LA GIORNATA PARTE ALL’INSEGNA DEL BUONGUSTO

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Indice :

1 UnDocumenta(13) - Per un archivio dell'istante

2 LA GIORNATA PARTE ALL’INSEGNA DEL BUONGUSTO

3 NEUE GALLERIE

4 …and …and …and (& others)

5 …and …and …and (& others) II

6 21.7.12

7 WE'RE UGLY, BUT WE HAVE THE MUSIC

8 DAY AFTER

9 SANTONI A CONFRONTO


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Guardando il tempo, ho capito, dopo solo un giorno, perché i tedeschi si vestono così di merda. Qui la situazione passa dal cielo sereno al nebuloso alle nuvole vere alla pioggia senza soluzione di continuità, impedendo a qualsiasi hipster che si rispetti di indossare calzoncini corti senza portarsi appresso almeno una felpa. Meglio ancora se ha sopra tre meravigliosi Babar.
Non paghiamo il tram, ma per ora ci va bene.
Scopro, casualmente, che i loghi di dOCUMENTA sono 13, forse di pù, non ricordo. Il tema, o il nome, sembra essere non-logo, ma, a ben vedere, i loghi semplicemente si moltiplicano, sperando di sparire nella ridondanza, riuscendo solo a mettere confusione in chi, come me, dell’arte contemporanea, non capisce nulla.
Ci dirigiamo verso i Fridericianum, e per tutto il tempo non faccio che rispondere malevolmente alle occhiate tedesche che osservano, curiose.
Non so se sia per il cappello da confederato sudista, o per la faccia che, di domenica mattina, comunque non nasconde i segni di una vita che, diciamocelo, non poteva essere che questa.
Votiamo per un centro commerciale. Facciamo colazione e decido di boicottare il secondo giorno da assistente studente eccetera a And And And.
L’attitudine generale si avvicina al punk, mediata dall’aria cangiante del suolo germanico, dalle positive vibration di dOCUMENTA, e dalla voglia di caffè americano.
Salendo verso il bar, noto con piacere come l’estetica italiota abbia segnato la sua impronta sul Mercato (Dio benedica il Mercato), marcatamente evidenziata da insegne di negozi paccottiglia targati “Marc O’Polo” o “La Scarpa”.
Mi rendo conto che l’inadeguata documentazione visuale renda difficile comprendere al meglio l’orrore kurtziano che ci si genera alla vista di un tale abominio, ma sorvoleremo, per amore dell’arte.
Perché è dell’arte che parliamo.
“Negli anni ’80 c’erano i soldi, mio padre si vestiva Iceberg”. Così cominciamo una squisita conversazione riguardo la moda, la semiotica della moda, il mercato della moda, il gossip della moda.
Perché parlare con F. significa tendenzialmente questo. E a chi comprende queste sottigliezze si può perdonare praticamente tutto, compra la Diet Coke. Quindi, moda. Per digerire l’insistenza dei postumi di ieri, della pessima colazione di oggi, della pessima prospettiva di più tardi. Il Fridreicianum.
Perché, diciamocelo chiaramente, abitiamo a Milano, facciamo una scuola costosa, e scopriamo bevendo pessimo caffè americano cosa sia uno street casting, così come Armani voglia dire semplicemente Armani.
Le stagioni si alternano oltre la nostra tenda, e tra Rick Owens (è sempre F. a tenere le redini della conversazione), l’ultima maglietta decente di Marc Jacobs (“Art”, la riprova di come il Mercato digerisca qualsiasi subcultura che provi a farne scempio), il concept store di Antonioli e quello di Luisa Via Roma, che “sembrerebbe il nome di una panettiera ma è in Via de’ Tornabuoni, tra Gucci e Prada”, arriviamo alle due del pomeriggio.
La verità è che a nessuno gliene frega un cazzo. Siamo stanchi, non solo io, e la stanchezza porta lucidità, ci porta a ragionare su come lo scheletro della Milano da bere, della Milano della coca e dei tranvoni abbia da tempo spazzato via l’universo scotiniano, salvo finire anch’essa nel dimenticatoio.
Perché Milano non è Bologna, o Firenze, o Barcellona – qui, o meglio lì, tutto gravita intorno alla moda. Milano è andare ai saldi di Sergio Rossi uscendo da Naba sulla strada per Macao.
“Un mondo di cazzate sti cazzi, lì girano soldi a palate”.
That’s the point.
Eliminare la feticizzazione dell’oggetto è eliminare l’arte. Ed eccoci ritornare agli esami imminenti ed eccomi a pensare, per l’ennesima volta, ad artisti concettuali di cui io non so nulla ma i cui nomi direbbero molto alla maggior parte di voi.

FRIDERICIANUM

Domenica. Ovvero, il mondo. Sono tutti qui, i turisti del weekend, con i loro cappellini, le guida, l’occhiale da vista inforcato a mezzo naso.
Approfitto del tesserino di servizio per evitare la fila, mostrandolo alla sicurezza con immotivato disprezzo prima di cominciare la mia visita.
Il Fridericianum è ben diverso da come me l’aspettassi: sventrato e riverginizzato dalla biacca che domina sulle pareti, conserva tracce della vecchia architettura, così nostalgicamente simili a frammenti di imene appiccicati al muro.
Comincio da Korbinian Aigner, che ci racconta la sua deportazione con una serie morandiana di mele. In prigionia, se l’inglese non m’inganna, sviluppò questa specia di mele, KZ-3, rinominata, appunto “Korbinian apple”. Sono mele.
Passo oltre con, in testa, un certo passo de Le Benevole.
Metà della sala, e una parete, sono occupate da “Quanta now”, di Anton Zeilinger, 5 esperimenti che realizzano altrettanti fenomeni della fisica dei quanti.
Non ci capisco niente, ma la lavagna alla Will Hounting cattura la mia attenzione per dieci minuti buoni.
Le opere di Mark Lombardi, diagrammi che formano una struttura narrativa che butta in mezzo Iran, Bush e Kwait, per raccontarci come forze e autorità illegittime medino l’economia globale, sono belle da vedere ma non aggiungono niente a un articolo di noncensura. In senso buono, ovviamente.
Salto Mario Garcia Torres e Boetti, fondamentalmente per noia e per il gusto fine a se stesso di vietarsi qualcosa di gratuito, seppur superfluo, come l’ennesimo tappeto del buon Alighiero.
La sala di Ida Applebroog è la fiera del già visto, imballaggi, cartelloni per uomini sandwich e un’unica domanda stampata nero su bianco di fronte alla quale l’arte impallidisce: HOW BIG IS A NORMAL PENIS?
Certe cose sono come il mutuo, non ci si scherza.
Ci pensa Pratchaya Phinthong, con “Sleeping sickness”, a farmi tornare interesse. Non leggo la descrizione dell’opera per paura che rovini l’emozione che mi da. Più tardi, F. avrebbe accennato qualcosa riguardo la sterilizzazione, ma a quel punto sarei stato già troppo oltre la misura per parlare ancora d’arte.
Sono due mosche morte, su una base di marmo, sotto una teca di vetro, con la luce gialla che vi cade dall’alto.
Oltre, ancora arabi, foto fatte con il cellulare stampate su plexiglass ed esposte con gusto, ma niente di più.
“The lost frontier” (Llyn Foulkes, 2012), mescola Blade Runner con Morricone, Topolino a Guerre Stellari, e penso che se fossi ricco pagherei parecchio pur di portarmelo a casa.
Goshka Makuga. Altri beduini.
Mi sembra di stare tra la Commenda di Pré e i Quattro Canti di San Francesco, a Genova. Che poi è Marsiglia. E non serve dormire sotto i bastioni del Vieux Port, fare l’ultima corsa sul 91 a Milano, o passare tra i tranvoni di Crocebianca, per sentire un inutile folklore, qualcosa di trito, da abbecedario, il candore di Makuga.
Kader Attia è l’ennesima sala antropologica piena di tutto quello che, signori, gentilmente, rendetevene conto, il nostro tempo ha spazzato via.
A questo punto, ne ho abbastanza.
Non credo di aver sorvolato, sopra o nel pezzo precedente, sull’accampamento Occupy Style di fronte al Museum, ma qualora avessi commesso una tale leggerezza vi prego di perdonarmi, perché la distesa di tende e slogan e bandiere e punkettoni che a guardarli in effetti mi sento sempre più un tamarro, è qualcosa su cui varrebbe la pena soffermarsi un secondo, prima di procedere con lo sgombero.
Hanno piantato una fila simbolica ti tende bianchissime come le mie Nike nuove, che mi ricorda i cimiteri di guerra su in Normandia. Sopra molte di queste, stampate in maniera discreta e minimal, keywords della protesta (un esempio, LUST) nelle intenzioni incisive (anche se di sapore un poco cattolico), ma che ormai la ridondanza di certi discorsi anti ha sciupato, depauperandole di significato, facendone gli ennesimi slogan di una rivolta sempre più sterile, che, come per l’eterotopia disneyana di And And And, non ha alcuna aderenza con quello che non è, solo, “il Mercato”.
E non è l’idea esasperata di un’alternativa costruita anni luce dalle direttrici che potrebbero portare a un risultato concreto a farmi irrigidire.
No, l’orrore non lo provoca l’ignoranza. Ma la serie d’incoerenze che le ballano intorno. Una danza macabra che si apre sulla più importante sagra dell’arte contemporanea, d’un tratto rendendola affascinante atlante delle miserie umane.