Espoarte Anno 12 Numero 73 ottobre-novembre 2011
Brainstorming: tra morte e rinascita
Un percorso iniziatico attraverso il simbolo, tra la forza e la potenza della reinterpretazione simbolica che è, al contempo, anche il tentativo di riportare l’uomo al suo valore archetipale. Jan Fabre ci racconta come nel suo lavoro dialoghino in modo serrato la tradizione fiamminga e italiana, congiunte alla pietà, alla passione, alla simbologia della morte e della rinascita.
Un’indagine visionaria di una madre che, assumendo le sembianze della morte pur di salvare il proprio figlio, ci rivela come l’uomo, il corpo, ma soprattutto il cervello, sono e diverranno sempre più fondamentali per l’uomo del futuro.
Alberto Mattia Martini: Jan Fabre è un artista visivo, un regista teatrale, coreografo, scrittore. Quale di queste espressioni artistiche avverti più vicine, ce n’è una che ritieni più importante delle altre?
Jan Fabre: Ritengo che le espressioni più importanti nella mia ricerca siano il disegno e la scrittura. Sono un servo della bellezza e di conseguenza per arrivare alla bellezza utilizzo diverse tecniche artistiche. Senza dubbio però i mezzi espressivi ai quali mi sento più affine sono il disegno e la scrittura: quando disegno scrivo e quando scrivo disegno.
Nella mostra attualmente in corso presso la Nuova Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia a Venezia, una delle opere è Merciful dream (Pietà V): una reinterpretazione scultorea in marmo della Pietà di Michelangelo, nella quale la Madonna ha come volto un teschio e invece Cristo ha il viso e il corpo con le tue sembianze. L’interpretazione che se ne potrebbe dare è il tentativo da parte della madre di sostituirsi al figlio morto. Condividi tale interpretazione? Ce ne sono altre?
L’iconografia del teschio è ripresa dai quadri antichi fiamminghi; il significato di quest’opera è che la madre si sacrifica per il figlio, perché vede nella morte del figlio la fine della propria vita. Una parte importante di questo lavoro, nonché fulcro di tutta la mostra, è anche il cervello che la scultura con le mie sembianze regge, anzi sta per cadere dalla mano destra. Nella mostra, infatti, sono rappresentati altri quattro grandi cervelli realizzati in marmo, ognuno dei quali raffigurati con una croce e differenti simboli. Uno di questi cervelli rappresenta il Cristianesimo, un altro il paganesimo, quello con il bonsai sulla sommità lo Shintoismo e, infine, il cervello con le tartarughe rovesciate riprende sia elementi delle religioni indiane sia della mitologia greca. Il cervello già organo vitale e fondamentale per l’uomo, diviene qui anche simbolo dove differenti culture si incontrano convergendo nel concetto di pietà.
Una tematica ricorrente nel tuo lavoro è l’archetipo dell’idea di metamorfosi; questa tematica proviene dalla tua passione per la scienza e per gli insetti, che nel caso specifico della mostra di Venezia invadono e pervadono lo spazio e le sculture stesse?
Effettivamente sono molto interessato alla scienza. C’è uno scienziato italiano che ha influenzato il mio lavoro; si chiama Giacomo Rizzolatti e ha scoperto i neuroni a specchio. Sono cellule del cervello che si attivano sia quando compiamo una determinata azione, sia quando vediamo qualcun altro compierla. I neuroni a specchio permettono di spiegare fisiologicamente la nostra capacità di porci in relazione con gli altri. È anche grazie a questa scoperta che è possibile spiegare l’empatia, la compassione e l’imitazione dell’altro.
È da poco terminata presso il Kröller Müller Museum di Otterlo in Olanda una tua importante personale intitolata: Hortus (giardino) e Corpus (corpo). Parole semplici ma al contempo anche molto complesse, ricche di significato. Ci spieghi in sintesi il significato di questo titolo?
Il Kröller Müller Museum dispone di un giardino molto interessante: il giardino delle sculture. Il corpo nella mia mostra diviene un giardino e il giardino diventa il corpo, quindi sussiste uno scambio continuo tra questi due elementi. In tutte le opere presenti in mostra avviene una ricerca del corpo sotto aspetti differenti: in modo fisico, erotico e filosofico.
Il titolo della mostra ricorda foneticamente la formula magica hocus pocus; questa mostra può essere intesa come l’hocus pocus del mio catechismo.
Nelle tue opere avviene spesso uno scambio, un’interazione, che appare quasi come un gioco, tra simbolico e reale; due elementi molto presenti sia nella tradizione fiamminga, che in quella italiana. Che importanza hanno per te?
Nelle mie opere inserisco spesso dei simboli dimenticati, perché i simboli portano con sé un significato profondo e, quindi, riprendendoli li riporto al loro significato e al loro valore originario. Ritengo che tra la tradizione artistica italiana e la fiamminga ci sia una connessione molto intensa da secoli. Nella mostra di Venezia, infatti, avviene una sorta di fusione tra l’arte italiana e fiamminga. Forse è proprio per tale motivo che sia il pubblico sia i curatori italiani apprezzano il mio lavoro, perché la mia opera è radicata in mezzo alla sinergia che scaturisce da queste due tradizioni. Quando osservo i maestri dell’arte antica noto una grande immaginazione e avverto fortissime emozioni, spesso più forti di quelle che riesce a trasmettermi l’arte contemporanea!
Nel tuo lavoro l’uomo ha sempre un ruolo primario. Come vedi l’uomo del futuro?
Le mie opere raccontano come io vedo l’uomo del futuro. Da sempre conduco ricerche sul cervello, su come sia anche la parte più sexy, più erotica del corpo: tutto nasce dalla mente, sia in negativo che in positivo. L’uomo del futuro tornerà ai valori primigeni, alle proprie conoscenze interiori e al proprio corpo. L’uomo del futuro non sarà tecnologico, ma fisiologico e capirà di che cosa sono fatte le sue ossa, la qualità della sua pelle e quindi cambierà, si adatterà al futuro grazie proprio alla duttilità fisiologica del suo corpo. Nel mio lavoro rifiuto la tecnologia, perché sono dalla parte della profonda saggezza dell’aspetto fisiologico: il corpo è il “materiale” del futuro che ci permetterà di adattarci al cambiamento.