cura.magazine Anno 2 Numero 3 gennaio-marzo 2010
Nella smisurata bibliografia che riguarda Marcel Duchamp, c’è ancora posto per interessanti proposte: la biografia firmata da Bernard Marcadé, recentemente tradotta in italiano, ed il catalogo edito dal Philadelphia Museum of Art con gli ultimi sviluppi su Étant Donnés.
Nel 1955, in una celebre conversazione filmata con James Johnson Sweeney, allora direttore del Guggenehim di New York, Marcel Duchamp racconta cosa lo ha portato nel 1941 a realizzare la Boîte-en-valise, il suo museo portatile in scatola: “cercavo un nuova forma di espressione […] non sapevo come regolarmi. Pensavo ad un libro ma quest’idea non mi piaceva”. Duchamp sembra fuggire da ogni forma di sistematizzazione della propria opera, preferendo la strada dei riferimenti a spirale, delle notazioni discontinue e delle dichiarazioni frammentarie, aperte. Questo disinteresse (quantomeno apparente perché sappiamo della grande attenzione con cui ha seguito la preparazione della prima monografia a lui dedicata da Robert Lebel tra il 1953 e il 1957 e del continuo interessamento per la destinazione “finale” delle sue opere, che ha permesso la costituzione del nucleo conservato ora a Philadelphia) è stato il primo grande stimolo alla proliferazione di saggi che hanno cercato di trovare una via di accesso al multiforme mondo di Marcel Duchamp.
Partendo dall’evidente e indissolubile rapporto tra la vita e le opere dell’artista, alcuni studiosi hanno scelto di seguire una interpretazione a doppio registro. Così ha fatto Achille Bonito Oliva con il suo A.B.O.: M.D. (Costa & Nolan, Milano 1997) – tra l’altro mettendosi duchampianamente in gioco in prima persona – accompagnando i saggi con un ricco apparato iconografico, in cui significativamente sono mescolate fotografie della vita di Marcel Duchamp, le immagini dei luoghi dove ha vissuto e le sue opere, senza alcuna apparente differenziazione.
La biografia firmata da Bernard Marcadé, recentemente tradotta in italiano per Johan & Levi, ha il grande pregio di contestualizzare le affermazioni, i testi, i commenti, gli aneddoti che sono sempre raccontati, citati, ripescati e spesso decontestualizzati, in una sequenza cronologica lineare, comprensibile. Raccontata nel tono asciutto ma curioso dell’autore, che ha costruito la narrazione attraverso un collage filologico di dichiarazioni e documenti, la “vita a credito” di Marcel Duchamp scorre nelle righe del libro con precisa leggerezza. Senza indugiare sulle lunghe interpretazioni ibride, gli interrogativi non risolti, l’autore ha privilegiato il racconto piano, pacato, che ha il tono del distacco per il quale Duchamp stesso era rinomato e lascia spazio alla corretta distanza cronologica tra azioni, eventi e riflessione teorica.
Insieme agli avvenimenti della vita dell’artista, Marcadé segue il filo dei suoi interessi, delle letture (l’amore per le poesie di Jules Laforgue e l’influenza delle Impressions d’Afrique di Raymond Roussel; l’interesse per l’individualismo radicale di Max Stirner e per il “diritto alla pigrizia” di Paul Laforgue), rintracciando le radici delle idee che hanno guidato le sue scelte: dal rigoroso rispetto della compenetrazione dei contrari e della “logica non esclusiva”, alla scelta di una radicale “libertà d’indifferenza”, condizione alla base dell’indifferenza visiva del readymade, la speculazione attorno all’“infra-mince”, l’infrasottile distanza tra le copie, il profondo antimilitarismo. Dal contesto provinciale borghese della cittadina della Normandia in cui Duchamp nasce e cresce, al primo soggiorno parigino con i rapporti difficili con l’avanguardia e i legami con i fratelli, gli esordi in sordina e “i bruttissimi nudi” che Apollinaire vede in una mostra del 1910, la sua amicizia con Picabia e la moglie, il soggiorno solitario a Monaco, l’arrivo a New York nel 1915 che l’accoglie come l’artista-scandalo del Nu descendant un escalier e la nascita del sodalizio con Louise e Walter Arensberg, i mesi a Buenos Aires, il ritorno a Parigi nel 1919 e l’incontro con Breton; poi la vita divisa continuamente tra un continente e l’altro. Gli anni più silenziosi, cupi della vita di Duchamp, fino alla rinnovata serenità dell’ultimo periodo, con la moglie Teeny, il successo tributatogli dagli artisti delle nuove generazioni e la morte improvvisa, rapida, avvenuta a Parigi dopo una cena a casa con Man Ray e Robert Lebel, amici di sempre, nel 1968.
Mentre sullo sfondo scorrono gli avvenimenti cruciali della prima metà del XX secolo, Duchamp escogita diversi modi per trovarsi da vivere - “per poter non dipendere dalla mia pittura” dice al tempo del suo primo soggiorno parigino, quando lavora come bibliotecario alla Sainte-Geneviève - divenendo di volta in volta disegnatore di vignette umoristiche, creatore di calembour, editore, insegnante di francese per ricche signore newyorkesi - di un francese spesso indecente, ricco di termini slang -, proprietario di una tintoria a New York e contemporaneamente scrupoloso e diligentissimo mercante e agente di Brancusi, book designer, curatore di mostre, giocatore di scacchi dallo stile “onesto e serio, con una freddezza imperturbabile”, ideatore di un sistema di puntate “infallibile” a Monte Carlo - “per costringere la roulette a diventare un gioco di scacchi” - che si dimostra del tutto inefficace. Scegliendo di vivere con il minor dispendio possibile - perché “vivere è una questione di quanto si spende, non tanto di quanto si riesce a fare”, ma anche perché “in me c’era un fondo enorme di pigrizia. Preferisco vivere, respirare, piuttosto che lavorare” - usa studi del tutto anonimi, quasi semplici “allevamenti di polvere”; ama il buon cibo, ma finisce con il nutrirsi il più delle volte con crackers e tavolette di cioccolato svizzero.
Dicono di lui, soprattutto le donne, che fosse un uomo di grande fascino: “bello da non crederci, dotato di un potere di seduzione estremo di cui si serve senza mai abusare, e soprattutto senza accorgersene, di una cortesia come non si usa più”, forse solo un po’ freddo, distante “molto elegante, curato, dava sempre l’impressione di essere appena uscito da una scatola, impacchettato”. Ettie Stettheimer, nella descrizione del pittore Pierre Delaire - personaggio direttamente ispirato a Duchamp del suo romanzo Love Day - racconta che “il suo discreto e delicato classicismo, dall’impronta ironica e cerebrale, pareva possedere della bellezza tutto fuorché il palpito suo proprio”. Pur essendo l’erotismo - in termini filosofici, alchemici o persino pawloskiani - tema e strumento ricorrente nella produzione duchampiana - “voglio afferrare le cose con la mente come il pene è afferrato dalla vagina” - egli è deciso a non crearsi rapporti stabili, almeno in giovinezza. “Esporre sa tanto di sposare” scrive a Jean Crotti negando simultaneamente la possibilità di entrambe le cose. Le donne scorrono sulle pagine del libro senza lasciare tracce profonde: Beatrice Wood, Elsa von Freytag, la stravagante animatrice dell’avanguardia newyorkese disperatamente attratta da Marcel, Ettie Stettheimer, - che scrive ironicamente a Duchamp “vorrei essere su misura per te, per te / Ma sono un readymade per natura, perché, perché?”, Mary Reynolds, Peggy Guggenheim. Traspare una vera passione solo nella corrispondenza con la scultrice brasiliana Maria Martins, modella e musa nei primi anni di Étant Donnés, quando - forse non a caso - la sposa parrebbe aver incontrato il celibe, al di là del grande vetro.
La biografia termina proprio con Denise Browne Hare che fotografa Étant Donnés, lavoro realizzato in gran segreto negli ultimi venti anni di vita dell’artista, nello studio di New York e con le considerazioni di apertura del Manual of Instructions in cui sono spiegate le modalità per riallestire il lavoro al Philadelphia Museum of Art.
Inevitabilmente la storia di Duchamp prosegue oltre la morte: il disvelamento del suo ultimo lavoro, che deve il titolo a una delle annotazioni più importanti della Boîte Verte (l’insieme di documenti pubblicato da Duchamp nel 1934 come una sorta di guida al Grand Verre), ha prodotto reazioni e profonde riletture dell’intera opera dell’artista. Solo per citare alcuni dei saggi più celebri, entrambi focalizzati sul rapporto tra i due grandi capolavori duchampiani: il testo di Octavio Paz per il catalogo della prima mostra al Philadelphia Museum of Art del 1973, ampliato nel volume Apariencia denuda (edizione originale Era, Mexico 1973; versione italiana Apparenza Nuda, Abscondita, Milano 2000 con traduzione di Elena Carpi Schirone) e i vari articoli di Jean-François Lyotard, raccolti in Le transformateurs Duchamp (edizione originale Editions Galilée, Parigi 1977; versione italiana: I TRANSformatori Duchamp, Hestia, Como 1997 con traduzione di Elio Grazioli).
A quarant’anni dalla celebre mostra in cui per la prima volta l’ultima opera di Duchamp è stata resa pubblica, il Museo di Philadelphia ha realizzato una nuova esposizione, conclusasi lo scorso novembre, in cui sono stati riuniti un centinaio di lavori con una ventina di inediti, fra cui stampe e note dell’artista e le settanta Polaroid di Denise Browne Hare. Nel catalogo sono pubblicati recenti saggi sulla storia e sulla costruzione del lavoro, sono analizzate con profondità le reazioni seguite al suo disvelamento e l’ascendente che questo primo environment ha avuto su artisti come Ray Johnson, Hannah Wilke, Robert Gober, Marcel Dzama. Inevitabilmente l’ultimo capitolo di questa storia sembrerebbe essere costituito dall’eredità ricca e ingombrante, e duchampianamente contraddittoria, lasciata alle nuove generazioni. Se è vero che gli artisti contemporanei - per usare le parole di Picasso - “svaligiano il magazzino di Duchamp limitandosi a cambiare gli imballaggi” e che persino Beuys per reagire all’ostinata libertà d’indifferenza nel 1964 ha realizzato l’azione The Silence of Marcel Duchamp is Overrated, Jeff Wall ha riconosciuto l’ambivalenza di questa eredità, affermando che proprio Étant Donnés, scoperto nel 1969 - anno di punta dell’esperienza concettuale - rappresenta la via d’uscita dalla negazione operata dal readymade, dalla questione della possibilità o dell’impossibilità dell’opera d’arte. In fin dei conti come ha detto John Cage “resta sempre il rischio che [Marcel Duchamp] esca dalla valigia dentro cui l’abbiamo messo”.
Le citazioni sono tratte da Bernard Marcadé, Marcel Duchamp. La vita a credito, Johan & Levi, Monza 2009 e Marcel Duchamp. Critica, biografia, mito, a cura di Stefano Chiodi, Electa, Milano 2009. Le parole di Jeff Wall sono tratte dal suo intervento al First Annual Anne d’Harnoncourt Memorial Symposium, Philadelphia Museum of Art, settembre 2009.