Da dove viene e dove va a parare la scultura italiana oggi e soprattutto quale può essere il suo senso e il suo statuto nell'era della leggerezza per eccellenza? Marco Meneguzzo, che ha curato le ultime due mostre dedicate alla scultura della Fondazione Arnaldo Pomodoro a Milano, ne parla con Barbara Fässler tanto per cominciare citando Barnett Newman quando dice: "la scultura è quella cosa su cui inciampi quando indietreggi per guardare bene un quadro"...
Un’indagine sulla carta d’identità, lo stato di salute, e i confini della scultura contemporanea
Intervista con Marco Meneguzzo, curatore della mostra "La scultura Italiana del XXI secolo" alla Fondazione Pomodoro a Milano"
Con la serie di due mostre alla Fondazione Pomodoro, La scultura Italiana del XX e del XXI Secolo, a distanza di cinque anni, il curatore e storico d’arte milanese Marco Meneguzzo si è fissato un compito ambizioso: circoscrivere i requisiti minimi e i limiti della nozione di scultura della nostra era. Come uno scienziato, definisce delle categorie e verifica di seguito se corrispondono nel mondo empirico a qualcosa di reale. Si creano così delle analogie formali, materiali e contenutistiche tra le opere esposte.
Troviamo per esempio degli oggetti presi dal quotidiano che sono stati fabbricati, invece, con materie preziose, quelle usate di solito dalla scultura tradizionale. Guardando attentamente, scopriamo inoltre delle somiglianze di come certi lavori si pongono rispetto allo spazio. Come da consuetudine nell’era postmoderna non mancano forme che citano opere classiche o rinascimentali, ma realizzate in chiave contemporanea. Guardando alle due esposizioni, invece, si notano gli sviluppi dal Novecento al decennio in corso: i cambiamenti dei materiali, del rapporto con lo spazio, delle nozioni e dei limiti di una categoria che in un tempo remoto definiva addirittura il canone assoluto di bellezza. Dalle nozioni tradizionali di bello e brutto ci si è evoluti verso un’intelligenza narrativa che passa anche attraverso l’uso consapevole dei materiali e che sembra aver superato i canoni dei classici.
Dalle materie tradizionali gli artisti sono passati in breve tempo al riciclaggio di materiali prefabbricati. Dalla scultura astratta del Novecento, nella quale la materia pura ha imparato a parlare, lo sviluppo ci porta verso una riflessione metafisica sulla condizione umana: dalle migrazioni alle dittature. Invece che ammirare rappresentazioni scolpite sapientemente in marmo, c’imbattiamo nei temi principali del nostro secolo: la vanità, la New Economy, l’animalismo, l’ecologia, la conoscenza, la memoria e l’oblio.
In una passeggiata con Marco Meneguzzo nella seconda edizione della serie, Scultura Italiana del XXI Secolo, attraverso una quasi infinita varietà di forme, colori, riferimenti e storie, abbiamo cercato di capire da dove viene e dove va a parare la scultura italiana oggi e soprattutto quale può essere il suo senso e il suo statuto nell’era della leggerezza per eccellenza.
Barbara Fässler: La scultura esiste ancora nell’era dell’immateriale e del virtuale? Oggi nessuno fa più una mostra di scultura…
Marco Meneguzzo: La scultura ha questa caratteristica: è ingombrante. Come diceva Barnett Newman: la scultura è quella cosa su cui inciampi quando indietreggi per guardare bene un quadro.
Questa è chiaramente una battuta: la battuta di uno che ha fatto solo pittura in tutta la sua vita. Ma, a parte gli scherzi, la scultura è proprio fatta di materia, di spazio e di forma.
E certamente è un genere che è vagamente fuori moda, così come sono fuori moda le cose pesanti, sia in senso reale che metaforico.
B.F.: Se esiste ancora, quali sono allora le sue caratteristiche?
M.M.: Chiunque abbia un minimo di conoscenza della scultura nella storia dell’arte, fino al 1970, si accorge che qui c’è una cosa completamente differente perché la scultura, uno se la immagina o di marmo o di bronzo…
B.F.: …Subito all’entrata della mostra c’imbattiamo proprio in un bell'esempio di opera che cita una scultura molto conosciuta, di bronzo…ma non è una copia, perché cambiano i materiali e gli attributi.
M.M: È una fusione a cera persa in alluminio, è laccata di rosa, colore mimetico della pelle, è ermafrodita e s’intitola “Donatella” (di Giovanni Rizzoli). Ma giustamente, è così aggraziato anche il “David” di Donatello, qui citato, questo giovane è così femmineo e quindi il nostro artista del ventunesimo secolo gli ha dato un tocco di transgender. Anche se si riconosce immediatamente a quale scultura rinascimentale si riferisce, questa nuova interpretazione ha qualcosa di assolutamente contemporaneo.
B.F.: Dopo la mostra di cinque anni fa, “Scultura del XX secolo”, la rassegna attuale è già la seconda manifestazione su questa tematica nello stesso spazio. Ottima occasione per tirare le somme: che cosa cambia tra il XX. e il XXI. secolo?
M.M.: Si diceva del peso: nell’ultima mostra, c’era un’opera di Pino Spagnulo che pesava ventidue tonnellate ed era degli anni Settanta, caratterizzati o da un estremo concettualismo o dall’idea della materia bruta presentata come materia bruta. Questo artista fa una cosa di questo genere: prende un pezzo di ferro di trenta tonnellate, lo mette sotto un maglio che ha una pressione enorme, lo fa cadere sopra e la rottura che si produce diventa la scultura. L’azione dà forma alla materia. Ovviamente, la forma non può essere prevista, non sai come cade questo maglio e dove si rompe il cubo. Vuoi che il maglio cada e che il materiale si rompa: quella è l’azione.
Questo lavoro rappresenta il concetto minimo, basilare, di materia e di forma, che diventano tali grazie alla scelta, alla volontà dell’artista.
Nella mostra precedente entravi ed il colore era quello del marmo o del bronzo, in questa mostra del XXI secolo, invece, c’è molto colore. Un critico d’arte come me, deve naturalmente trovare degli indizi di quello che succederà: così anche nella scultura degli anni Novanta del XX secolo puoi riconoscere quel che sarà il futuro, e in un decennio del nuovo secolo quel che sarà il secolo che viene. Se azzecchi il futuro, magari diventi anche ricco. Alcuni artisti della prima mostra hanno fatto da traghettatori nella seconda. Ma addirittura gli stessi artisti – se paragonati tra di loro, essendo stati sia nella prima mostra che nella seconda - possono apparire completamente diversi, immersi in un’altra situazione. Ad esempio questo pezzo di Nunzio (“Attraverso”) è fatto di legno bruciato pianino, pianino e sommerso in parte di pigmento blu…
B.F.: …Immagino il blu di “Blu Yves Klein”..
M.M.: In verità, è un blu oltremare qualsiasi, ma Yves Klein è riuscito a mettere il proprio marchio su quel blu, addirittura brevettandolo sotto il suo nome, pensa che forza. E da allora, quando un artista usa questo blu, diventa automaticamente una citazione. Una volta si diceva: usi il giallo di Van Gogh. Certo che esiste il giallo di Van Gogh, ma Van Gogh non si sarebbe mai messo in mente di brevettare il proprio giallo.
Ma quello che volevo sottolineare, è che questo artista che ha partecipato a entrambe le mostre, in quella precedente era praticamente la novità ed in questa sembra già quasi tradizionale.
B.F.: La scultura ha ancora senso o è da considerarsi una disciplina agonizzante?
M.M.: Mi sono posto il problema, se gli artisti pensano che forse la scultura non abbia più senso. C’è sempre stato qualcuno che ha proclamato: “la scultura è morta”, “l’arte è morta”. Naturalmente si può discutere su questo tema, ma questa discussione implica che uno definisca che cosa sia la scultura e che cosa sia l’arte. Dobbiamo identificare questo morto, se vogliamo capire se è morto. Qual è la carta d’identità della scultura? La scultura è fisica, tridimensionale e si sviluppa nello spazio…
B.F.: aggiungerei anche l’espressività dei materiali.
M.M.: Si cerca di rendere fisica un’idea, certo. Anche un quadro è una cosa fisica che ti può addirittura ferire se ti cade addosso.
B.F.: ma oggi, dopo il ready-made, l’accumulazione, il recycling e l’installazione, come si definisce la materia della scultura?
M.M.: Ci possiamo chiedere, seguendo la nostra definizione, se queste forme corrispondono ai connotati minimi: c’è forma, c’è spazio? Sì, in una maniera molto allargata. Questa opera per terra (Paolo Piscitelli, “If you fear something, you’ll hear something) è chiaramente una cosa bidimensionale. Perché allora ho pensato che possa essere scultura? Perché comunque esistono degli spazi virtuali, come ad esempio nell’opera fotografica (“Senza Titolo” di Giuseppe Gabellone) che rappresenta un oggetto che lo scultore ha costruito e poi fotografato. Non ci farà mai vedere l’oggetto, ma solamente la sua fotografia. Quell'oggetto però da qualche parte c’è. Anche il video di Alessandro Piangiamore (“Senza Titolo”) che, in un luogo sconosciuto e non identificabile, ha rivestito una roccia di fogli d’oro, può essere un altro esempio in questo senso. Quella roccia diventa la tua roccia, perché l’hai scelta tu e il sasso qualunque diventa preziosa opera d’arte. La sua rappresentazione tramite video può essere considerata una scultura.
B.F.: Nel tuo testo citi Bernd e Hilla Becher, fotografi tedeschi, che hanno vinto il Leone d’oro per la scultura alla Biennale di Venezia nel 1990. Questa cosa ci deve fare riflettere, significa che si considera la fotografia, laddove parla di tridimensionalità e in questo caso di architettura, come scultura in senso lato?
M.M.: Naturalmente gli allargamenti possono essere pericolosi, nel senso che se si allarga un po’ troppo una nozione, svanisce e non esiste più. Dove sono i confini? L’arte contemporanea ha esattamente questo problema: fin dove possiamo spingere le nozioni? Si potrebbe rispondere: ma che ce ne importa, facciamolo e basta. Anche questo è una risposta possibile. Oppure si piazzano degli oggetti comuni in un contesto artistico. Come l’orinatoio di Duchamp, firmato, titolato “Fontana” e messo in mostra, chiaramente ti stupisce. Ma non ti stupirebbe se da lì lo prendi e lo riporti in un negozio di sanitari. Torna ad essere un orinatoio, sporcato tra l’altro e pensi che la firma dell’artista sia la sigla di chi lo ha controllato. Se lo trovi invece nel contesto dell’arte prende un altro significato. Questo è ciò che rende fragile l’arte contemporanea, ma che è allo stesso tempo estremamente interessante, perché tutto può diventare oggetto d’arte.
B.F.: Se l’artista lo sceglie..
M.M.: Sì, e se riesci a collocarlo in modo che tu lo guardi con occhi diversi.
B.F.:Quali sono allora questi nuovi materiali utilizzati dagli scultori del XXI secolo?
M.M.: C’è di tutto, c’è l’uncinetto (Sissi, “Sciolto dalla mano”), un cavallo imbalsamato (Maurizio Cattelan, “Senza Titolo”), c’è ancora il bronzo (Gehard Demetz, “Hitler Mao”, Paolo delle Monache, “Archeologia di un istante”), c’è una simulazione come se il muro fosse d’acqua in vibrazione (Loris Cecchini, “Wallwave Vibrations”). Una volta il materiale era la Materia con la M maiuscola. Il bronzo è un materiale nobile, lo fondi e gli devi dare una forma. È originario come il marmo. Oggi non si parla più di materia, ma di materiali. Perché dovrei andare in miniera, a ricavare faticosamente della materia, visto che a casa sono circondato da cinquantamila oggetti, dei più svariati materiali e colori che mi possono interessare e che corrispondono sempre ai requisiti di occupare lo spazio?
L’opera di Fabio Viale, un giovane artista torinese, “Linea schiacciata” illustra in un altro modo questo gioco tra semplice oggetto del quotidiano e materia preziosa. Si tratta chiaramente di una putrella, con la particolarità che questa putrella è di marmo. Allora se c’è qualcosa che è il contrario di una putrella, è proprio una putrella di marmo. Se si guarda bene, si vede che è riuscito a simulare anche l’elasticità del ferro.
B.F.: Qual è il gioco o il pensiero dell’artista? Cosa voleva dirci?
M.M.: Il senso del paradosso. La putrella, di solito di un materiale povero come il ferro, è qui di un materiale nobile, il marmo.
B.F.: Un po’ come la montagna d’oro, no?
M.M.: Sì, un po’ sì. Questo paradosso che lui ci mette davanti, ci parla sia del marmo che del ferro. Ci fa riflettere sulla materia attraverso questo paradosso. Poi ci sono gli aspetti collaterali, ad esempio la forma. Esiste ancora un senso di proporzione. Se si misura con i parametri della scultura tradizionale, queste opere funzionano perfettamente, quindi forse davvero la scultura esiste.
B.F.: E i contenuti sono cambiati?
M.M.: La scultura oggi, è diventata molto narrativa, ti racconta delle storie.
B.F.: Quindi ci siamo allontanati dall’astrazione degli anni cinquanta/sessanta?
M.M.: Tendenzialmente sì.
BF: In che modo si ritorna alla narrazione?
M.M.: Non è più sufficiente che la materia parli da sola come nell’astrazione. Ad esempio Adrian Paci vive a Milano, ma è albanese. La sua scultura “Home to go” di uno che si porta dietro la sua casa, prende spunto dalla storia dell’artista, ma ci parla in fin fine della migrazione e dello sradicamento in generale. Dov’è la mia casa? Me la sto portando dietro.
Nell’opera “Deposito per creare spazio” di Gianni Caravaggio, invece, un po’ d’intonaco è caduto su una lastra liscia di marmo nero e crea una costellazione di un cielo stellato. Si nasconde una narrazione in una forma che sembra completamente astratta.
Un altro esempio è “L’uno per cento” di Lara Favaretto: un metro cubo di coriandoli. Abbiamo costruito una dima, un contenitore e l’abbiamo riempita di coriandoli neri, mescolati con coriandoli colorati. L’artista arriva e schiaccia tutto come l’uva in un tino e, togliendo la dima, viene fuori una forma quasi perfetta.
B.F.: Non c’è colla?
M.M.: Non c’è assolutamente colla. Ci si può vedere un riferimento dell’arte minimale degli anni sessanta, quando ancora un cubo era un cubo, ma qui il cubo è fragile, ci dà il senso del tempo, della rovina.
B.F.: Un’altra opera che riprende la fragilità della precedente: quel che conta sono le ombre sul muro.
M.M.: “Grande volante VIII” di Fabrizio Corneli, un artista fiorentino, attivo dagli anni ottanta. Bisogna cercare delle relazioni tra le cose. Ad esempio in questa opera di Laura Renna “Richiamo per storni” ci sono degli uccelli e anche dall’altra parte della mostra, in un’opera della coppia Vedovamazzei (“Senza Titolo”), c’è un tordo con il becco impiantato nel muro, come se, volando si fosse scontrato con il muro. Questa ultima opera richiama a sua volta la posizione del cavallo appeso (“Senza titolo”) di Maurizio Cattelan. Un’altra coppia associativa si forma tra le due forche: una realizzata con cristalli Svarovski (“Vanitas Suicide” di Nicola Bolla) e l’altra con un pneumatico appeso (“Hanging Around” di Paolo Canevari). Il “solido” di Massimo Kaufmann “Meteoriti di malinconia”, composto di pennelli di bronzo, riprende la famosissima incisione di Dürer, “La malinconia” e si ritrova nella stessa forma, fatta da Diamante Faraldo in “A Nord del futuro”.
“9 Churches, 9 Columns” è l’opera dell’artista più giovane della mostra: Luca Pozzi. Le spugne sono sospese, perché si creano dei campi di forza. La sagoma ricorda la basilica di San Basilio che si trova sulla Piazza Rossa e che è composta da tante cappelle, una accanto all’altra. Qui si vede bene, come la scultura si alleggerisce.
La scultura in movimento accelerato attorno alla propria asse, “Rivolutionary Monk” di Massimo Bartolini, invece, gioca sul doppio senso della parola “rivoluzionario”, che significa anche fare un giro completo. Una preghiera, forse la cosa più statica e concentrata, è qui pensata come rotazione violenta.
B.F.: Ci sono anche delle installazioni? Come definiresti la differenza con la scultura?
M.M.: Nell’installazione non è la scultura che occupa lo spazio, ma gli spettatori che entrano nella scultura. Nell’installazione di Chiara Dynys, “Più luce su tutto”, siamo circondati di libri, tutti di vetro. Libri trasparenti hanno un senso particolare, ma che siano poi anche illuminati, significa che sono anche illuminanti. Un libro che mi piace molto, mi cambia profondamente. Nel video in fondo, invece si vede l’Archivio di Stato a Roma, questi faldoni contengono tutti i documenti dello Stato Italiano, dalla dichiarazione di guerra, a qualcuno che compra un pezzo di terra dal demanio. Chiaramente è un luogo importante per la memoria, ma allo stesso momento è anche un luogo dell’oblio. Sulla scalinata, l’artista infatti aveva messo le scritte: da un lato la parola “memoria”, dall’altra “oblio”.
Di fianco a questo lavoro narrativo, abbiamo, per contrasto, un intervento astratto. Sono le fibre ottiche di Carlo Bernardini (“Spazi permeabili”) che attraversano la stanza e la superano. Una specie d’immaterialità in realtà materiale.
B.F.: Quali sono i tuoi intenti di critico? Si può dire che fai una ricerca storica?
M.M.: Certo, alla base c’è questo intento, ma è anche una mostra ecumenica, onnicomprensiva, volevo fare vedere un ventaglio di proposte. Non stanno insieme solo gli artisti che siamo abituati a vedere sempre insieme nelle mostre collettive, ma tutti sono messi a confronto con tutti.
B.F.: Come arrivi alla scelta degli artisti? Ho visto che il più giovane è dell’83, il più vecchio è ultra cinquantenne, ci sono dei nomi mai sentiti accanto ad artisti strafamosi in tutto il mondo.
M.M.: Qui c’è solo da frequentare l’arte. Faccio questo mestiere da più di trentacinque anni, se non so queste cose…
B.F.: D’accordo, la conoscenza e l’esperienza sono importanti, ma all’interno di questo campo vasto di sapere, tu fai la tua precisa scelta come l’artista che sceglie i materiali per un pezzo. Quali sono quindi i criteri della tua scelta?
M.M.: Prima ho una sensazione, un’emozione, poi cerco di valutarla e mi domando: che cosa è la scultura adesso? Cerco di creare delle categorie e di verificare di seguito se queste categorie esistono realmente.
Mi ha interessato il problema dello spazio e quello dei materiali. Com’è cambiato tutto. Per dire il vero, non tutte queste ottanta sculture mi piacciono. Molti sono qui, perché rappresentano qualcosa.
La teoria e la prassi vanno insieme. Tu hai una teoria e la verifichi, esattamente come uno scienziato. Il critico e l’artista però non sono come degli scienziati, perché non devono dimostrare niente. Tuttavia creando delle categorie si esprime comunque un giudizio.
Il critico non è semplicemente una specie di traduttore in parole di ciò che uno vede. Sarebbe un disastro per il critico, ma soprattutto per l’artista, se tutto fosse trasferibile in un altro linguaggio.
Barbara Fässler, 24 gennaio 2011
Il testo sarà pubblicato su “Studija”, rivista di arte conemporanea di Riga (Lettonia) in inglese e lettone.
APPROFONDIMENTI
La Scultura italiana del XX secolo
dal 21 settembre 2005 al 22 gennaio 2006
Fondazione Arnaldo Pomodoro
La scultura italiana del XXI secolo
dal 19 ottobre 2010 al 6 febbraio 2011
Fondazione Arnaldo Pomodoro
La stagione espositiva del 2011 si aprirà - dal 6 aprile al 17 luglio - con la mostra di Perino & Vele, sodalizio nato nel 1994, composto da Emiliano Perino (New York, 1973) e Luca Vele (Rotondi (AV), 1975).
In contemporanea, nei piani superiori della Fondazione si terrà una rilettura dell’Inferno di Dante, attraverso le opere di Salvador Dalì e Robert Rauschenberg. Entrambe a cura di Lorenzo Respi.
Sempre dal 6 aprile al 17 luglio 2011, la Fondazione proporrà una selezione di artisti contemporanei, tutti provenienti dalla Collezione permanente del museo.
L’UniCredit Project Room proporrà un doppio appuntamento. Il primo, dal 6 aprile al 15 maggio 2011, con la personale di Olga Schigal, "Oltre le terre fredde", a cura di Paola Boccaletti.
Marco Meneguzzo tiene la cattedra di "Museologia e gestione dei sistemi espositivi" presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. E’ stato tra i commissari della Quadriennale di Roma del 1986. E’ stato invitato a curare una sezione della Biennale di Venezia del 1993 e dal 1982 ha curato diverse mostre presso il Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano (PAC). E’ direttore artistico del MAPP, Museo d’Arte Paolo Pini di Milano. E’ giornalista pubblicista: ha collaborato a numerose riviste specializzate d’arte e di cultura come "Alfabeta", "Contemporanea", "Flash Art", "Arte", "Tema Celeste", "Abitare" e "Artforum". Ha inoltre pubblicato vari saggi inerenti soprattutto il sistema dell’arte contemporanea.
Barbara Fässler, artista zurighese, formatasi alla Villa Arson a Nizza, opera prevalentemente con i linguaggi della fotografia, del video e dell'installazione. Dagli anni '90 cura mostre per varie instituzioni (ProjektRaum a Zurigo, Istituto Svizzero a Roma, Belvedere Onlus a Milano). Scrive regolarmente per la rivista d'arte contemporanea "Studija" di Riga e insegna 'Arti visive' al liceo della Scuola Svizzera di Milano.
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