balla al centro della tavola, si canta, si confidano segreti, si mangia, si suonano strumenti e, in mancanza, le donne percuotono gli utensili.
Il pubblico è essenziale parte integrante e costitutiva di questo corpus dell’opera che prosegue nella digestione. Migrante da 26 anni, Gita Meh ha vissuto in Italia, in Germania, a Los Angeles e ora a Dubai. La performance, nata durante il difficile soggiorno americano, al posto della tovaglia bianca prevede l’utilizzo di 300 kg di zucchero: la migrazione è così amara che viene addolcita. Arte pubblica e una poetica del sentire comune che torna in Sweet Cities, una torre di zucchero cristallizzato, icona del processo di trasformazione della cultura islamica, dove la torre è insieme minareto e luogo domestico. La torre sarà coperta di resina per proteggerla dalle formiche e dalle mosche. Please do not lick.