Arte e Critica Anno 15 Numero 59 giugno-agosto 2009
Gli atti del convegno attraverso un glossario con le riflessioni dei 21 partecipanti: Marco Baravalle, Giacomo Bazzani, Andris Brinkmanis, Francesca Boenzi, Giovanni De Donà, Eva Fabbris, Ilaria Gianni, GRID, Irene Grillo, Inti Guerrero, Matteo Lucchetti, Sonia May, Manuela Moscoso, Domenico Quaranta, Societè Realiste, Marko Stamenkovic, Stefano Taccone, Elvira Vannini, Pieternel Vermoortel
Everybody Talks About the Weather. We Don’t è un convegno che si è aperto nell’aprile scorso, all’interno degli spazi del Biennio specialistico in Arti Visive e Studi Curatoriali di NABA a Milano, come spazio di dialogo e riflessione su alcuni luoghi chiave della contraddizione culturale all’interno delle dinamiche postfordiste. Nel format si sono alternati ventuno curatori appartenenti a una scena internazionale. Partendo da un’idea di Marco Scotini – elaborata e sostenuta da Andris Brinkmanis, Matteo Lucchetti ed Elvira Vannini – si è discusso, da un’ampia prospettiva teorica, dei rapporti con le istituzioni e con il potere che queste esercitano nella definizione di quella che sta diventando una scienza perfetta della mostra, da impiegare come sapere già dato. Sono le concezioni teoriche e le pratiche curatoriali una messa in discussione degli standard culturali, o sono all’opposto una continua riterritorializzazione delle istanze di trasformazione, degli spazi di sperimentazione e delle dinamiche aperte di libertà? Come mostrare il disaccordo, il dissenso. Come ri-pensare la cultura attraverso il politico e la politica. Come può una pratica curatoriale e discorsiva produrre nuove forme di soggettività e diventare uno strumento di critica delle istituzioni? Quali sono le nuove forme di produzione della conoscenza nelle pratiche artistiche attuali, le strategie, le prospettive, gli approcci e i paradigmi della curatela emergente? Stiamo assistendo a una sorta di “schizofrenia”: la cultura oggi non è più uno spazio autonomo di resistenza e di critica ma è asservita al ruolo egemone dell’industria creativa globale, dei processi di valorizzazione produttiva del sapere, inclusi i contesti locali in cui ha luogo. Come creare allora una piattaforma condivisa di lavoro e un laboratorio per tradurre le complesse geografie in mutamento? Può la curatela prendere una posizione?
GOVERNANCE: L’Arte è un dispositivo di governo e di disciplina, assoggettato a processi di legittimazione dei poteri forti che creano un’alleanza tra industria culturale e mercato. Di un meccanismo economico che usa l’arte per creare valore e capitalizza anche le relazioni umane. Al tempo stesso il potere può destrutturare l’istituzione. Come creare un campo d’azione alternativo?
Nella riflessione di Marco Baravalle, a seguito di un interessante dibattito sul pensiero di Michel Foucault in relazione alle varie declinazioni del concetto di potere, la Governance è uno strumento di controllo e governo, tipico del capitalismo postfordista, che è diventato oggetto di discussione come sinonimo della pratiche curatoriali attuali che normano, influenzano e determinano il dilagare di un fenomeno culturale mainstream, che assume sempre più derive glamour. Non è un caso se il termine è entrato di fatto nel vocabolario artisticocuratoriale, in quanto la produzione e la promozione dell’arte e della cultura assomigliano sempre più a processi di legittimazione di poteri economici. Questo termine quindi, racchiude, in un consenso generale dei curatori presenti, la necessità di riappropriarsi di un significato conflittuale dell’arte. Conflitto che passa attraverso l’autogestione e l’auto-organizzazione di dispositivi curatoriali che indagano il territorio e cercano di superare il controllo capitalistico dell’arte, sia nel privato che nel pubblico.
: “Il territorio è un punto di partenza che non necessariamente deve coincidere con quello di arrivo”. Nelle parole di Francesca Boenzi, il rischio di una marcata consapevolezza della propria unicità è quello di diventare chiusi ed autoreferenziali, di fossilizzarsi fisicamente e culturalmente dimenticando il dialogo e le relazioni con altre realtà internazionali. Lo sforzo quando si lavora in un determinato contesto è quello di comprendere (e a volte subire) le dinamiche che lo caratterizzano, cercando di capire dove si può intervenire per correggere la situazione esistente, attraverso una pratica curatoriale non assertiva, ma propositiva, scandita da punti di domanda, flessibile, laterale, contingente.
Allo stesso modo la riflessione di Giacomo Bazzani parte dal suo percorso di interazione tra pratiche artistiche e contesti territoriali in cui far emergere nuove forme di protagonismo sociale e la possibilità di immaginare nuovi conflitti come forme di cambiamento costruttive. Le pratiche curatoriali quindi lavorando sul territorio, sfruttano al massimo le potenzialità, ma sono anche condizionate dai limiti di un determinato contesto storico-culturale. Ecco che parlando di territorio e facendo scivolare i confini in una concezione più ampia, si arriva a considerare il fenomeno del nomadismo come un concetto strettamente legato al territorio, nelle differenti accezioni del termine partite dalla riflessione di Marko Stamenkovic e scaturite dalla domanda: Il tuo territorio è il posto ove attualmente ti trovi, o dove vorresti essere? E che significati assume oggi il concetto di territorio? È solo il posto dove si vive, con tutto un insieme di regole e norme sociali condivise, dove si matura una consapevolezza del luogo, o è anche un posto ideale, un reticolato fatto di tanti punti che intersecano relazioni ed esperienze condivise? Per Stamenkovic il nomadismo diventa un modo di stabilire relazioni critiche con ogni possibile destinazione culturale intorno al mondo, come una forma di produzione (materiale e immateriale) che indaga criticamente le potenzialità attuali di autonomia, attraverso posizioni che sono costantemente riformulate, messe in discussione, e come rifiuto radicale di qualsiasi tipo di status quo. In uno spirito di expatriation, di profondo senso di dislocazione, in un’atmosfera di esilio duchampiano, questa posizione, nelle considerazioni del curatore, definisce una nuova forma di indipendenza di soggetti migranti e di esperienze che si diffondono nel mondo globalizzato. A questo proposito Stamenkovic propone una pratica curatoriale che metta al centro del dibattito le relazioni con le singole persone, con le diverse individualità, piuttosto che con le istituzioni presenti sul territorio.
ATTIVISMO: In uno scenario internazionale dove i dispositivi del potere agiscono attraverso l’istituzione, che sia un Museo o una Biennale, la curatela può ancora mostrare il dissenso? Può produrre nuove forme di soggettività e diventare uno strumento di critica alle istituzioni e al potere? L’alleanza tra pratiche artistico-curatoriali e istanze attiviste potrebbe fornire delle risposte alternative alla scena egemone, nei termini di una mobilitazione che ridefinisca i termini dell’agire estetico contemporaneo. Le trasformazioni sociali hanno creato nuove forme assunte dall’arte: gruppi e collettivi, pratiche del dialogo, processi collaborativi, osservazioni del territorio, urbanistica partecipata, bioresistenza, economie alternative: tutte le forme di auto-organizzazione, meccanismi di sorveglianza e apparati di controllo sociale, economie informali, media attivismo, protesta politica, dispositivi partecipativi, come freesoftware, free knowledge, processi open source, pratiche collettive e condivise.
Domenico Quaranta parla di Net Art, presentandola all’interno del sistema dell’arte attuale come un fenomeno indisciplinato che sfugge alle logiche curatoriali standardizzate. Figure al limite tra artisti e attivisti fanno a meno dei mediatori, e in qualche modo, provenendo da ambiti ed esperienze diverse, si auto-organizzano. La Net Art può esistere senza mediatori e quindi senza relazionarsi con forme di potere, e quindi di governance; è una forma d’arte che rinuncia alla solidità e alla chiusura dell’oggetto artistico e impone una riconsiderazione del valore, anche economico, dell’arte. A tal proposito nasce la figura del new media curator, che ha come obiettivo principale quello di interessarsi di cose che solitamente gravitano al di fuori del mondo dell’arte per riuscire a portarle dentro il sistema. Il senso di una mostra volutamente “dumb” era offrire al pubblico dell’arte una mostra di “oggetti”, collezionati o collezionabili, che contraddicesse tutti i luoghi comuni sull’arte digitale e offrire al pubblico della new media art una dimostrazione di quanto poco abbia senso, nella fase attuale, raccogliere sotto lo stesso ombrello lavori tanto eterogenei per contenuto, approccio, ispirazione, solo perché condividono lo stesso medium.
EMANCIPAZIONE: L’idea di attraversamento del gender è radicata nella pratica curatoriale di Inti Guerrero che si interroga sui meccanismi che definiscono le categorie fisse nell’identità sessuale e di genere. Egli presenta una serie di interventi che tendono a costruire una critica sull’auto vittimismo nei discorsi sull’identità, provando a creare diverse possibilità per rafforzare la soggettività dell’individuo. Da questo punto di vista la sua è una pratica che tende all’emancipazione del singolo da qualsiasi forma di assoggettamento, da modelli o da norme e condizionamenti ambientali. Questa emancipazione all’interno della pratica curatoriale si coniuga in una possibilità di agire in contesti indipendenti dalle logiche di potere, dai format precostituiti e dalle tematiche di tendenza.
CURATORSHIP: Negli ultimi anni si è verificata un’espansione del ruolo e del potere del curatore e un conseguente aumento della letteratura critica al riguardo. Si è assistito al fenomeno del performative curating, della co-curatorship, dalle pratiche collettive alla figura dell’artista-curatore, al proliferare delle Biennali, fino alla questione del display posta in termini nuovi. Se la grande mostra su scala globale è diventata il luogo del dibattito artistico contemporaneo, diventa urgente chiedersi: può ancora la sfera espositiva essere un dispositivo sperimentale? Che cosa rappresenta oggi lo spazio della mostra: uno spazio sotto controllo, disciplinato, uno spazio del conflitto sociale e del dissenso, un modello educativo e/o partecipativo? Una piattaforma, un laboratorio e/o un dispositivo? Uno spazio di negoziazione col mercato o un agente di riflessione e trasformazione? Come creare nuovi paradigmi di curatela? Nella maggior parte degli interventi in materia di esposizioni su scala globale oggi, ciò che viene implicitamente o esplicitamente messo in discussione è il limite del concetto e della forma tradizionale di mostra. Rimane ancora l’attività principale di un curatore ed ha senso fondarla sul vecchio concetto di esposizione?
UnDo.Net è stato network partner dell’iniziativa. La riflessione su questi ed altri argomenti prosegue sulle pagine di questo speciale dedicato al progetto