Attraversare le contingenze allargando le prospettive

30/11/2008
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Corrispondenze di frontiera


Far soffiare un vento di cambiamento tra le Vele di Scampia, in un luogo dove tutti dicono che si fa di tutto tranne che vivere, dove nessun postino può arrivare alla tua porta. Pina Capobianco è nata e cresciuta in questo noto quartiere napoletano ed insieme a Stefano Taccone ha ideato e condotto il progetto Corrispondenze di Frontiera, che nasce per portare l'arte laddove nessuno l'ha mai portata insieme a diversi artisti. Qui Rosaria Iazzetta, per esempio, ha cercato di elevare il contesto facendosi spazio fra il cemento e le emozioni degli abitanti. "Gomorra, la faida di camorra e le cronache nere c'entrano ben poco con le nostre scelte", dicono i curatori in questa intervista con Matteo Lucchetti. Oggi si chiude un ciclo e se ne sta per aprire un altro insieme ad artisti campani e non: qui, dove l'esistenza equivale per molti ad una battaglia quotidiana, sul "limes" tra bene e male.



MaraM, TrabBoccare, 2008, performance





Domenico Di Martino, Scudi umani, 2008, still da video





Corrispondenze di frontiera. Locandina del progetto





Rosaria Iazzetta, Parole dal cemento, 2007-2008, installazione urbana permanente





Rosaria Iazzetta, Parole dal cemento, A chi ama è consentito ridere





Rosaria Iazzetta, Parole dal cemento, Amare senza limiti





Giacomo Faiella, Cavál-cávia, 2008, installazione (particolare)





Ur5o, Discorso sul silenzio, 2007-2008, installazione





Salvatore Manzi, Nascondiglio, 2007, installazione





Rosaria Iazzetta, Parole dal cemento, Amare senza limiti





Rosaria Iazzetta, Parole dal cemento, Quando il vento dei soprusi sarà finito, le vele saranno spiegate verso la felicità





Rosaria Iazzetta, Parole dal cemento, Quando il vento dei soprusi sarà finito…





Rosaria Iazzetta, Parole dal cemento, Quando la felicità non la vedi, cercala dentro





Rosaria Iazzetta, Parole dal cemento, Quando la felicità …





Rosaria Iazzetta, Parole dal cemento, A chi ama è consentito ridere





Matteo Lucchetti intervista Stefano Taccone e Pina Capobianco, curatori del progetto nato intorno al quartiere napoletano di Scampia. A seguire una breve conversazione con Rosaria Iazzetta, autrice del progetto di banner nati ad hoc per gli edifici più tipizzati e popolari dell'intera area di periferia metropolitana.

Corrispondenze di Frontiera
è un progetto che nasce attorno al quartiere napoletano di Scampia con la volontà, da parte dei due curatori Pina Capobianco e Stefano Taccone, di far confluire il contesto storico, politico e sociale di questo quartiere all'interno del lavoro degli artisti scelti. Iniziato nell'ottobre dello scorso anno Corrispondenze di Frontiera ha visto alternarsi, fino al maggio passato, il lavoro di otto artisti rigorosamente campani (Domenico Di Martino, Giacomo Faiella, Rosaria Iazzetta, Salvatore Manzi, MaraM, Mauro Rescigno, Antonello Segretario, Ur5o), in una zona di Napoli che i due curatori definiscono “zona di frontiera” poiché “costantemente sospesa tra legalità ed illegalità, tra le buone pratiche di vita sociale ed il totale disadattamento, luogo del vuoto e del pericolo, ma anche spazio per l'agire collettivo”.

Prevista per il 2009 una nuova fase del progetto nella quale opereranno artisti non strettamente campani e dove lo spazio pubblico diventerà quello d'azione preferenziale. Si discute qui retrospettivamente con i curatori della chiusura del primo ciclo, con un affondo sull'intervento di Rosaria Iazzetta, concettualmente a cavallo tra le due fasi.

Matteo Lucchetti: Nello scegliere lo scenario fortemente tipizzato ed in un certo senso mediaticamente banalizzato, che Scampia rappresenta, quali sono stati i problemi preliminari nel concepire organicamente una linea curatoriale che potesse dare effettivamente nuove letture sul quartiere? In che modo si è cercato di coinvolgere i veri referenti di molti lavori, ovvero gli abitanti del quartiere?

Stefano Taccone: Vi è da specificare innanzi tutto una circostanza. Per quanto lo scenario di Scampia possa definirsi “fortemente tipizzato, ed in un certo senso mediaticamente banalizzato”, portarvi l’arte contemporanea rappresentava e rappresenta un'iniziativa alquanto pionieristica. Pochissime sono state infatti fin ora le esperienze in tal senso e nessuna (almeno che io sappia) esplicitamente votata a riflettere sulla realtà del quartiere stesso. Ecco perché le letture che avrebbero proposto gli otto artisti selezionati sarebbero necessariamente risultate, almeno in parte, nuove.
Il coinvolgimento degli abitanti, questione naturalmente da Pina Capobianco e da me sentita come di primaria importanza, va inteso su due livelli: quello che implica la trasformazione dei visitatori in cooperatori, che divengono, in virtù del loro apporto, fondamentali per il lavoro dell’artista stesso, e quello che, secondo schemi più tradizionali, ma non per questo da svalutare, mantiene il pubblico entro i consueti limiti spettatoriali.
Ai “corrispondenti” è stata posta un’unica ma tassativa richiesta: elevare, sulla scorta di Hans Haacke (un artista che per la mia attività curatoriale rappresenta un riferimento costante), il contesto, inteso in senso politico, sociale, economico…, a materia prima del proprio lavoro. Ognuno di essi ha così agito in tale direzione, ma conformemente alla specificità della propria poetica. Ne è scaturita una pluralità di soluzioni, ma tutte connesse da quel particolare fil rouge di cui sopra.
Il coinvolgimento diretto era dunque contemplato nel progetto di partenza e persino auspicato, ma non costituiva un dettame imprescindibile. Non di meno, laddove gli artisti vi hanno fatto ricorso, ha rappresentato un ulteriore e prezioso contributo affinché il territorio reagisse con interesse. Non si partiva comunque da zero. Il Centro Hurtado infatti, il centro di formazione che ha ospitato e sponsorizzato il ciclo di mostre, possedeva già un certo radicamento. Inoltre la presenza di Pina Capobianco, che, a differenza di me, a Scampia ci è nata e ci vive, ha facilitato l’afflusso di molte altre persone.
Il bilancio finale, relativamente al grado di coinvolgimento dei cittadini autoctoni, risulta solo parzialmente positivo. Tutto sarebbe stato più facile se avessimo posseduto strumenti di comunicazione e promozione più efficienti. Credo comunque che il lavoro che abbiamo intrapreso è appena all’inizio. Solo tra qualche anno, se avremo la possibilità e la capacità di continuarlo, le differenze rispetto alla condizione di partenza risulteranno tangibili.

Pina Capobianco: L’obiettivo primo è stato quello di portare l’arte in periferia, nella mia periferia. Ciò spiega perché la scelta di Scampia e non di una qualsiasi altra periferia partenopea. Gomorra, la faida di camorra e le cronache nere c’entrano ben poco con le nostre scelte. Il ciclo Corrispondenze di frontiera nasce per portare l’arte laddove nessuno ce l’ha mai portata, nel tentativo di riprendere – o se si vuole cominciare per quel che riguarda il quartiere in questione – un’azione di decentralizzazione dell’arte, di fuoriuscita dell’arte dai tradizionali ed elitari circuiti cittadini.
Quanto all’idea, poi, di fare diventare Scampia il materiale sul quale fare lavorare gli artisti selezionati, ebbene, oserei dire che essa è nata quasi subito, il passo è stato piuttosto breve. Ed, ecco, dunque, la nascita di un ciclo d’arte contemporanea a Scampia, su Scampia.
Agli artisti non è stato, affatto, chiesto di dare letture nuove del quartiere; semmai, è stata la lettura artistica in sé la novità, considerato che Scampia non è mai stata un frontiera per artisti. Certamente, ci sono stati artisti che hanno proposto una lettura diversa del quartiere, diversa da quelle mediatiche a tutti note, i quali sono riusciti a scorgere anche quanto di buono c’è nel quartiere – specie tra la gente che vi abita – e ad esprimere messaggi di speranza: penso, in particolare, alle frasi di Rosaria Iazzetta, al video di Domenico Di Martino, alla perfomance di MaraM.
Le persone del quartiere sono state informate e coinvolte tramite soprattutto me, che qui a Scampia ci vivo da sempre. Sicuramente, se avessimo avuto le possibilità di fare una maggiore pubblicità saremmo riusciti a raggiungere molte più persone, in un quartiere che conta ben 70.000 abitanti, senza contare quanti ogni giorno qui vengono a lavorare o a studiare nelle scuole superiori.
D’altra parte, c’è stato anche un coinvolgimento diretto di alcuni ragazzi del quartiere in un’attività laboratoriale finalizzata alla realizzazione dell’opera di Ur5o.

Il concetto della “corrispondenza di frontiera” conferisce ai lavori prodotti il valore di testimonianza su di una realtà in guerra, della quale si può capire qualcosa soltanto attraverso chi quel conflitto lo ha potuto vedere. È Scampia realmente così impenetrabile da chi non la vive quotidianamente? Come hanno assunto gli artisti scelti questo ruolo di corrispondenti?

ST: Il titolo della rassegna ricalca effettivamente l’espressione “corrispondenze dal fronte” e dunque rimanda, in maniera subliminale, ad una realtà in guerra. L’allusione alla guerra costituisce naturalmente tutt’alto che qualcosa di inesatto. Scampia è l’epicentro delle faide di camorra, ma è anche, più in generale, un luogo in cui la preservazione dell’esistenza equivale per molti ad una battaglia quotidiana.
Nel suo complesso il quartiere risulta però leggibile come una realtà bifronte. Rappresenta forse la zona più emblematica dei gravi e ben noti disagi in cui la mia città versa attualmente, ma è anche ricco di enormi potenzialità inespresse. La constatazione della sua perpetua sospensione tra legalità ed illegalità, tra le buone pratiche di vita sociale ed il totale disadattamento, tra il configurarsi in quanto luogo del vuoto e del pericolo, ma anche in quanto spazio per l'agire collettivo, ci ha indotto ad intitolare il progetto Corrispondenze di frontiera, considerando che se il concetto di “frontiera” è definibile come limite che separa due ambiti distinti, Scampia costituisce una tipica “zona di frontiera”.

PC: Frontiera, non fronte. Frontiera come limes tra bene e male. L’immagine della strada asfaltata utilizzata per la locandina del ciclo può essere d’aiuto a comprendere il concetto di frontiera: la strada ivi raffigurata è, innanzitutto, e semplicemente una delle tante strade, larghe ed asfaltate, del quartiere e poi è una strada con i sui margini ben delineati, una strada percorribile che può portare ad altri luoghi, che permette un collegamento con altre parti della città... è un elemento di continuità, una via di fuga, o di ritorno, e anche una metafora, la strada da compiere per arrivare alla propria realizzazione, uno sbocco, una speranza. Essa, inoltre, oltre ad essere una direttrice è anche, di per sé una frontiera, un limite che separa due ambiti, quelli di cui dicevo sopra.
La cultura, ergo l’arte, segnano pertanto il confine, rappresentano l’altra strada da scegliere di percorrere.
Scampia è impenetrabile a chi si ferma e si fa bloccare dalla sua immagine stereotipata, quella della carta stampata, dei dossier televisivi e anche di certa produzione cinematografica. Scampia è tutto ciò, ma è molto altro ancora, di segno diametralmente opposto, di cui si sceglie di non parlare, ma che esiste e resiste. In sostanza, Scampia non è diversa da una qualsiasi altra periferia del mondo; è soltanto (ahimè) un quartiere periferico di una metropoli, con tutti i problemi tipici di una periferia, aggravato dalle storiche contraddizioni di Napoli.
Gli artisti selezionati hanno accettato il ruolo di corrispondenti dalla frontiera con grande entusiasmo, lavorando con passione e tenacia, convinti di poter essere d’aiuto al quartiere ed ai suoi abitanti, anche e soltanto con la struttura concettuale che ha sorretto le loro realizzazioni.

Corrispondenze di frontiera è un progetto nato in relazione alla realtà urbana di Scampia, che è andato di volta in volta, a seconda dell’artista coinvolto, a considerare le dinamiche sociali di questa periferia, in altri casi la sua struttura urbana, oppure a guardare alla sua storia fatta di una costante presenza tra le pagine di cronaca.
Avendo un centro focale così definito c’è mai stata la tentazione di iniziare un lavoro community based – se vogliamo oggi tanto à la page quanto male interpretato – piuttosto che procedere con scadenza mensile con progetti ogni volta a termine? Ci sono sviluppi per il futuro del progetto?


ST: La struttura di Corrispondenze di frontiera non era incompatibile con un lavoro community based. Infatti il momento della mostra poteva anche risolversi nella documentazione di un progetto intrapreso già tempo prima. La difficoltà non consisteva tanto nella scadenza mensile, quanto nella limitatezza dei fondi a disposizione.
L’ intervento maggiormente orientato in tale direzione, oltre a quello di Rosaria Iazzetta, credo sia stato Discorso sul silenzio di Ur5o, benché non si sia riferito che ad una microcomunità. Egli ha realizzato i suoi calchi umani in cellophane e scotch carta avvalendosi dell’apporto di educatori e ragazzi del quartiere. La praticità del lavoro laboratoriale ha costituito una sorta di paradigma per un particolare metodo di insegnamento. Quello basato sullo scambio orizzontale, in quanto procedente dall’’assunto che il relatore trasferisce appieno la conoscenza solo se si pone al medesimo livello dei suoi interlocutori. L’opera finita, avvalendosi della metafora del principio dei vasi comunicanti, visualizzava appunto tale procedimento.

PC: Quanto al futuro, stiamo lavorando ad Incontri di Frontiera: una collettiva che si terrà dal 24 al 30 aprile 2009, sempre a Scampia, presso gli spazi esterni del Centro Hurtado e dell’Auditorium.
La mostra sarà la prosecuzione di Corrispondenze di frontiera, ma al tempo stesso ne sarà anche un suo ampliamento: un maggiore numero di artisti selezionati, presenza di artisti non campani, sostituzione dello spazio espositivo al chiuso con spazi esterni.
Non più, dunque, una rielaborazione per immagine del quartiere - da proporre nella neutralità di uno spazio espositivo chiuso - ma un’interrelazione con il c o n t e s t o – anche questa volta materia prima della creazione artistica - in presa diretta, nel suo quotidiano divenire.

Quindi il passaggio dalla corrispondenza intesta come lettura, appunto, del contesto del quartiere napoletano da parte della soggettività dell'artista, all'incontro di più soggettività nella dimensione dello spazio urbano. Uno scarto in un certo senso anticipato dall'intervento di Rosaria Iazzetta che è passata da una prima produzione fotografica con lei come corpo agente sull'immagine del quartiere, ad un progetto che ha investito dei luoghi simbolo di Scampia per cambiarli, anche se solo letterariamente, di segno.

PC: La dizione “incontri” indica proprio la volontà di aprirsi ad una maggiore osmosi con il quartiere e la sua gente, di creare momenti di confronto e dibattito. Questi, pertanto, avverranno seguendo due assi: visitatori - opere - artisti e soggetto delle opere - artisti - visitatori - dibattito.
Saranno così organizzati momenti seminariali, giornate dibattito per l’esattezza, che si terranno durante i primi tre pomeriggi inaugurali della mostra e che saranno dedicati ciascuno ad uno dei seguenti temi: la Frontiera mentale, la Frontiera africana e la Frontiera economica.
I dibattiti saranno tenuti dagli artisti e da sociologi, psicologi, antropologi, operatori sociali – abitanti nel quartiere e fuori dal quartiere – invitati ad un momento di riflessione corale con gli abitanti del posto ed i visitatori della mostra.

Rosaria Iazzetta in una primissima fase del progetto ha realizzato una serie fotografica nella quale davanti agli ingombranti elementi architettonici di edilizia popolare del quartiere, si frapponeva la sua figura, vestita da sposa, intenta a portare vento alle metaforiche e famose 'Vele' napoletane, dando così inizio ad un lavoro che si è concluso soltanto lo scorso giugno.
Cinque banner installati sulle facciate di cinque edifici simbolo di Scampia, con altrettanti messaggi ai suoi abitanti: questa l'installazione permanente di Rosaria Iazzetta, volta a far soffiare un vento di cambiamento tra le Vele di Scampia, laddove quel limes di cui parla la Capobianco sembra ancora così netto.


Se non erro, il tuo è uno dei pochi se non l’unico lavoro di Corrispondenze di Frontiera ad uscire dallo spazio espositivo, investendo direttamente il quartiere. Non essendo questa una richiesta curatoriale preliminare, da cosa è nata l’esigenza di assumere Scampia, nel suo essere soggetto sociale collettivo, come parte integrante dell’opera, piuttosto che astrarla ad elemento da rappresentare all’interno del tuo lavoro?

Rosaria Iazzetta: In precedenza sentivo la necessità di portare le tragedie esterne nel mio lavoro. Un po’ per l’incredibile contorsione mentale che ho vissuto in Oriente, ma in gran parte anche perché credo che l’arte debba, tramite la sua immersione nell’assurdità della vita, aiutare a rialzare chiunque ne fruisca. Quando posavo sulla vela gialla, con l’abito nuziale ed il surf, per gli scatti di Sposo il vento e faccio andare le vele, sapevo che non sarebbe bastato, né per me stessa, né per il quartiere.
La foto è effettivamente entrata in quella comunità, ma, una volta realizzata, è come se si fosse rimpicciolita nella sua stessa ragione d’esistere. A quel punto era chiaro che l’esperienza vissuta all’esterno non poteva arrestarsi lì, ma richiedeva di essere vissuta da tutti, tanto da coloro che ne sarebbero stati interessati, quanto da coloro che non avrebbero prestato attenzione; tanto chi si aspetta qualcosa dagli altri, quanto da chi crede di non aver bisogno di altri al di fuori di se stesso.
Da questa intuizione alla realizzazione degli striscioni il passaggio è stato brevissimo. A Scampia infatti il cemento la fa da padrone. I muri cechi diventano angoli quando toccano in terra per nascondere qualcosa che non si deve vedere. I pannelli possono rimanere per anni con la foto dello stesso politico a caccia di voti. Strisce di socialità temporanea appaiono qua e là e i graffiti concentrano in un unico posto la loro denuncia. E allora, dove solitamente non c’è niente, ecco apparire delle semplici parole nere su di un fondo giallo in via permanente. In un luogo dove tutti dicono che tutto si fa tranne che vivere. Eppure qui il sole sorge e tramonta in maniera assolutamente analoga ad ogni altra parte del mondo.

Inevitabile, parlando di Scampia, fare riferimento alla recente restituzione filmica fatta da Matteo Garrone in Gomorra, trasposizione dal libro di Roberto Saviano. Le immagini descrivono, in modo del tutto atmosferico, un’architettura compromessa in partenza, quella delle Vele, fatta di vuoti urbani e di strutture difficili da vivere.
In che modo il tuo lavorare sulle Vele è entrato in relazione con questi dati strutturali, e quali sono le tue considerazioni in merito al rapporto tra struttura abitativa e abitante?


RI: La cosa incredibile di quelle abitazioni è che alcune famiglie hanno realmente perso i propri figli a causa della pericolosità della loro struttura. Costruite in via temporanea, sono diventate permanenti. Non solo per coloro che avevano diritto ad alloggiarvi, ma anche per i cosiddetti “scantinatisti” (abitanti abusivi di scantinati). Le Vele hanno, a mio parere, più diviso che unito. La maggior parte degli abitanti che tuttora vi risiede, con i quali ho colloquiato, aspetta che si realizzino le promesse del nuovo, lamentando un grande abbandono delle istituzioni. A qualcuno il modo di vivere cui la costruzione costringe, più che la costruzione in sé, ha fatto impazzire il figlio. Per altri la loro complessità permette lauti guadagni. Per altri ancora è fonte di disperazione.
Nei piani alti infatti, laddove abitavano famiglie, ora esiste il nulla: pareti incendiate, mobili a soqquadro, ascensori mai funzionati e marciume sedimentato si uniscono alla ruggine che rende alcuni piani inaccessibili, ma permette agli sciacalli del ferro di prendere il tutto e portarlo a vendere.
Si è trattato in definitiva di un rapporto occasionale, che non ha mai implicato desideri di continuità relazionale, di reciproche convivenze in cui l’opportunità di abitare in quel luogo corrispondeva per alcuni alla necessità, per altri al bisogno di un posto per meglio esprimere la propria nullità sociale.
Lavorare sulle Vele (la prima volta direttamente, avendo sistemato io stessa le frasi cartacee, e la seconda indirettamente, con l’installazione dei PVC tramite dei macchinari) mi ha fatto comprendere tre aspetti fondamentali: l’impenetrabilità, la fragilità e il desiderio d’amore. L’impenetrabilità è facilmente comprensibile se si pensa all’esigenza di alcuni di tutelare i propri interessi e guadagni.
Sono rimasta invece molto sorpresa nel costatare che la fragilità strutturale degli edifici è pari a quella vissuta dagli abitanti stessi a livello emozionale.
L’ impossibilità di giocare nell’atrio ha reso i bambini ancora più chiusi di quanto già non lo fossero, mentre per alcuni adulti il non poter condividere spazi vivibili li ha spinti ad andarsene o a continuare a studiare. Terzo, ma non meno importante, è il desiderio d’amore. Il fatto che nessuno osi comprare grandi arredamenti, sapendo che non si troverà chi avrà il coraggio di venirli a montare a casa, o che nessun postino può arrivare alla tua porta rende tangibile la condizione di isolamento che gli abitanti vivono.
Il banner è stato sistemato nella parte più alta della Vela Torre per meglio costringere gli occhi ad osservarla nella sua intera altezza. Credo che le parole di quest’ultimo, più di quelle di tutti gli altri, entrino in relazione con l’edificio che le supporta. Il desiderio di associare la leggerezza di una vela (quella della barca) ad una struttura che di leggero possiede ben poco.

Il tuo intervento mostra delle affinità con il lavoro di artiste storicizzate e celebrate come Barbara Kruger o Jenny Holzer che lavorano da sempre sull’inserimento di billboards, proiezioni o altro, all’interno di contesti pubblici con scritte che, semplificando, in molti casi minano le certezze di chi legge.
Le similitudini con questi lavori si fermano forse ad un dato puramente formale, ma ciò che è interessante è capire in quale modo hai valutato l’impatto, prima e dopo l’installazione, di ciò che sei andata a scrivere, in relazione con l’abitante del quartiere, primo e talvolta unico referente di questo lavoro.


RI: All’origine ho ritenuto opportuno concentrarmi su quanti ne avrebbero potuto trarre profitto, più che su quelli a cui avrebbe potuto dare fastidio. La minoranza alla quale volevo rivolgermi, al di là della comprensione immediata, avrebbe quantomeno capito che non si trattava di una questione promozionale, ma di una frase che aiutasse a pensare a se stessi.

La scelta degli edifici ha poi reso soft l’impatto con gli abitanti, perché su 5 interventi uno solo si trova su di una struttura abitativa, benché di proprietà del comune. Mi ero ripromessa di non usare la benché minima violenza nei toni delle frasi, perché non avrebbe fatto bene a nessuno, soprattutto ai tanti che sono costretti a subirla quotidianamente. Dopo la prima diffidenza, dovuta alla mancata conoscenza del progetto, gli abitanti si sono ammorbiditi e hanno preso a considerare che in fin dei conti questi banner non avrebbero dato così fastidio. Laddove ogni cosa è funzionale ad un’altra, essi avevano il solo scopo di essere osservati e non dimenticati.

A chi mi ha chiesto quanti altri ancora ce ne fossero da vedere, a chi voleva spiegazioni sul perché proprio lì, a chi si è preoccupato che avrebbe venduto meno droga, a chi ha minacciato di toglierli un’ora dopo, a chi li ha trovati fantastici, ho risposto che, quando si opera con la consapevolezza di essere nel giusto, non ci si deve mai preoccupare e che, quando si parla d’amore, non è necessario fornire risposte.

 

Matteo Lucchetti è un giovane curatore laureato in Storia dell'arte contemporanea all'Università degli Studi di Firenze con una tesi sul "Cremaster cycle" di Matthew Barney. Attualmente frequenta il biennio specialistico in Visual Arts and Curatorial Studies presso la Nuova Accademia di Belle Arti a Milano. Dal 2006 collabora, in qualità di assistente, con Marco Scotini. Tra i suoi progetti curatoriali: "The Power of the Artist #"1 presso Spazio Dinamico P.M.E., all'interno del Cantiere Provinciale per la Cultura Contemporanea di Pisa; "Milanopoli – un'indagine sulla città di Milano" presso NABA, Milano; "Emergenze 5" e "Massaccesi Mullstadt" alla Spezia. Scrive su riviste e pubblicazioni di settore.

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