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ArteSera Anno 1 Numero 5 aprile 2011



La mente nella caverna

Alberto Salza



Il primo free press di Arte Contemporanea per tutti


SOMMARIO ArteSera n°5


COPERTINA: Bansky (di Olga Gambari)

La mente nella caverna (di Alberto Salza)

RACCONTO DELL’ARTE: Arte al muro (di Roberto Tos)

COLLEZIONE ARTESERA: BR1

TURIN TALKING BLUES #2 (di Alberto Salza)

SOCIAL MEDIA: Street ArtTo (di Luca Indemini)

INTERVISTA: Galo – se il graffito va in galleria

RASSEGNE: Arte Urbana a Torino

AGENDA MUSEI

AGENDA GALLERIE

VISITA GUIDATA: Cripta 747

RECENSIONE: Fatma Bucak

EXTRA: Street Art 1861 (di Dario Uetto) / 20x20: l’Italia è una Repubblica fondata sul cibo
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Si dava enorme valore a immagini realistiche e rappresentazioni accurate,
come parte dell’abbraccio europeo all’empirismo e all’espansione di conoscenza e potere.
Una società la cui arte fosse astratta o simbolica non avrebbe mai cercato tanta verosimiglianza.

Rebecca Solnit, River of Shadows. Edward Muybridge and the Technological Wild West
(Viking, New York 2003, p. 15)


L’arte è uno stato mentale e operativo a funzionamento “tutto o niente”: SI-NO. Non c’è qualcosa che sia “quasi arte”. I primi segni sono apparsi dal nulla su una parete rocciosa, oltre settantamila anni fa. Non ci sono prove d’artista, abbozzi, tratti maldestri, scarabocchi; il graffito rupestre è subito lì, preciso, nella caverna: due pezzi di ocra incisa a Blombos Cave, in Sudafrica. Qui i segni sono intrecci organizzati di linee, secondo un modello logico di pensiero astratto, e non banali descrizioni di realtà. Una sintassi di pensiero, la cui origine è bio-chimica, si è concretizzata in un oggetto, su una superficie minerale. Da lì, con le migrazioni di Homo sapiens, l’algoritmo logico-creativo si è diffuso per un arco di tempo lunghissimo, in luoghi lontani, tra popolazioni differenti per genetica e cultura.
I numerosissimi segni simbolici (la spiegazione “quotidiana” è scartata al 90%) sono la più antica e durevole trasformazione del paesaggio (esterno e/o interno) fatta dall’uomo: la costruzione di un territorio, l’antropizzazione simbolica di un ambiente naturale, la pre-invenzione biotica della città futura. Come fosse l’allucinazione percettiva di un vagone di treno colorato a grandi lettere cubiche che ci sfreccia davanti agli occhi; oppure analogamente allo sfasamento spazio-temporale che ci danno le pareti di una fabbrica in disuso che si aprono su visioni di florida natura marziana.

Attenti: non esiste l’”arte rupestre”. Esistono pitture e graffiti su roccia, di cui è praticamente impossibile determinare l’epoca. Niente tempo, niente storia. Niente storia, niente autori. Come per i graffiti urbani. Ciò nonostante, le immagini rupestri sono state fatte da qualcuno, qualcuno che si procurava da mangiare in qualche modo, che manteneva rapporti di parentela con i genitori, che condivideva pensieri e parole con i contemporanei. La storia che noi dovremmo scrivere è quella dei pittori, non delle pitture; degli incisori, non dei graffiti. E anche di chi li guardava e perché.
Lo spettatore urbano è soggetto a continui fenomeni di sinestesia, se è capace di coglierli: contemporanee visioni e sonorizzazioni emesse dal paesaggio; luci rosso-giallo-verde che sono ordini; trilli che collegano a distanza con più persone contemporaneamente. Così come il Sahara è, per i nomadi, un’immensa città virtuale, così ogni superficie ortogonale all’occhio urbano è un “velo di trascendenza” tra noi e l’ultramondo.
La caverna del Paleolitico, per mezzo di assenza di luce, mancanza d’aria, pericolosità, forma ctonia, fu l’ambiente ottimale per l’esperienza trascendente degli Stati Modificati di Coscienza (SMC), e della loro rappresentazione graffita o dipinta. Gli SMC possono essere indotti da: ingestione di sostanze psicotrope (allucinogeni); ipnagogia; esperienze pre-morte; ritmo e danza intensivi; esperienza uditiva (musica, canto, battito di mani, percussioni); stimolazione elettrica, luce stroboscopia o intermittente (fuoco); fatica; fame; deprivazione sensoriale; dolore estremo; concentrazione e meditazione; emicrania; epilessia temporanea; schizofrenia o altre patologie cerebrali.

L’esperienza SMC passa attraverso tre stadi e un intermezzo:

1.Endottiche: la chimica del cervello produce segni luminosi (griglie, linee parallele, puntini luminosi, zigzag, onde, filigrane, spirali); tali segni sono presenti in tutte le province dell’arte rupestre.
2.Construali: il cervello organizza le endottiche in forme meno geometriche, collegate alle esperienze delle diverse popolazioni (“uomini-fiammifero” a zigzag, giraffe reticolate, teste a puntini); anche queste forme sono ovunque.
3.Intermezzo: si ha l’esperienza di entrare in un vortice (spirale) con sensazione di annegamento; la spirale connette con l’ultramondo ed è diffusa ovunque come simbolo potente.
4.Allucinazioni: all’uscita dal vortice, endottiche e construali si rielaborano in percezioni “reali” collegate alla cultura di riferimento; sono questi i rupestri più dettagliati.

A questo punto, le immagini portano con sé significati sia simbolici sia metaforici e non riduttivamente aneddotici. La parete di roccia è l’interfaccia a due vie con il mondo dello spirito visitato durante le esperienze SMC e cerimoniali. La caverna con immagini è un’espansa rappresentazione “roccia-arte” della mente di autori e spettatori (meglio: partecipanti): un altro “velo di trascendenza”.
Pensate alle mani dipinte sulle pareti di tutto il mondo, dall’Europa alla Patagonia, dal Sahara alla Cina. Alcune sono in positivo: sporcata la mano nel colore, l’artista la poneva sulla roccia, lasciando l’impronta. Altre sono in negativo: con una canna, il colore veniva spruzzato attorno alla mano. Ecco lo scambio artistico che offre il mondo dei graffiti: se volete passare potenza, allora poggerete la mano sulla superficie; se desiderate recuperare potenza dal mondo dello spirito, allora aprirete un canale con il vuoto lasciato dallo stencil del palmo che, a quel punto, non vi appartiene più. Non è importante cosa mettiamo nei pieni dei graffiti urbani; fondamentale è quello che esce dai vuoti. La mente nella sotterranea guarda la musica, ascolta la danza. Io l’ho fatto in Africa, con gli uomini delle caverne. E ne ho viste di cose.


Inventiamo noi stessi come unità in questo mondo di immagini da noi stessi creato.
Friedrich Nietzsche


Nota di campo A
Jackal Spits, a ovest di Ghanzi, deserto del Kalahari, Botswana, 28 luglio 1990.

La notte è gelida (una settimana fa siamo scesi a -5 °C). Una cinquantina di !kung San (Boscimani) sono venuti a danzare. Sono praticamente nudi. Le donne hanno acceso due fuochi e si sono messe in circolo. Stanno cantando da un’ora: voci di testa. Il ritmo è tenuto dal battito secco delle mani, con sfasature poliritmiche. Il flusso sonoro è modulato e di intensità variabile in funzione dell’eccitazione crescente. Gli uomini danzano in tondo, uno in coda all’altro, tra il fuoco e le donne. Il passo è lento e strascicato. I talloni segnano il tempo sulla sabbia, lasciando una traccia. Hanno sonagli alle caviglie, fabbricati con semi secchi riempiti di frammenti di uovo di struzzo e sassolini. Due ore dopo, la maggior parte dei danzatori comincia a contrarre violentemente il plesso solare: i muscoli ventrali sembrano aggrovigliarsi. Il corpo si piega in avanti, come per un crampo allo stomaco. Le braccia tendono in alto, ma all’indietro. Se possibile, l’intensità di musica e danza aumenta di molto. I danzatori (ora si sono unite pure alcune donne) sudano. Il volto è distorto, gli occhi chiusi. Paiono in gran pena. Alcuni barcollano. I danzatori mi appaiono, di volta in volta, come uccelli in procinto di spiccare il volo (postura di molte danze africane, soprattutto femminili), animali feriti, cacciatori impazziti. L’espressione di un volto mi ricorda la distorsione di chi sta per svanire sott’acqua. Le spalle si proiettano all’indietro. I muscoli della schiena sembrano corde tese. Il ballerino si muove come se lo stessero pugnalando alla schiena. Quindi comincia a roteare su se stesso, come un epilettico. Perde sangue dal naso. Per la velocità sembra un vortice derviscio. Altri ballerini lo affiancano, impedendogli di cadere al suolo. Gli massaggiano le gambe. Puliscono il sangue, detergono il sudore. Al centro del cerchio, vicino al fuoco, appare una donna di corporatura immensa (i San sono piccoli e gracili). Il ballerino stravolto, perduto nel suo viaggio, viene trascinato davanti alla donna. Lei rimane immobile e priva di espressione. Impone le mani sulle zone contratte del danzatore, del tutto esausto. Lo tocca ripetutamente. Pare trarre qualcosa dal ventre teso dell’uomo a terra.
Dodici ore dopo: è mattina. La danza è finita. Ho assistito a una “danza di medicina”, in cui la metà degli uomini e un quarto delle donne ha raggiunto lo stato modificato di coscienza (trance) ottenuto dalla semplice iperventilazione (danza e canto) e dalla contrazione del plesso solare (ricco di un fitto reticolo di nervi e vasi sanguigni) e delle strutture neurali della schiena.. L’effetto finale è una iperossigenazione cerebrale, con alterazioni della percezione e del controllo motorio. A detta dei San, si tratta di !kia, una sorta di satori, “un viaggio stato-di conoscenza nel mondo dello spirito per recuperare elementi vitali di cura”. Ho visto una pittura che riproduce una scena analoga a Lonyana, nei monti Kamberg del Natal, in Sudafrica.

Nota di campo B
Depressione del Murdi (17° 53’ 56” N – 20° 54’ 28” E), deserto del Sahara, Ciad, 15 marzo 1998.

Tarda mattinata. Mi sono allontanato a piedi dalla pista. Per ripararmi dal sole entro in un riparo sottoroccia protetto da un masso. Su di esso vedo un certo numero di rozze coppelle. Devo strisciare nella sabbia per entrare nello spazio tra masso e parete. Mi corico in qualche modo sulla schiena, a occhi chiusi per proteggermi dalla luce. Apro gli occhi. Davanti a me appaiono delle figure color ocra. In una ventina di centimetri di estensione, da destra a sinistra: una figura di semplici puntini con una sorta di aureola; una figura più definita, sempre di puntini, in ginocchio, con in mano qualcosa di curvo e diritto (arco e frecce?), con la “testa a becco” tipica delle pitture sahariane (forse si tratta di un’acconciatura dei capelli, ancora visibile in Ciad); una figura dalla strana acconciatura (testa a forma di uccello?) prospetticamente preminente, ben campita in ocra, in ginocchio a braccia larghe, che tiene un qualcosa (un otre?) nella mano destra; Un essere accovacciato, dalla testa esplosa in una nebuloso di puntini (ho visto una simile testa in una giraffa graffita al Turkana, in Kenya), con due archi di cerchio ai fianchi; tra la figura accovacciata e quella maggiore che le sta davanti scorre un flusso di tre linee ondulate, che connette il braccio di una al ventre dell’altra; in evanescenza dal riparo si intravede il posteriore di un animale (un felino?). Mi pare di essere di nuovo davanti alla danza boscimane del !kia.