Arte e Critica Anno 15 Numero 60 settembre-novembre 2009
La manica lunga del Castello di Rivoli è allestita con quella che senza dubbio può dirsi la più grande retrospettiva mai realizzata dell'opera di Gianni Colombo.
La galleria si presenta in un'articolazione espositiva che fa della costante evidenziazione delle variazioni percettive proprie dell'opera, e dello spazio di relazione che questa condivide e crea con lo spettatore, la questione fondamentale del discorso curatoriale firmato da Marco Scotini e Carolyn Christov-Bakargiev.
L'ambiente longitudinale della mostra è un alternarsi di positivi e negativi, in spazi bianchi e neri, scuri e illuminati,che intendono suggerire il sovvertimento della condizione originaria di uno spazio verso nuove possibilità di percepirlo e di viverlo, o meglio, di farne l'esperienza. Il fattore della percezione nella fruizione dell'arte incrocia da sempre molteplici problematiche, così come molteplici, e seminali, sono le declinazioni delle ricerche cinetico-spaziali compiute dall'artista nel suo percorso, dagli anni del Gruppo T fino alle Architetture cacogoniometriche.
Tra queste ricerche, una delle più esemplari e significative del suo operare è senz'altro quella che lo ha portato alla creazione dello Spazio elastico, esposto per la prima volta a Trigon 67, a Graz (1967), e ad essere premiato, con quest'opera, l'anno seguente alla XXXVI Biennale di Venezia. Nello Spazio elastico accade che in un ambiente praticabile oscurato, la struttura a forma di cubo è ridotta alla sua stereometria, costruita per mezzo dell'incrocio di fili bianchi resi luminescenti da luci al neon Wood. Quegli stessi fili sono mossi meccanicamente a distorcere, quasi fosse un organismo in movimento, le coordinate del volume di partenza. La permanenza all'interno della struttura induce a capire come si tratti di uno spazio dello “straniamento” in grado di inscenare “come funzionano le tecniche al livello del processo d'assoggettamento, come i gesti sono diretti, come sono formati gli schemi percettivi e quelli mentali,come i soggetti sono costituiti in quanto effetti di condizionamenti anonimi”, afferma Scotini nel testo in catalogo.
Gianni Colombo affronta quindi, prima e meglio di altri, la questione del dispositivo in quanto momento di governo privo di fondamento nell'essere e che presuppone perciò processi di soggettivazione, per dirlo con Agamben.
Nel percorrere la mostra, dominano gli odori provenienti dai motorini in affanno che muovono freneticamente le Strutturazioni pulsanti, le Roto-optic ed altre opere pensate e realizzate negli anni della Milano industriale, quella in cui i corpi si vedevano muovere in massa verso e dai luoghi della grande industria, dove la catena di montaggio rappresentava l'andamento lineare proprio della prima società dei consumi. Una dimensione fordista, dove il tempo della vita, per i grandi numeri, è ridotto ad un movimento regolare e normato dalle architetture del lavoro, del tempo libero e persino del luogo domestico.
Quando Monicelli filma Renzo e Luciana all'interno di Boccaccio 70, a partire da un testo di Italo Calvino, il grottesco scritto sopra le vite dei protagonisti sembra riflettersi negli spazi che questi abitano, ovvero i luoghi della Milano fine anni '60, sempre troppo affollati per permettere condotte autonome, non previste. Ed è proprio per possibili processi di autodeterminazione dello sguardo, come afferma lui stesso nel '67, che Colombo intraprende le sue ricerche, magari pensando proprio all'inconsapevolezza insita nei comportamenti collettivi delle masse. La destabilizzazione del punto di vista, la fragilità a cui è sottoposta la nostra percezione aprioristica sono solo alcune delle caratteristiche che emergono dalla relazione dello spettatore con lo spazio dell'arte costruito da Colombo.
La teatralità insita nelle azioni che gli ambienti e le opere dell'artista ci portano a compiere, non ha nulla a che vedere con la rappresentazione, ma piuttosto con le pratiche di relazione e di liberazione dello sguardo e del corpo, che risultano oggi ancora più urgenti e necessarie. Soprattutto attraverso quella componente ironica keatoniana che è stata la cifra stilistica di tutta la produzione di Gianni Colombo.