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Arte e Critica Anno 20 Numero 78 aprile-giugno 2014



Ah, si va a Oriente! Cantiere n.1

Daniela Bigi



trimestrale di cultura artistica contemporanea


SOMMARIO N. 78

IN COPERTINA
Christian Schwarzwald
veduta della mostra LEAN presso
dispari&dispari project, Reggio Emilia, 2014
Courtesy dispari&dispari project, Reggio Emilia. Foto Dario Lasagni

040 christian schwarzwald. Everybody makes drawings
Intervista a cura di / Interview by Andrea Sassi
042 GLI ANNI OTTANTA. una modalità DI USCITA DALL’AVANGUARDIA
di Roberto Lambarelli
046 De-genderings. Una conversazione con / A Conversation with Derek Di Fabio
di / by Astrid Korporaal e / and Guido Santandrea
050 Michelangelo Consani: gli elefanti bianchi e le patate / the white elephants and the potatoes
di / by Ilaria Mariotti
053 RAM radioartemobile. Tra modalità intermediale e sguardo aptico
Between intermedia modality and haptic gaze
di / by Moira Chiavarini
058 Broadcasting green lights: Hito Steyerl e le bombe invisibili / Hito Steyerl and the invisible bombs
di / by Vincenzo Estremo
060 Annina Nosei. “Il faut que tu te transforme en argent”
Conversazione con Roberto Lambarelli
064 il carattere della Pittura Analitica. una ricostruzione
the character of the analytical painting. A reconstruction
di / by Marcello Carriero
071 la costruzione infinita di Vittorio Messina
di Giovanna dalla Chiesa
074 I titoli e le cose
di Riccardo Giacconi
076 A proposito di arte italiana e femminismo negli anni settanta
di Ada De Pirro
077 John Berger e lo studio dell’immagine a 360°
di Paolo Aita
078 A che punto è la Social Art?
di Paolo Aita
079 Annotazioni per immagini, libri, parole
di Luca Galofaro
082 L’alternativa di Shigeru Ban
di Gianfranco Toso
084 Atlas: come abbiamo imparato a non preoccuparci e ad amare la tradizione
di Guido Brandi, Ruggero Cipolla, Marco Guerra, Federico Rossi e Jacopo Vantini
086 A.A.M. Extramoenia: una serie “enciclopedica” in divenire.
Ex-porre: luoghi della storia, luoghi della contemporaneità
di Lorenzo Pietropaolo
088 Materiali, superfici, stratificazioni
di Sabrina Lucibello
089 Chiasmi esteticI/materici/funzionali. TRAsposizioni
di Enza Migliore
114 Every Picture Tells a Story.
Dispositivi di narrazione nel lavoro di André Romão, Pedro Barateiro e Musa paradisiaca
di Claudio Zecchi
116 Enter the Ghost – Exit the Ghost
di Eleonora Farina
117 Leonardo Petrucci. disequilibri simbiotici. uomo, natura
di Andrea Ruggieri
118 Politicamente parlando. h.h. lim. punti di vista tra Oriente e Occidente
di Rossella Moratto
120 Peter Halley, interfacce e percezioni / interfaces and perceptions
di / by Francesco Lucifora
122 Thomas Grünfeld: intrusioni della scultura nel domestico e nel mondo animale
intrusions of sculpture into the domestic and animal world
di / by Viana Conti
124 Markus Schinwald. Scenografia per un corpo instabile / Stage set for an unstable body
di / by Giulia Mengozzi
126 La mise en scène di Mark Manders alla Collezione Maramotti
The mise en scène of Mark Manders at Collezione Maramotti
di / by Giovanna Manzotti

91 Andrew Norman Wilson (con Nick Bastis) e Olivia Erlanger
93 Dan Shaw-Town e Josh Tonsfeldt
98 Cildo Meireles 99 Gianfranco Baruchello
101 Flavio de Marco
102 Tony Fiorentino
102 Sabrina Mezzaqui
102 Loris Cecchini
103 Tatiana Trouvé
104 Francesco Bertocco
105 Loredana Longo
106 Thorsten Kirchhoff
107 Roberto Pugliese
107 Alessandro Di Pietro
108 francesco guerrieri
109 Mafai, Kounellis
111 hidetoshi nagasawa
112 Brunella Longo



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Ah, si va a Oriente!, veduta dell’installazione, 2014.
Da sinistra: Gianluca Concialdi, Padiglione arrotolato; Andrea Kvas, senza titolo, particolare. Fondazione per l’Arte, Roma

Vincenzo Schillaci, Catastrofi ed altre trasformazioni, 2014, cera vergine. Fondazione per l’Arte, Roma

Giuseppe Buzzotta, Il cuore reciso della terra, 2014. Fondazione per l’Arte, Roma

Con la sua secolare capacità rigenerativa, in un momento di vuoto istituzionale, Roma dà vita ad un nuovo progetto, incentrato sulla individuazione e valorizzazione della scena artistica emergente italiana. Nasce ad opera della Fondazione per l’Arte, presieduta da Ilaria Bozzi e Flavio Ferri, che in tempi di crisi tornano a ragionare in termini di mecenatismo.
Come primo progetto – mentre vengono gettate le basi per una attività più complessa che abbracci varie discipline oltre che altri paesi – stiamo lavorando insieme sull’arte dei più giovani, con l’obiettivo di indagare l’entità e la profondità dei loro assunti. Si tratta delle figure che stanno emergendo in questi anni dieci, una generazione determinata, consapevole, portatrice di posizioni molto distanti da quelle che identificano la cultura artistica degli anni novanta e Duemila, come è ovvio che sia.
Va detto intanto che uno dei tratti salienti della scena italiana ed europea più recente va identificato nel proliferare degli spazi indipendenti, in molti casi gestiti dagli stessi artisti. Una modalità che nel corso del Novecento (e con qualche forzatura potremmo andare anche qualche decennio più indietro) si è affacciata tante volte, spesso a preparare i momenti più gloriosi dell’arte. Quasi come degli incunaboli. Di certo in Italia hanno giocato un ruolo determinante proprio nel momento in cui una delle crisi economiche e culturali più profonde della nostra storia ha lasciato soprattutto la generazione emergente orfana del futuro, ma a ben guardare anche del passato recente, quello stesso che ha condotto a questa crisi, un passato da cancellare. Gli artist run spaces, gli spazi progetto, nati nelle grandi città, al centro del sistema, così come nelle più marginali periferie geografiche, hanno tenuto viva la necessità del cercare, hanno espresso il proprio dissenso rispetto ai meccanismi triti e distorti del sistema, ma al contempo hanno lavorato a costruire una propria visione, dell’arte ma soprattutto del mondo. Il dissenso non si è fermato alla teorizzazione e organizzazione della rivolta, si è fatto costruzione, sostanza, edificio valoriale, a Milano, a Sassari, a Torino, a Palermo…

Molta parte l’ha giocata la necessità del fare condiviso, del pensare facendo, del laboratorio. È da questa dimensione irrinunciabile di riappropriazione del tempo, dei modi, degli orizzonti del fare che questi artisti sferrano il loro attacco. Senza clamori, senza proclami, con la determinazione di chi non intende accettare la condizione di orfano (di futuro, di passato) e neppure quella di pedina riverente dello scacchiere tardocapitalista. Non c’è ingenuità, lo sanno bene che siamo tutti pedine, studiano la storia e la politica. Ma tornano alla filosofia e alla sua ambizione di restituire il presente al presente, l’uomo all’uomo.

Il Mandrione, una delle aree più degradate della Capitale, la zona delle baracche costruite dentro gli archi dell’Acquedotto dopo il bombardamento di San Lorenzo del ’43, approdo degli emigranti meridionali e rifugio delle fasce più emarginate del tessuto sociale, il Mandrione di Rossellini, di Moravia, di Pasolini, di Franco Pinna, il Mandrione dei documentari e degli studi sociologici, delle “classi differenziali” e della Scuola 725, riqualificato a partire dalla metà degli anni ’70 con la giunta Argan, è oggi pronto a restituire attraverso l’arte quel portato di umanità di cui è stato testimone, albergo, e che gli intellettuali hanno rintracciato molto presto. Nel suo essere in qualche modo un luogo di resistenza, una specie di paese, dove i ritmi forzati della città vengono ammortizzati da quelli lenti della dimensione artigianale, dove i ruderi romani costringono ad una differente visione del tempo e delle relazioni spaziali, il Mandrione ben si presta ad accogliere il ritmo di questa nostra indagine e proposizione, che vuole essere audace mentre è operosa.
L’idea del cantiere di lavoro, che impronta poi tutto il programma della Fondazione, si addice perfettamente all’articolazione di questo progetto inaugurale, pensato come laboratorio intellettuale, materiale, ideativo, come spazio che si offre all’istanza rifondativa della nuova generazione, procedendo per “cantieri” successivi, step by step.

Il primo appuntamento prende il titolo dal passato recente del Mandrione. Ah, si va a Oriente! è una libera citazione da un verso di Pasolini contenuto in L’uomo di Bandung, una sorta di viaggio fisico e mentale che inizia con un invito a fuggire a Oriente e che si traduce poi in una scampagnata nella periferia romana, quella a Est appunto, a Oriente, quella delle borgate limitrofe all’Acquedotto. Quel suo “Ah, fuggiamo a Oriente” era l’esortazione ad esplorare una dimensione di alterità psicogeografica che in qualche modo quelle periferie potevano incarnare, la stessa alterità che egli ricercava nel Mediterraneo, in quella sua idea di Terzo Mondo, un’alterità rispetto ai processi degenerativi dell’Occidente, una resistenza alla disumanizzazione progressiva di cui si faceva portatrice la nostra società.
Per questo primo cantiere ho scelto quattro artisti coinvolti attivamente nella rete degli spazi indipendenti. Andrea Kvas, che ha lavorato ripetutamente nella condizione del laboratorio e negli spazi progetto, Gianluca Concialdi, che con Guido Santandrea ha fondato Anonima Nuotatori a Milano/Londra, Giuseppe Buzzotta e Vincenzo Schillaci, che insieme hanno creato L’A project space a Palermo.

Sono artisti tra i 27 e i 30 anni circa, esprimono forti autonomie nel linguaggio ma condividono alcuni presupposti, per esempio la necessità di riappropriarsi della manualità, dei processi, della materia, delle tecniche artigianali, della storia materiale, del tempo per arrivare ad una formulazione di immagine. Sì, rivendicano la necessità del tempo per costruire l’immagine, e tornano a pensare l’immagine come visione complessiva del mondo. Usano il frammento, ma per tornare ad inserirlo in una grande narrazione, non gli basta più collazionare frammenti, giustapporli, esibirli come fossero archeologi o etnologi. Cercano il terreno di incontro delle differenze e su quel terreno intendono ripartire con una nuova edificazione, hanno bisogno di riprendere e ridiscutere il senso interrotto della storia. C’è una presenza fisica nel loro agire, che sia il dipingere a terra con vocazione spaziale e inclusiva di Kvas, che sia l’impastare a terra colla paglia pigmenti, tra pittura/scultura/architettura, di Concialdi, che sia il tamponare con resine e gommalacca le tavole di legno per interrogarne tracciati e echi sonoro/simbolici di Buzzotta o il calcare segni e gesti di Schillaci nella cera naturale, o nel gesso, per costruire, o ricostruire, il senso delle immagini.
C’è un processo lento che permette, innanzi tutto a loro stessi, di assistere a delle trasformazioni e di procedere per via di trasformazione. L’attitudine è radicale. È edificatoria anche laddove implica la contemplazione. È finanche titanica, come dimostrano alcune opere realizzate nel capannone del Mandrione. Ma non si tratta di un titanismo machista, né il rimando deve andare alle tonnellate di ferro o pietra o terra degli anni settanta. È piuttosto il corpo a corpo dell’uomo del XXI secolo con la coltre di barbarie che si è sedimentata ogniddove, è il tentativo di penetrarla, di scavare un varco, a partire dal proprio corpo, dal proprio studio, dalla propria misura, per opporre qualcosa di reale, di esperito, di autentico, alla pesantissima vacuità onnivora dell’intorno. C’è la necessità di non demandare, di non sublimare. Lo scontro è in atto, e cerca i propri strumenti tra quelli in via di obsolescenza, tra quelli che l’uomo si era trasmesso per millenni e che aveva selezionato lungo quel costante processo di interrogazione della natura e parimenti del progresso, quegli strumenti con i quali ha costruito la civiltà. Sono gesti che riportano, come dicevo, l’uomo all’uomo, il pensiero al pensiero, che rimandano a quel famoso guardare indietro per meglio saltare in avanti. Contro la tecnologia? Assolutamente no. Piuttosto contro il pensiero che strumentalizza la tecnologia per perseguire fini disumani e disumanizzanti.
Nelle tre settimane di residenza al Mandrione ci si è volutamente isolati e concentrati in uno stare che era necessario al lavoro ma che in qualche modo cifrava anche una attitudine, quell’attitudine che sola avrebbe permesso di sorprendersi per gli “accadimenti” della pittura di Kvas o della cera di Schillaci, per i sempre nuovi piani di profondità delle tavole di Buzzotta, per il ritmo lento e la ritualità tutta umana che formavano e informavano la struttura di paglia di Concialdi.
Tutto questo senza sottrarsi alle visite di molte acute figure del mondo dell’arte, tra collezionisti, artisti, galleristi e curatori, che in diversa forma e con modalità imprevedibili sono entrati a far parte, così come desideravamo, dei processi di realizzazione e delle finalità stesse del cantiere.