Arte e Critica Anno 21 Numero 82 estate 2015
Gli anni ottanta erano già finiti... e anche l’avanguardia
Trent’anni fa, nel 1985, apriva il Castello di Rivoli. La sua attività iniziò con una mostra dal titolo breve e conciso, Ouverture, centodiciassette opere di settantuno artisti provenienti dall’Italia (22), dall’Europa (37) e dagli Stati Uniti (12). In realtà fu qualcosa di più di una semplice mostra, fu l’illustrazione di un programma, la messa in evidenza di una strategia operata in accordo con la Regione Piemonte, che finanziò il museo, e con i torinesi, che ne condivisero le scelte artistiche e gli interessi culturali.
A metà degli anni ottanta, in un passaggio importante per la storia della politica e dell’economia dell’Occidente, in un momento di particolare fermento soprattutto per l’Italia, senza troppo scalpore ed anche con un po’ di anticipo rispetto a quanto avverrà poi nelle stagioni successive, a Torino si preparava il terreno per un’alleanza tra pubblico e privato, una sinergia che avrebbe potuto fare scuola nel resto del paese, se non fosse che, come spesso succede, le cose poi prendono troppo la mano...
Quali fossero gli intenti di Rudi Fuchs, nome tutt’altro che sconosciuto in Italia, vicino a posizioni che avevano preso campo negli anni settanta, si esplicita nelle scelte dei nomi degli artisti invitati. Ma prima di addentrarsi nei possibili significati di tali scelte, sarà bene inquadrare lo scenario in cui prendeva forma il progetto. Direttore del museo di Eindhoven, Fuchs ricevette lì la prima visita di Giovanni Ferrero – allora Presidente della Fondazione Castello di Rivoli, già Assessore alla Cultura della Regione Piemonte – e in quella stessa occasione venne investito dell’incarico. Di cosa si trattasse e di come andò l’incontro, lo racconta succintamente lo stesso interessato: “Era arrivato nel tardo pomeriggio e ci eravamo conosciuti chiacchierando davanti a un bicchiere fino a tardi la sera. La mattina dopo mi spiegò quello che voleva: un museo di livello internazionale che alla fin fine facesse tutto ciò che una istituzione di questo tipo normalmente fa”. (Tutte le citazioni sono tratte dal testo di Rudi Fuchs, in Ouverture / Arte contemporanea, catalogo della mostra al Castello di Rivoli, Umberto Allemandi & C., Torino 1985).
Ciò avvenne in un momento particolare, in cui la vera novità della politica culturale del nostro paese era rappresentata dall’impegno profuso dagli enti locali e dagli assessorati alla cultura, che dalla fine degli anni settanta avevano dato vita, con una intensa attività, ad un considerevole fenomeno che presto verrà stigmatizzato con il termine di mostrismo. Non c’era amministrazione locale che non mettesse in campo il proprio apparato per produrre mostre piccole o grandi, belle o brutte, colte o raffazzonate; un processo che, nel bene e nel male, permise l’accesso all’arte ad un più vasto pubblico. Di tale fenomeno, però, lo stesso Fuchs diffidava, e a proposito del suo progetto per Rivoli affermò: “Era un modo di prendere le distanze dalle molte mostre temporanee che si tengono ogni anno in Italia”.
Era un modo anche per superare la pratica dell’effimero e soprattutto per evitare le conseguenze negative che tale pratica – teorizzata nei concettuali anni settanta e portata avanti dall’azione politica più radicale – avrebbe prodotto per un certo sistema di valori. Alla metà degli anni ottanta, in un clima di ristrutturazione sociale e culturale, come effetto anche della ripresa economica che caratterizzò il periodo, la parola d’ordine era, all’opposto, tesaurizzare. Insomma, si voleva trasformare l’effimero in permanente. “Pensavo che fosse importante – scrive sempre Fuchs – tentare una sorta di collezione internazionale per indicare i nostri desideri riguardo un’esposizione permanente”.
Sicuramente, il programma che si apprestava a realizzare, quello di spianare la strada ad un certo tipo di collezione, avrebbe prodotto, alla lunga, una sedimentazione delle scelte artistiche e una conseguente rivalutazione dei valori sostenuti da quelle stesse indicazioni. In tal modo, il Castello di Rivoli giocava d’anticipo, investiva in un programma permanente: costruire un museo, prevedere una collezione.
Può sembrare paradossale pensare che ciò fu possibile proprio grazie al clima di effervescenza e al ruolo da protagonista che la politica (attraverso gli assessorati alla cultura) aveva conquistato nei pochi anni precedenti, ma in realtà fu soltanto uno dei segni tangibili del cambiamento che, a partire proprio dalla metà degli anni ottanta, caratterizzerà la fine del secolo.
Rudi Fuchs partì da una committenza precisa, quella di fare “un museo di livello internazionale che alla fin fine facesse tutto ciò che una istituzione di questo tipo normalmente fa”. Ma il modello di riferimento non era quello parigino del Beaubourg, nato nello stesso periodo in cui vide luce il mostrismo e ad esso complementare. Dedicato a quel presidente francese che vide accadere negli anni del suo governo il fatidico maggio, il Centre Georges Pompidou rappresentò un nuovo modello di museo, immediatamente marchiato, da chi ancora militava dentro l’avanguardia, come il supermarket dell’arte.
Il Castello di Rivoli nasceva con intenti affatto diversi. Quali fossero, si può rintracciare già a partire dalla scelta dei nomi degli artisti e nelle parole che accompagnarono l’evento: “La teoria e le immagini della fondazione di un nuovo museo di arte contemporanea internazionale, il primo e l’unico in Italia”, una sorta di slogan prodotto da Umberto Allemandi & C, editori del catalogo. In queste parole è possibile intravedere con quale orgoglio la Regione Piemonte dava vita all’iniziativa. Un progetto consapevole, stando almeno alle parole di Giovanni Ferrero, che in una successiva occasione ricorderà: “si trattava di realizzare al Castello di Rivoli, una delle residenze sabaude (...) un progetto che chiamasse gli artisti viventi dell’Europa a caratterizzare in modo originale e unico un cantiere non finito e poi abbandonato. Forte era la presenza degli artisti italiani, grandioso il progetto espositivo” (Giovanni Ferrero, “Il progetto Arte Contemporanea della Fondazione CRT / Un impegno politico e culturale”, in Dieci anni e oltre / La collezione della Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea – CRT per Torino e il Piemonte, a cura di Marcella Beccaria e Elena Volpato, Archive Books, Torino 2010).
Dal punto di vista della produzione espositiva, grandioso non si riferiva però all’obiettivo di avvicinare un più vasto pubblico all’arte, che se così fosse stato, si sarebbe potuto affermare fin da subito che il progetto non poteva che essere destinato al fallimento. Non poteva esserci nulla di più lontano dall’idea di dare vita ad un centro di mostre destinato al pubblico, se non nella misura in cui, anche l’avanguardia più recalcitrante e ribelle, avrebbe voluto il suo pubblico. Tutt’altro, il progettò di Fuchs era quello di incardinare l’attività futura del Castello alla realizzazione di una collezione (acquisendo le opere esposte dagli artisti invitati ad Ouverture) come punto di arrivo di una strategia attivata da tempo. Lo sottolinea lo stesso Fuchs, che alle accuse mosse nei suoi confronti: “La mostra presenterebbe arte soltanto affermata”, rispondeva: “Ma quando ho cominciato a lavorare con questi artisti, anni fa, molti di loro non erano affermati”.
Tra il ’78 e l’83, negli anni del mostrismo e del trionfo del modello Beaubourg, si era consumata una frattura decisiva tra due generazioni di artisti, quella transitata per gli anni settanta, fortemente ancorata a posizioni concettuali (per esempio tutti gli artisti riuniti sotto il segno di Arte povera) e quella nativa dello stesso decennio (primo fra tutti Sandro Chia e, a seguire, gli altri, fino al più giovane Nicola De Maria). Ho già avuto modo di scrivere (cfr. “Gli anni ottanta: una modalità di uscita dall’avanguardia”, in “Arte e Critica” n. 80/81) a proposito dell’opposizione, apparentemente ideologica ma in realtà fortemente strategica, tentata da chi voleva strumentalizzare il gruppo più giovane portandolo allo scontro frontale con la generazione precedente. La dimostrazione di ciò si trova in alcune teorie e in molti fatti. Qui sarà sufficiente ricordare un’affermazione, anche se un po’ sibillina, di Rudi Fuchs: “la nostra cultura non ha prodotto punti di vista radicalmente nuovi ed io non sono come certi colleghi che voltano gabbana ogni due anni”. Un’affermazione che potrebbe sembrare oscura ma che è di facile discernimento se ripensata in conseguenza del superamento improvviso di quella civiltà che ancora si rifaceva, scaduto il tempo, all’avanguardia, all’interno della quale continuava a muoversi il nostro curatore: “invece di uno sviluppo oggettivo, io vedo una grande varietà di stili. Un artista annuncia il fallimento morale della pittura, un altro si dà da fare disperatamente per salvare la pittura dal dubbio contemporaneo e un terzo lavora fuori da questo problema che per lui non esiste”.
Ecco rappresentato il dispositivo con il quale Fuchs riassorbiva, dentro un’ipotesi ancora apparentemente d’avanguardia, seppure ormai scaduta, anche la dissidenza più clamorosa, ovvero quella degli artisti che, più o meno correttamente, sono assurti a rappresentanti degli anni ottanta. Una posizione, quella di Fuchs, che si potrebbe affiancare facilmente a quella che, in ambito filosofico, veniva ricondotta al post-moderno, ovvero alla crisi delle grandi narrazioni, e che a noi pare cadere nel vuoto di una problematica attenta ormai soltanto alle convivenze delle diverse scelte linguistiche.
Quando, nel 1981, mi capitò in sorte di curare per conto dell’Associazione piemontese delle gallerie d’arte moderna (APGAM), nella sede della Promotrice delle Belle Arti a Torino, una mostra di giovani artisti che già rappresentavano un cambiamento di sensibilità, la città, nonostante alcune note gallerie avessero già intrapreso rapporti con loro, era ancora fortemente legata alla rappresentanza dell’arte concettuale. Faccio riferimento ad un’esperienza personale non per narcisismo, pratica peraltro sdoganata dalla cultura degli anni settanta, ma perché quella mostra fu la prima a mettere allo stesso tempo in discussione l’immagine monolitica a cui la città sabauda era consegnata e a manifestare le esigenze di una nuova generazione di ritrovare un proprio background culturale, in una continuità storica dove c’era anche, ma non soltanto, un riconoscimento per quel che gli anni settanta avevano fatto e rappresentato.
Razionale Decorativo, così si intitolava, presentava quattordici artisti, tutti impegnati sul fronte del disegno e della pittura, ma non per sostenere uno sviluppo oggettivo, non per difendere la pittura dall’accusa di fallimento morale, né per salvarla dal dubbio contemporaneo, quanto piuttosto per cercare le ragioni interne di un fare che, connaturato alla storia dell’umanità, ridesse senso all’agire umano.
La mostra e le sue ragioni rimasero nell’ombra, attaccata dalle figure più istituzionalizzate, come Luigi Carluccio. Non uno degli artisti presenti nella mostra espose mai al Castello di Rivoli, dove di italiani, a dire il vero, furono sempre in molto pochi ad accedere.
Con Ouverture, Fuchs si inserì in una manovra di riassorbimento di quel tentativo dissidente, in quanto non fanaticamente legato ai moduli dell’arte concettuale, rappresentato dagli artisti più giovani. La manovra fu vincente, in quanto accompagnata da una congiuntura che fece sì che, paradossalmente, le battaglie dell’avanguardia diventassero gli strumenti più sottili per la diffusione dell’ultracapitalismo, dispiegatosi poi, negli anni successivi, con il nome più neutro di globalizzazione.
Rudi Fuchs, coerentemente con la sua formazione, in sintonia con la sua generazione, spiegava che sarebbe partito da una regola precisa: “decisi rapidamente di esporre solo opere di artisti viventi”. La regola piacque molto anche a Giovanni Ferrero che la volle ricordare, raccontando delle sue occasioni di rapporto con l’arte contemporanea. La motivazione di tale scelta fu di ordine pratico, si sarebbero in tal modo semplificate le successive operazioni di acquisizione delle opere; “un altro motivo per chiedere i lavori direttamente agli studi (o alle gallerie che rappresentano gli artisti) – spiegava infatti Fuchs – era che normalmente questi lavori erano ancora in vendita”.
Per il critico questa era una scelta “pratica ed arbitraria”, una scelta che, con grande realismo, veniva ricondotta ad una esigenza minima di carattere operativo, del resto “bisogna pure partire da qualche parte e in qualche modo” e, nei fatti, “questo avrebbe reso la collezione più reale e meno idealistica perché i lavori potevano essere proprio comperati e formare il nucleo di collezione vera del Castello”.
Privilegiare gli artisti viventi ha significato escludere gli altri, quelli morti. Questo ha di fatto significato avallare la rimozione della storia, cancellare le identità, negare la tradizione, tre operazioni di cancellazione tra le più funzionali alla diffusione pervasiva della globalizzazione.
Escludere chi non è più produttivo, ecco un’altra operazione per la quale è passata poi la precarizzazione dell’esistenza, per la quale è passata l’obsolescenza programmata. Ad essa sono destinati, non solo i prodotti industriali ma, ormai, anche gli artisti e, forse, anche l’arte, se non fosse che negli ultimi tempi si è dimostrata così adatta alla speculazione finanziaria.
Per tornare al Castello di Rivoli oggi, trent’anni dopo quell’apertura si deve constatare che, come scriveva Ferrero nell’occasione prima ricordata: “purtroppo, nonostante alcuni isolati tentativi, questo progetto di collezione sognata con Ouverture non diventò mai realtà”. La collezione attuale è in buona parte in comodato d’uso e di proprietà privata.