Attraversare le contingenze allargando le prospettive

27/07/2007
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CHI L'HA VISTE

Venezia, Kassel, Muenster.
Un florilegio di opinioni, scambi di pareri, critiche e commenti, foraggiati da moltissime immagini video. Sono testi scritti apposta da critici e curatori, messaggi via e-mail o estratti da articoli su riviste che partecipano alla rubrica magazine. Si offrono come termini di confronto su tre grandi mostre che, come il passaggio di una cometa o se preferite come certe eclissi di sole, sono aperte contemporaneamente questa estate in una coincidenza davvero rara.
E' un gran tour dolce/amaro, una mappa di pareri di A.A.V.V. che inizia disquisendo di 'bruttezza' e termina con 'entusiasmo'. Termini forse obsoleti e per questo cosi' piacevoli... vedi alla voce: generosita'.


Vanessa Beecroft, VB61, Darfur Still Death! Still Deaf? 2007 Pescheria Di Rialto, Venice. bs: Blake Sinclair - nt: Nic Tenwiggenhorn. (c) Vanessa Beecroft 2007 Courtesy Galleria Massimo Minini/Lia Rumma

frame del video di AES+F Group, Padiglione russo, Giardini di Venezia

Francesco Vezzoli, Padiglione Italia

Robert Storr

Mappa di Skulptur projekte 2007

Installazione di Rosemarie Trockel a Skulptur projekte 2007

Il ponte sul fiume dove e' installata l'opera di Susan Philipsz a Muenster

Charlotte Posenenske, Drehflugel, 1967, ricostruito per Documenta 12

Trisha Brown, Floor of the forest, installazione performance 2007. Museu Fridericianum, Documenta 12

Simryn Gill, Throwback 2007, installazione. Aue Pavilion, Documenta 12

Romuald Hazoume', Dream 2007, parte dell'installazione. Aue Pavilion, Documenta 12

Zofia Kulik, The splendor of myself II, fotografia 1997 accanto ai dipinti di Rembrandt. Schloss Wilhelmshohe, Documenta 12

Tanaka Atsuko, Electric dress, scultura 1956. Museum Fridericianum, Documenta 12

Tseng Yu-Chin, Who's listening?, 2003-2004. Documenta 12

Tseng Yu-Chin, Who's listening?, 2003-2004. Documenta 12

Alejandra Riera, Enquete sur le/notre dehors, 2007. Documenta 12

Jiri' Kovanda, Su una scala mobile, girarandomi, guardo negli occhi delle persone che stanno in piedi davanti a me..., 1977. Documenta 12

Lin Yilin, Safely Manoeuvering Across Lin He Road, 1995-2007. Documenta 12

Lin Yilin, Safely Manoeuvering Across Lin He Road, 1995-2007. Documenta 12

Halil Altindere, Dengbejs, 2007. Documenta 12

Ai Weiwei, Fairytale, 2007. Documenta 12

Nedko Solakov, Top secret, 1989. Documenta 12

Lidwien Van de Ven, Document, 2007. Documenta 12
Agli inizi di giugno, mentre folle di addetti alle piu' varie mansioni del "sistema dell'arte" di Bonitoliviana memoria si aggiravano per le calli di Venezia, sui quotidiani nazionali si affrontava l'argomento bellezza perche' le notizie circa le proposte di molti artisti internazionali hanno probabilmente colpito l'immaginazione dei giornalisti. Come se la repulsione e il fastidio fossero la novita' che mirano a provocare molte opere.
Dopo lo spettacolo delle esecuzioni in tv, dei bambini palestinesi che stanno per essere uccisi, di un uomo che supplica l'eutanasia, della chirurgia plastica in diretta, lacrime e scazzi assistiti fra parenti e politici, pare che il vero effetto splatter lo riescano ad ottenere meglio le opere nei palazzi storici o nei padiglioni dei Giardini.
Certo, ci vuole una "notizia" per poter scrivere di arte contemporanea sui giornali a larga diffusione (Cattelan insegna), ma e' anche interessante da un punto di vista sociologico(?) che spesso sia una mente semplice a svelare la nudita' dell'imperatore: il cinismo e l'opportunismo di certe opere. Della serie tutti lo sanno ma non c'e' modo di dirlo.
Il filosofo Franco Rella ha scritto un interessante articolo su La Repubblica che discetta sulla bellezza dicendo per esempio: "(...) nei romanzi di Dostoevskij era stato Ivan Karamazov a contestare il concetto di armonia (e dunque di bellezza) in quanto concetto esteticamente equivoco e teologicamente mistificatorio. In nome delle vittime incolpevoli e del dolore preferisce stare dalla parte della sofferenza invendicata."
Non cosi' per molti morbosi autori tutti presi dalla propria conservatrice psicologia (soprattutto -logia) e da piu' comprensibili questioni di mercato.
L'aria annoiata e sufficiente di molti esperti, si alterna alla presupponenza ingiustificata di molti esclusi e all'ignoranza di molti pretendenti, che finche' son giovani, hanno tutto il diritto del mondo a schifarsi e voler rifare tutto daccapo. In pratica sono gli unici ad avere ragione, con la loro ragione.
Chi ha qualche anno di piu' avra' ben visto le riverniciate che tanti si son dati nei centri sociali o via interviste; e va bene che nessuno puo' tirar fuori dalla tasca la prima pietra e scagliarla, ma la retorica di certe opere ed affermazioni a volte travalica il buon senso. Come se chi la esercita pretendesse l'amnesia totale di chi l'osserva/ascolta malgrado le dichiarazioni ad effetto urlate a suo tempo. Chi fa le cose in modo spettacolare era appariscente anche quando diceva il contrario di oggi dopotutto. Stiamo parlando di artisti, critici, editori ecc. ecc.
"Nulla perdura se non il mutamento" diceva Eraclito.
L'omeostasi secondo Vanessa Beecroft sta nel cambiare le modelle e la numerazione delle performance. Quella di Venezia era VB61, le donne dovrebbero essere sudanesi, la lussuosita' estetica sempre la stessa, anche se si parla di Darfur. Aveva incominciato ad interessarsi di sociale ai tempi del G8 di Genova quando propose, su invito istituzionale, modelle nere anziche' bianche.

"Ossessionato come sempre dall'immortalita', soprattutto la propria, a Venezia Damien Hirst si presenta con la mostra New Religion. Una gelida ventata di empirismo britannico su un tema bollente come non mai".
Questa l'introduzione dell'articolo di Francesca Bonazzoli su Urban di giugno che descrive e commenta la mostra a Palazzo Pesaro Papafava.

Per continuare l'escursus fra gli eventi collaterali alla Biennale, Jan Fabre, che Giacinto Di Pietrantonio e la GAMeC di Bergamo presentano a Palazzo Benzon, si racconta a Viviana Siviero in un intervista su Espoarte. L'artista fiammingo si definisce "un servo della bellezza", al centro dei suoi lavori la vita, la morte, la rinascita, la precarieta' e il mutamento. Nipote del famoso entomologo Jean Henry, Fabre utilizza gli insetti come allegoria del corpo e dell'esistenza.

"Ma, come al solito, in Biennale le mostre che non dipendono dalla costruzione diretta del direttore sono sempre eventi marginali, l'esposizione centrale resta quella di Storr, un curator (artista) americano DOC che ha pensato bene di staccare definitivamente l'arte dalle espressioni teoriche, per farla 'compiere' in presa diretta con una storia di escatologia ed altri intrugli vari." Cosi' Gabriele Perretta su Segno.
E ancora "Storr si fa veicolo di quella leggerezza liberale americana, che oggi domina e che si e' trasformata in pensiero unico ed a questo principio associa anche la discriminazione verso un'arte che potrebbe essere portatrice di filosofia e di scienze sociali. (...) se si guarda con attenzione da dove provengono, il centinaio di artisti, invitati alla 52ma, e' facile capire che la maggioranza deriva dalle aree sostenitrici del Capitale finanziario concentrato, mentre per la Turchia o l'arte africana contemporanea possiamo pensare solo allo sviluppo di un discorso di finanziarizzazione degli eventi."

"Pensa con i sensi - Senti con la mente. L'arte al presente" pare sia un titolo poco gradito ai piu'; la Mostra Internazionale e' stata presentata in due conferenze stampa (di cui potete vedere ed ascoltare i video) e su cui si sono svolti alcuni incontri a cura di Angela Vettese allo Iuav di Venezia, anche questi online con il titolo A Fool's Errand

In questo video potete alla fine vedere immmagini della mostra di Robert Storr: ai Giardini, nell'ex Padiglione Italia, fra i lavori anche troppo celebrativi di grandi nomi; all'Arsenale in equilibrio fra denuncia e retorica di molti artisti internazionali e qualche raro italiano che pero' vive in America.

Alla domanda "Cosa le sembra interessante e cosa no di questa Biennale" Achille Bonito Oliva risponde con la solita sagacia
"Bel corto circuito fra Pennone e Vezzoli nel Padiglione Italia; poi la Turchia e Kabakov. Sono tre momenti di qualita' di questa Biennale che per il resto si presenta come una manutenzione museografia del presente, visto che Storr non e' un critico che fa interpretazione ma un curatore che documenta".
Secondo ABO lo statuto della Biennale chiede un laboratorio di idee, un attraversamento problematico dell'arte e non una pura esaltazione vetrinistica.
Gabi Scardi invece dice
: "Una mostra corretta, pulita e ordinata come la realta' non e'; dove le opere sono giustapposte le une alle altre, non comunicano e non si integrano". Pero' parla anche di bellissimi lavori, come il video di Alfredo Jarr sull'Angola, le sculture di Monika Sosnowska nel padiglione polacco, le opere di Aernout Mik nell'olandese, o del padiglione cinese curato da Hou Hanru che, insieme a quello africano, si sottraggono all'ordine calibratissimo di Storr.
Un video mostra tutte le opere citate sulle parole dei due critici.


Non solo polemiche
di Gabriella Arrigoni (storica dell'arte contemporanea)

Anche quest'anno, come di consueto, la Biennale ha ricevuto le critiche d'ordinanza, discretamente meritate, bisogna ammetterlo. Se cosi' non fosse non sarebbe la Biennale: le polemiche che sempre l'accompagnano, in fondo sono solo il riflesso manifesto delle aspettative che vengono costantemente riposte nella rassegna, e quindi della sua importanza. E dove la mostra ufficiale apre una falla, sono gli eventi collaterali, di anno in anno sempre piu' articolati e proliferanti, a rimpolpare l'offerta artistica, richiamando il pubblico in tutti gli angoli della Laguna con nomi ad altro tasso di notorieta' e progetti interessanti.
Cosi', pur associandomi idealmente al coro di quanti lamentano l'imperscrutabilita' del senso e del criterio che dovrebbero informare le due mostre curate da Robert Storr al Padiglione Italia dei Giardini e all'Arsenale (la prima appare come un elogio alla sconnessione, la seconda, nella sua impostazione decisamente rivolta al sociale, riesce persino a risultare incoerente con un titolo - "Pensa coi sensi, senti con la mente" - che poteva contenere sotto il proprio ampio ombrello quasi tutto), vorrei fare un cenno a quelle che sono state due tra le migliori scoperte fra gli artisti ospitati nei vari padiglioni nazionali.
Alcuni lo avranno trovato forse un po' lezioso, troppo barocco, o troppo artificiosamente "virtuale", con il suo paesaggio congelato e immoto, cosi' tipicamente 3D, eppure il video presentato nel Padiglione Russo da AES+F Group riesce a recuperare un respiro epico e metafisico, merce rara oggi nell'arte contemporanea. "The last riot", un combattimento senza fine, senza esito alcuno, dove giovani, quasi angeli o semidei, si aggrediscono lentamente, assumendo pose patetiche e vacue, che manifestano come non ci siano piu' ideali - e neppure ideologie - a supportare ogni conflitto. Eppure, come sembrano suggerire anche le immagini dei treni e degli aerei che si suicidano, si autodistruggono, il conflitto e la spinta all'autodistruzione appaiono come una condizione permanente, inevitabile, senza speranza di riscatto, con allusione neanche troppo velata all'attuale scenario mondiale.
L'altra piacevole scoperta si trova nel Padiglione Belga, ed ha il pregio di possedere un dosaggio perfetto di ironia e serieta', grazie all'intelligenza che sorregge entrambe. Le performance-conferenze di Eric Duyckaerts riflettono sui legami fra le diverse branche del sapere, e lo fanno confezionando dimostrazioni del tutto logiche nella propria illogicita', sostenute da ricerche apparentemente minuziose e da schemi complicati che giocano sulle deviazioni di senso. Il phisique du role non gli manca, smilzo e dallo sguardo allucinato, Duyckaerts sembra uscito fuori da un film di Tim Burton, e riesce a prendere in giro, a un tempo, le figure dei professori, gli pseudo-filosofi e gli impostori e affabulatori di ogni tipo, guadagnandosi decisamente le nostre simpatie.

Le opere e gli ambienti delle Partecipazioni nazionalialla 52ma Biennale di Venezia in un video: Germania, Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti con mostre di singole glorie nazionali; Paesi nordici, Russia e Spagna con collettive a tema. La prima volta dell'Africa: uno spazio dedicato all'Arsenale con molti artisti e due "veri" curatori africani: Fernando Alvim e Simon Njami.

Quando si frequentano la mostre dalla parte del visitatore e' difficile immaginare la fatica e le difficolta' che il lavoro organizzativo e curatoriale comportano. Un piccolo assaggio da Lorena Tadorni (curatrice indipendente)

Questo e' uno stralcio delle conversazioni in una chat in skype che avevo in quei giorni con karin gavassa. e' una cosa "a caldo", visto che lei ha partecipato agli eventi collaterali della biennale curando con biljiana ciric la mostra "migration addicts".

"lorena.tadorni: com'e' li'?
karin.gavassa: mah, direi bene...ieri abbiamo risolto diversi problemi dell'ultimo minuto. Il lavoro di Belen (Belen Cerezo) era stato consegnato in spagna anziche' qui a venezia, per cui abbiamo trovato un santo tipografo che l'ha stampato qui direttamente, sai il PVC della vetrina dell'Orange, quello con i due che si baciano

lorena.tadorni: ...che menata...prima il lavoro di josefina perso a marghera, ora questo...meno male che hai risolto.

karin.gavassa: quello di josefina (Josefina Posch) e' tutta un'altra avventura... sai che ha realizzato l'iceberg interamente qui a venezia...e' gigante, ora lo trasportera' in barca. e' talmente grande che ci si puo' stare dentro. per gonfiarlo ci sono due specie di aspirapolvere e un congegno elettronico che ha realizzato un ingeniere di san francisco che ha lavorato anche per la nasa! quello che si era perso durante il trasporto era l'idrofono per registrare i suoni nei canali di venezia, sott'acqua

lorena.tadorni: hai poi capito dove puoi sistemare la scultura di jin shan (???)

karin.gavassa: jin shan credo che mettera' la sua scultura che fa pipi' su un ponte, perche' deve tirare su l'acqua con la pompa. con gli altri siamo a posto...

karin.gavassa: cmq lui dice che si rifa' alla statuaria, sai tutte le nostre fontane che fanno pipi'...

lorena.tadorni: in effetti ha ragione...una lunga tradizione ;)...l'effetto pero' e' un po' diverso a dire il vero..."

Per maggiori informazioni su Migration Addicts

Dalla fila per il traghetto ai pedali

Ogni dieci anni Skulptur projekte invita artisti da tutto il mondo a concepire opere nello spazio pubblico della citta' di Muenster. Sono in dotazione ai visitatori anche le biciclette con cui raggiungere i luoghi dove sono collocate.
In questo video: una sorta di visita guidata con Gabi Scardi attraverso le installazioni di 37 artisti nello spazio urbano della citta'.
"E' una mostra che dovrebbe far emergere caratteristiche o aree irrisolte del territorio. Come l'opera di Marta Rosler per esempio, che fa emergere frammenti della memoria della citta' fra le pieghe del territorio urbano con un effetto fortemente spiazzante" E poi via con l'elenco: Susan Philipsz che realizza un'installazione sonora su un ponte che ha l'effetto di collegare le due sponde del fiume, Rosemarie Trockel crea una quinta di piante che impedisce di vedere un brutto edificio sulla sponda opposta ma aprendo un varco con una bellissima prospettiva, Dominique Gonzalez-Foerster "gioca" sottolineando l'aspetto di arredo urbano che prendono alcune opere...


Ed ecco alcuni estratti di testi su Sculpture Projects tratti da ArtSeen Journal

Forse la ricezione positiva dell'arte contemporanea negli spazi pubblici di Muenster deriva dalla presenza di circa 40.000 studenti universitari che frequentano la Wilhelms Universitat. In uno studio sulla economia del sapere ho letto che Muenster era posizionata bene. In una citta' fatta "essenzialmente da chiese, amministrazione, affari e studenti", ci sono non solo gli spazi ma anche l'interesse e la generosita' giusti.
Le sculture a Muenster hanno qualcosa di diverso, sono li' per essere vissute, non solo viste, non posizionate su piedistalli o dietro I vetri ma nel parco, intorno al lago Aa, sotto il ponte, sulle strade o in piazza.
Una traiettoria, attraverso i campi, portandoti lontano da dove sei, verso un altro luogo (di Pawel Althamer) e' sublime nella sua semplicita'.
di Gordana Bezanov

I pianeti si sono allineati nel 2007 per offrirci una panoramica mondiale di un'evidente mancanza d'identita', e' un momento di caos, ma nel caos piu' intenso c'e' una forte attivita' creativa dalla quale emergeranno ancora concetti, espressioni e spero esplosioni.
di Sandra Miranda P.

...apro il catalogo di Muenster e trovo l'artista che parla del suo lavoro ed un ben informato critico che discute il lavoro ed il suo sviluppo. L'artista racconta la storia del suo viaggio alla scoperta della citta', per trovare il luogo, lo spazio e le realta' giuste per confrontare la scultura in un contesto urbano piccolo.
Andrew J Smaldone

Exposito in tour
di Francesca Boenzi e Luigi Giovinazzo

LG: Sono stato a Kassel e Munster per la prima volta quest'anno. E' stato interessante vedere la diversa organizzazione di questi eventi storici. Sicuramente quest'anno c'e' stata una sorta di fortuna/sfortuna per cui tutti questi eventi, compresa la Biennale di Venezia e Art Basel, erano cosi' ravvicinati. Da un certo punto di vista e' stato bello poter pensare di percorrere un vero tour dell'arte contemporanea pero' ad esempio l'inaugurazione di Venezia era affollatissima e a Kassel c'era invece poca gente forse per la contemporanea apertura di Basilea.

FB: Documenta si annunciava fin dall'inizio una mostra per cosi' dire di minore richiamo. La scelta di 2 curatori che fossero innanzitutto degli storici dell'arte un po' fuori dal consueto "sistema di tendenza", e anche la loro scelta di non svelare i nomi degli artisti fino all'ultimo erano tutti segnali che preannunciavano qualcosa di diverso e controcorrente. E penso che sulla diversita' di Documenta rispetto alle mostre e ai grandi eventi d'arte contemporanea a cui siamo ormai abituati, non c'e' dubbio. Ma e' un pensiero che conforta, che qualcosa di diverso sia ancora possibile. Venezia mondana, affollata, spettacolare come sempre, con tanti eventi satellite che rendono difficile concentrarsi sulle opere e sugli artisti. Poi Documenta XII che al contrario invita a un approccio piu' raccolto e silenzioso, quasi un'esortazione a recuperare un dialogo intimo con l'arte che ormai si e' perso e anche una visione piu' consapevole che progredisca attraverso il recupero del passato e di terreni poco battuti.

LG: Infatti una cosa che ho trovato interessante di Documenta e' stata la possibilita' che mi ha offerto di vedere una serie di artisti che non conoscevo poiche' li ho ritrovati raramente in rassegne o mostre recenti. Interessante inoltre questo confronto tra artisti di diverse generazioni che ha permesso un percorso storico-culturale coerente tra le opere esposte.

FB: Si', anche se i curatori non hanno perseguito un percorso cronologico bensi' una serie di presenze distribuite lungo il percorso espositivo in modo anche discontinuo. Alcuni artisti ritornavano per esempio in sedi diverse e questo portava inevitabilmente a creare dei collegamenti... insomma una mostra tutto sommato faticosa questa Documenta, intellettualmente faticosa al contrario di Venezia fisicamente stancante...

LG: c'e' poi da aggiungere che sebbene a Venezia ci fossero nomi indubbiamente importanti e interessanti e di richiamo tuttavia le intenzioni curatoriali non mi sono chiare e ho trovato il percorso espositivo disorganico. Tra l'altro molte delle opere esposte si assomigliavano rischiando di confondersi. Molto diverso il discorso dei padiglioni nazionali, alcuni dei quali erano molto interessanti tra cui quello olandese con Aernout Mik e il padiglione Irlanda del Nord con Willelm Doherty.

FB: E il padiglione ungherese con il giovanissimo Fogarasi che ha messo su un progetto molto interessante sia come ricerca artistica che come soluzione espositiva. Ho trovato anche interessante il padiglione polacco con le architetture distorte di Monika Sosnowska. E il padiglione sloveno con il giovane Tobias Putrih. Per non dimenticare poi, al di la' di presenze giovani e gia' cosi' rigorose, quegli artisti che sono delle certezze, non rappresentano nessuna novita', ma che e' sempre bello incontrare lungo il percorso. Mi riferisco a Felix Gonzales Torres la cui visione emoziona sempre.

LG: Skulpture Projecte a Munster e' stata un'esperienza bella. Questa idea di far andare i visitatori alla ricerca di queste opere disseminate in giro per la citta', e' un'eccezionale trovata di marketing territoriale che accosta l'evento artistico alla scoperta della citta'. Per quanto riguarda la qualita' delle opere c'erano operazioni molto interessanti anche se non sempre i lavori erano a livello dei nomi degli artisti che li avevano realizzati.

FB: Beh indubbiamente le opere subiscono questo riferimento quasi obbligato al contesto. Ma questo fa parte dello spirito dell'evento. Skulptur Projekte e' stato forse il momento del tour che ho apprezzato di piu'. L'evento conserva ancora intatto lo spirito con cui e' nato nel 1977. Quest'idea di un'arte che sconfina nelle strade della citta', diventa pausa giocosa, rilassante. La ricerca delle opere intrinsecamente legata alla scoperta dei luoghi, penso al lavoro di Jeremy Deller sui Kleingarten. Poi assistere alle reazioni e le diverse interazioni del pubblico con le opere. e' bello che l'arte riesca ancora a suscitare approcci in qualche modo cosi' "leggeri".

Exposito Osservatorio Giovani Artisti Napoli, diretto da Luigi Giovinazzo, nasce con lo scopo di promuovere in maniera costante e continuativa i giovani artisti del territorio campano introducendoli in un sistema collaborativo internazionale permanente. Exposito e' un progetto ideato e realizzato dall'Associazione Culturale -Arteteca-, con il patrocinio ed il contributo dell'Assessorato alle Politiche Giovanili della Provincia di Napoli.

Ascolti
di Francesca di Nardo (redattrice della rivista Janus, collabora con la Dena Foundation for Contemporary Art di Parigi, curatrice per UnDo.Net del progetto 2Video e incontemporanea.it)

Bruce Nauman, Mike Kelley, Sigmar Polke, Gerard Richter, Francis Alys...questi i nomi piu' ricorrenti nei discorsi e nelle considerazioni sulle grandi esposizioni dell'estate - Biennale di Venezia, Documenta e Skulptur Projekte Muenster - raccolti tra Milano e Parigi tra artisti, critici e curatori. Sono loro le opere, direi unanimemente, considerate tra le migliori tra le tante viste, attraversate, sfiorate e intraviste nel gran tour del mese di giugno.
E qui credo stia uno dei nodi critici, la mancanza di novita' che reggano il confronto e che suscitino almeno le stesse emozioni e riflessioni di maestri acclamati e gia' storicizzati.
Tale discorso ben si lega alle valutazioni sulla curatela di Robert Storr, giudicata da tanti di stampo museale. In effetti Storr ha presentato una Biennale attenendosi letteralmente a quanto affermava la scorsa primavera nei suoi seminari veneziani, quando dichiarava senza mezzi termini di essere contro il "curatore come autore".
Di carattere opposto le valutazioni sull'operato di Roger M. Buergel, che ha invece impostato una Documenta personalissima seguendo il filo di una curatela ricercata, talmente ricercata, da risultare illeggile e invisibile ad una visita non piu' che attenta. I pettegolezzi dicono che (Kasper Koenig) il curatore di Skupltur Project Munster, non abbia davvero apprezzato l'esposizione di Kassel, dedicandole solo due ore e neanche una parola positiva.

Documenta 12
Is modernity our antiquity?
What is bare life?
What is to be done?
Roger M. Buergel e' il direttore dell'esposizione quinquennale che ha dato fama alla cittadina tedesca dove si svolge, a introduzione del suo testo di presentazione definisce le tre domande in elenco come i tre leitmotifs portanti della mostra, avvisando pero' che in modo sparso questi "motivi" possono musicalmente corrispondere, coincidere, o disintegrarsi.


26 Luglio 2007: Tornando da Kassel
di Carla Subrizi (insegna Storia dell'arte contemporanea presso la Sapienza Universita' di Roma; e' direttore artistico della Fondazione Baruchello)

Avevo gia' sentito molti commenti, per lo piu' negativi o quasi. Invece, tornando proprio oggi da questa visita a Kassel e, avendo ricevuto da UnDo.Net l'invito a raccontare qualcosa, voglio iniziare da una impressione, senz'altro buona e che meriterebbe di essere piu' indagata. Mi riferisco a un clima (o a una premessa) che si respira un po' in tutta l'articolazione di questa dodicesima edizione di "Documenta", dal Fridericianum, all'Aue-Pavillon, alla Neue Galerie, alla Documenta-Halle, fino agli interventi in esterno, nel tram, alla stazione di Kassel e, infine, allo Wilhelmshohe; per non parlare dello spazio dedicato alle riviste che hanno anche portato l'attenzione verso esplorazioni e analisi non del tutto note al mondo della critica e delle edizioni occidentali. Tralascio tutte le intenzioni dichiarate dal direttore artistico e dal curatore di questa edizione, Roger M. Buerghel e Ruth Noack, (su modernita', finalita' educative, relazione tra arte, vita e politica), che hanno agito, nell'ideazione e nella realizzazione complessive, affiancati da un poderoso team di circa (se ho ben fatto i calcoli) cinquanta persone. Una direzione, dunque, assai disseminata, frammentata, anzi polverizzata e che ha prodotto scelte altrettanto eterogenee ma, forse, poi in fondo non molto lontane dalla premessa generale dell'esposizione. Vengo dunque al "clima".
Le opere sono, come sempre, moltissime; l'articolazione complessa; la dislocazione in spazi oramai dentro e fuori i luoghi piu' propriamente espositivi, anche. Quello che pero' si percepisce sin dall'inizio, come un messaggio, che poi pian piano acquista senso e' il fatto che mancano all'appello i soliti nomi, le tendenze, i movimenti: in una parola la storia dell'arte, almeno quella del XX secolo che piu' caratterizza le scelte di Biennali e eventi internazionali. Si', ci sono un piccolo olio di Gerhard Richter, una installazione di Eleanor Antin, un vecchio lavoro di Martha Rosler, tra altri. Ma questi datano, rispettivamente, 1977, ancora 1977, e 1974. Quindi sembra che quei lavori siano stati scelti prima ancora che diventassero opere di riferimento per la seconda meta' del Novecento. Non voglio spiegare ne' interpretare. Cerco di "leggere" nell'allestimento, nell'articolazione generale, cosa abbia portato a questa selezione di opere. Dai nomi, dalle date, dalla eterogeneita' delle opere presentate, dalla diffusa mappa geografica che ne deriva, emerge chiaramente la premessa di essersi voluti distaccare non dai contesti storici e culturali ma dalle categorie che collocano le opere all'interno (o, soltanto talvolta, all'esterno) di decenni, di movimenti, di tendenze, attraverso i quali si costruisce la storia. Un aspetto che si delinea con notevole efficacia e' dunque l'aver almeno tentato di interrompere questa modalita' e di aver invece tentato di riconsiderare opere molto diverse al di fuori delle convenzionali contestualizzazioni. Dove sono l'arte concettuale, l'arte povera, il minimalismo, la body art? Devo dire che in questa "Documenta"si respira un'aria piu' leggera, forse troppo in alcune sale, un po' deja' vu in altre. Ma, nonostante cio', il fatto che molti artisti siano una scoperta, che tante date siano illuminanti, che le opere non siano facilmente collocabili e che richiedano invece di essere viste e capite, e' un elemento senza dubbio significativo di questa mostra.
Ma vediamo meglio questo aspetto.
Prima di tutto, quindi, quello che ho gia' detto: le opere sono decontestualizzate dai ricorrenti andamenti della "storia dell'arte" ma per essere meglio definite dal luogo geografico, culturale, sociale da cui sono state prodotte. Si fa avanti, con cio', anche l'idea che l'opera sia produzione culturale di un determinato contesto culturale e, percio', sia il prodotto di un contesto, di un periodo storico, di fattori culturali precisi, e non sia soltanto il risultato del lavoro di un artista, considerabile isolatamente o formalmente.
Altro aspetto che emerge, in questo senso, e' il fatto che l'apparente mescolamento di luoghi, epoche, situazioni culturali sia invece finalizzato alla messa in atto di un piano (di una superficie) di tensioni o, meglio, di una mappa di forze interagenti ma ognuna individuabile nella sua singolarita'. Un elemento che definisce questa singolarita' sono le date. Infatti in questa mostra, paradossalmente, hanno meno significato i nomi degli artisti che le date delle opere.
La comprensione del perche' un'opera sia stata scelta, acquisisce invece non pochi dati se si osserva la data. Ad esempio c'e' un bel lavoro di Jiri' Kovanda (1976), che consiste in una serie di azioni davvero minime fatte di idee messe poi in pratica in contesti pubblici tra i piu' ordinari: girarsi all'improvviso su una scala mobile che sale e guardare gli occhi di colui che si ha dietro; aspettare una telefonata; dare un appuntamento in uno spazio pubblico a un gruppo di persone per poi, dopo essersi presentati all'incontro, scappare via senza spiegazioni. Questa modalita' che alcuni artisti avevano gia' usato e che oggi e' ancora per molti una via sperimentale, certamente non e' semplicemente definibile come "body art" ma sperimentazione di un'essenzialita' che forse avrebbe piu' a che fare con le forme di azzeramento e riduzione che andavano anche al di la' del minimalismo dei primi anni Sessanta per farlo divenire una tendenza implicita alla pratica artistica. Il lavoro di Kovanda aveva gia' interiorizzato il minimalismo storico per, dopo averlo privato delle sue formalizzazioni, condurlo verso altri esiti, attraverso il gesto e poi l'oggetto. Queste azioni di Kovanda datano dunque 1976. Sono collocate al Fridericianum non lontane dal lavoro di Martha Rosler del 1974 (The Bowery in two indequate descriptive system, un lavoro sull'intraducibilita' o sulla contraddizione tra l'immagine di un luogo, ad esempio, e la sua descrizione) e appena dietro alla raccolta di documenti, locandine e manifesti del Grupo de artistes de Vanguardia, argentino, che dal 1968 aveva indagato le cause dell'impoverimento che aveva colpito la popolazione. Questo nucleo di anni, dal 1968 al 1976, conduce dunque l'attenzione del pubblico al centro di una serie di questioni gia' allora emerse con grande efficacia, in un periodo pero' in cui la quasi esclusiva presenza internazionale di movimenti artistici ben definiti all'interno del sistema-arte, in mostre o pubblicazioni (come ancora avviene!), non faceva mettere a fuoco cosa stesse avvenendo nella sperimentazione internazionale, al di fuori di mode o tendenze gia' consolidate. Attraverso interviste, raccolta di dati e informazioni direttamente dalla gente, questo gruppo di artisti argentini aveva allestito una mostra itinerante, un vero archivio di dati, fotografie e videodocumenti, per sensibilizzare l'opinione pubblica su quanto avvenuto. La mostra fu chiusa a Buenos Aires, dalla polizia. Questo lavoro, la cui e' data e' dunque 1968, rivela una precoce modalita' di azione nello spazio pubblico, sia per una pratica fondata sulla raccolta di testimonianze sia per la presentazione essenziale di questi materiali, realizzata nella forma, (in realta' un'assenza di forma, quasi contemporanea ai testi sull'archivio e l'archeologia di M Foucault del 1969 e di J. Derrida) di un accumulo di notizie, lasciate allo stato di enunciati senza essere ricostruiti in un discorso di alcun tipo.

Forse in maniera un po' nuova, una forte presenza in questa mostra la hanno il medio-oriente, il mondo arabo, l'India. Anche la Cina gioca un bel ruolo, essendo gli artisti presenti, tra i piu' interessanti della mostra. L'Europa, soprattutto centrale e dell'est, ha un posto considerevole. Pochi invece i francesi, nessun italiano, pochi inglesi. Questa geografia ci conduce dunque in alcune parti del mondo non molto conosciute sul piano della pratica artistica e che soltanto attraverso la storia piu' recente (guerre, scontri di religioni, strategie internazionali) sono tornati al centro di una considerazione complessa della realta' internazionale attuale. Una cosa da dire, al proposito, e' che la nozione di "globalizzazione" in questa Documenta e' affrontata in termini piu' analitici e meno convenzionali. Questo termine non motiva o spiega, ne' viene usato per descrivere una situazione di fatto. Non se ne avverte la presenza se non nei fatti che implicitamente ma piu' efficacemente raccontano di una geografia e di culture complesse, della loro interazione, di storie dimenticate e di cui non restano che poche testimonianze da non perdere.
Nedko Solakov, bulgaro, costruisce per anni un archivio di documenti raccolti mentre lavorava all'inizio degli anni Ottanta per i servizi segreti del suo paese. Nel 1989, tra narrazione e finzione, questo archivio diviene Top secret, un lavoro in cui sono catalogati, concettualmente, ricordi, fatti, memorie di quel periodo.
Il lavoro dell'artista pakistana Nashreen Mohamedi invece, nel 1970, nella forma di Diari, racconta attraverso parole, schizzi o appunti, brevi testi poetici fatti di poche parole, la storia personale, legata ai luoghi in cui aveva vissuto (fino al 1990) fatta di dolore, instabilita' mentale, incapacita' di adattamento. Anche in questo caso la presentazione di questo stato personale, emotivo e poetico, avviene con modalita' essenziali, attraverso un quasi estremo procedimento di riduzione formale.
Lin Yilin, Ai Weiwei, Tseng Yu-Chin sono tra le maggiori presenze di questa Documenta. Con ironia e leggerezza, senza ideologia, senza fare cenno a questioni politiche, ricomprendono in un fare semplice e immediato questioni importanti, centrali nel dibattito attuale. Il lavoro creativo e il lavoro, la cultura riportata a uso e funzione, l'educazione, le sue regole e l'identita', sono temi che emergono dai lavori di questi tre artisti. Lin Yilin, in un video di circa mezz'ora che riprende quasi in tempo reale l'azione, costruisce-decostruisce un muro di mattoni grigi partendo dal lato di una strada e arrivando progressivamente sull'altro lato. Il traffico, naturalmente, subisce qualche modifica: quando il muretto, altro circa un metro e mezzo, e' sulla strada, le macchine, le biciclette, i passanti sono costretti a fare una curva per oltrepassare l'ostacolo. Inoltre l'azione viene realizzata davanti a un cantiere reale, che sta eseguendo lavori di ristrutturazione di un edificio. Quindi i due tipi di "lavoro" si trovano a stretto confronto, producendo non poche riflessioni, prima tra le quali la finalita' gia' definita del lavoro edile (in questo caso) e l'inutilita' del lavoro creativo che tuttavia e' paradossalmente utile per immaginare e pensare l'arte come una possibilita' di invenzione e ridefinizione di realta'. Ai Weiwei distribuisce invece 1001 sedie in molti dei luoghi della "Documenta". Dal Fridericianum alla Neue Galerie e' possibile incontrare gruppi di sedie, a volte soltanto tre, disposte in un angolo o comunque in punti di passaggio o anche dinanzi a un video. Il pubblico si siede, si riposa, scambia qualche parola. Le sedie sono oggetti molto belli, di una Cina antica e anche piu' recente, prese dai contesti di vita piu' diversi. Quindi sono oggetti con una loro storia, che parlano di una cultura, di un materiale come il legno, di artigianalita' e stile inconfondibili. Ma nella posizione dislocata, nella "Documenta", tutti questi aspetti pur restando, vengono meno e le sedie diventano soprattutto oggetti da utilizzare, su cui sedersi, da far funzionare in qualche modo. Il video di Tseng Yu-Chin dal titolo Who's listening, mostra invece una serie di facce di bambini, ai quali, si ipotizza, sia stato detto di restare seri o di non perdere di vista l'obiettivo della telecamera. Si vede il viso del bambino o della bambina, per pochi istanti poi interviene un lancio di latte sul viso e il bambino vorrebbe ridere, poi ride, e non si trattiene dal portare le mani alla faccia o dal girarsi, ma cercando di mantenere lo sguardo verso l'obiettivo. Questa presenza cinese, di giovani artisti, ben dunque si colloca in questa "Documenta", in una prospettiva che cerca di affiancare le diversita', senza volere dimostrare di aver scoperto (ormai!) emergenze culturali e artistiche, ma presentando il tutto come uno stato di fatto ben presente, come dimostrano, molte date di opere o manufatti assai antichi.
Un aspetto anche interessante e' infatti l'aver voluto, anche se soltanto attraverso copie o citazioni fotografiche, tracciare una storia complessa, non soltanto occidentale, affiancando le opere della mostra con reperti dell'antichita', dell'archeologia, di vecchi saperi acquisiti nei secoli da culture del mondo. Non c'e' pero' mai il compiacimento di voler portare queste diversita' culturali su un piano di confronto o di contraddizione con il mondo occidentale. Sembra invece che tutta l'arte occidentale del Novecento, la sua storia fatta di movimenti, tendenze, grandi presenze imploda in una orizzontalita' eterogenea in cui bisogna rimettersi a cercare pazientemente le fila, gli andamenti, le date, per scoprire cronologie, andamenti, orientamenti tralasciati o, forse, neanche conosciuti. Da una parte c'e' dunque una premessa, che si concretizza nell'articolazione, di esercitare una differente prospettiva dalla quale osservare quanto e' successo e sta succedendo nell'arte. Per altro verso le opere non sono sempre efficaci, anzi talvolta lasciano un po' delusi. Si apre cosi' una contraddizione tra queste premesse, il grande staff coinvolto, i principi educativi, il dibattito sulla "modernita'" e la presenza di opere che definirei, per essere sintetica, solamente ingombranti (l'intreccio di corde di Sheela Godwa o l'installazione di Iole de Freitas). Tuttavia anche questi lavori, nella articolazione generale della mostra, raccontano alla fine di una modalita' dell'arte, ancora presente, e costituiscono dunque soltanto un aspetto di una complessita' artistica all'interno della quale continuamente si costruisce, si demolisce, si cita, ci si riappropria, si sperimenta o si rimane su modalita' gia' consolidate.
La "storia dell'arte", soprattutto del Novecento, e anche la critica che l'ha sostenuta e orientata, sembrano essere le grandi escluse di questa Documenta. Mancano, ripeto i "nomi", i movimenti della storia dell'arte, le convenzionali sequenze e le "paternita'". Tutto sembra restituito a una orizzontalita' in cui le forme tradizionali della storia, i precursori e le conseguenze, sono interrotti o almeno tralasciati per osservare storie e scrittura della storie da altre prospettive. Interessanti sono pero' l'attenzione e lo spazio dati ad artisti che lavorano proprio per costruire altre narrazioni, un'altra storia, con tagli e prospettive emergenti da posizioni di aperta denuncia e critica sociale. Molto interessanti al riguardo l'artista brasiliano Jorge Mario Ja'uregui, l'artista indiano Amar Kanwar, l'artista argentina (ora a Parigi) Alejandra Riera con la sua Enquete sur le/notre dehors, Halil Altindere (artista turco) che fa raccontare, in Dengbe'js, a cinque uomini, nella forma della canzone tradizionale, storie di amori, di soprusi e ingiustizie subite da figlie e compagne.
Jauregui, con un lavoro sulle favelas brasiliane, Kanwar attraverso il recupero di storie di violenze soprattutto sessuali di donne di ogni eta', Riera con l'esplorazione di situazioni sociali marginali (malattia, prostituzione, poverta'), hanno mostrato un modo di usare il video (si pensi alla precedente edizione di "Documenta", la undicesima, in cui le stanze buie in cui erano proiettati video erano la maggio presenza della mostra) o il cinema, per documentare, raccogliere testimonianze, documenti, dati, in grado, se accostati tra loro, di produrre narrazione, storia, nuovi punti di vista. All'interno di allestimenti molto diversi che mostrano fotografie distribuite su tavoli bianchi, serie di documenti montati sulle pareti o appesi con delle semplici puntine da disegno, all'interno di questa "Documenta" si aprono squarci sulle pareti o su pannelli, senza necessita' di rendere buio l'ambiente, da cui provengono voci, interviste, talvolta canzoni o litanie tradizionali, conversazioni, memorie e testimonianze che gli artisti hanno raccolto e che hanno poi assemblato attraverso videodocumenti, album fotografici, narrazioni multiple che decentrano il punto di vista. Appare chiaro, in questa imponente mostra, che per molti aspetti non ha pero' niente della monumentalita' della grande esposizione e che invece preferisce allestimenti semplici e la presentazione di grandi quantita' di materiali e informazioni esposti essenzialmente, che non sia possibile costruire una unica storia ne' dell'arte né di altro tipo; che sia invece il momento di ripensare le modalita' stesse di costruzione della storia, ripartendo da momenti significativi ma per poi procedere attraverso orientamenti molteplici, deviazioni e interruzioni all'interno delle quali si aprono altri percorsi.
Tentare una storia della cultura molteplice, plurale, trasversale, in cui l'interazione non e' soltanto accostamento del diverso, ma pratica per costruire altre prospettive, per collocare il punto di vista nelle diversita' culturali (e non solo per guardare le differenze sempre dal medesimo punto di osservazione), mi e' sembrato il carattere emergente di questa "Documenta". Forse un tentativo, una ipotesi, che, in quanto tali, hanno mantenuto l'aspetto di una ricerca in atto, di uno sforzo in progress, piuttosto che di un'affermazione o una dichiarazione impugnate.
Ci sarebbe ancora molto da dire, sulle finalita', su alcune questioni centrali a questa edizione.
Quel che comunque mi e' sembrato un dato di questa mostra e' stato l'invito (una proposta) a soffermarsi per guardare tutti quei materiali mostrati e leggere anche tra le righe, nelle interruzioni tra un progetto e un altro, tra le date. Non soltanto il passare veloci cercando qualcosa di "sensazionale" o piu' comprensibile ma l'invito a un guardare piu' lento e' stato uno dei messaggi di questa dodicesima "Documenta" e, forse, anche una premessa, non da liquidare in fretta, delusi dal non avervi trovato quel che piu' ci si sarebbe aspettati.

Molte delle immagini di Documenta 2007 in queste pagine sono state scattate e spedite da Cecilia Guida

Un modo interessante per vedere l'edizione 2002 di Documenta e' navigare Undocumenta, un progetto "polifonico" di narrazioni per immagini a cui hanno collaborato moltissimi visitatori e fotografi.

Una bella conclusione:

Nietzsche faceva dire a Zarathustra: "il senso del mio operare e' che io immagini come un poeta e ricomponga in uno cio' che e' frammento e enigma e orrida casualita' "




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