Attraversare le contingenze allargando le prospettive

06/07/2012
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Manifesta 9

In Belgio, dalle profondità del modernismo emerge una grande protagonista: la miniera di carbone. Tra neri materiali scultorei, eredità storica dei minatori e attuali visioni economiche, ecco una guida "sistematica" all'edizione 2012 della Biennale europea d'arte contemporanea.



















Di Francesca Chiacchio


Manifesta 9, curata da Cuauhtémoc Medina, Katerina Gregos e Dawn Ade si trova a Genk, ridente cittadina belga di lingua olandese e secondo comune della provincia del Limburgo. Genk, da non confondersi con la sempre belga Gent, si trova a circa un’ora e trenta di treno da Brussels. Una volta giunti a destinazione dirigetevi alla piattaforma numero 1 della stazione degli autobus (nella piazza di fronte all’uscita della stazione dei treni). Non provate a cercare segnaletiche speciali per la biennale europea, è una ricerca inutile. Non tentate nemmeno di domandare agli abitanti del luogo, perché per molti di loro questa grande manifestazione resta un mistero. L’unica persona che saprà di cosa state parlando è l’autista dell’autobus G1. Prendetelo.




Una volta saliti sull’autobus inizierete a inoltrarvi nella cittadina dai paesaggi fiamminghi e dalla popolazione più latina di tutte le Fiandre. Comunità italiane, spagnole e portoghesi la abitano dagli anni 40, certo, qualche fiammingo dalla pelle chiara e dall’ossatura robusta lo trovate anche qui, ma è più una rarità che un luogo comune.
Genk si estende per chilometri dal suo centro. In autobus potrete godervi panoramiche sui quartieri residenziali sorti attorno alle due grandi miniere: Winterslag e Waterschei, quest’ultima protagonista della nostra spedizione.
Genk è conosciuta prevalentemente per le sue due ex miniere di carbone, ma questo è un dettaglio su cui potrei sorvolare, visto che ve ne accorgerete visitando la biennale, poiché tutto ruota prevalentemente attorno a questo combustibile.
Scendendo alla fermata Waterschei vedrete il grande edificio riportante il numero 9 sulla facciata. Entrate.




Una volta fatto il biglietto (10 euro prezzo intero e 6 euro il ridotto) avrete tra le mani una guida a forma di giornale, apritela, dentro troverete le mappe e le didascalie in fiammingo e in inglese. Dotati della mappa possiamo iniziare ad addentrarci.

Il primo piano sembra dedicato a “ciò che di artistico c’era in questa terra mineraria ma di cui nessuno, fino ad ora, ha sottolineato la valenza artistica”. Forse è un po’ riduttivo detto in questi termini, anche perché trovo che tutto ciò che è qui raccolto abbia un notevole valore politico e sociale. Eppure, così presentato nei piani bassi della biennale temporanea, assume un sapore esotico che sminuisce la spontaneità e la genuinità di tutti i materiali esposti.
Per orientarvi dovete andare direttamente a pagina 28 della vostra guida.

Interessanti sono le teste anonime in carbone e patate di Manuel Durán prodotte dal 1950 e qui allestite su un cubo bianco, tutte in fila come a evocare la presenza di un esercito ben addestrato.

Di tutt’altra natura espositiva è la piccola sala dedicata al cantante Rocco Granata, figlio di un immigrato italiano, che nel 1958 scrisse la canzone Marina, rimasta tra le prime in classifica di quegli anni a livello internazionale. La sua storia viene suggerita da un jukebox, da una serie di vinili e dalle fotografie del cantante all’apice del successo.




Dall’atmosfera di un locale fine anni '50 arriviamo di fronte a un vero bancone, dove si servono birre fra le più variegate e pietanze tipiche della zona. Non si tratta del bar di Manifesta 9, non quello ufficiale almeno, ma della biglietteria provvisoria del museo della mina. Mi spiego meglio. All’interno di Waterschei esiste un museo gestito e curato da un gruppo di minatori in pensione, che raccoglie le testimonianze e gli oggetti del mestiere per raccontare la vita in miniera. Il museo prima dell’arrivo di Manifesta 9, occupava una grande ala dell’edificio, era autonomo e frequentato da appassionati e curiosi. I curatori della biennale hanno permesso agli ex-minatori di integrarlo, in parte, nel resto dell’esposizione e, dopo una negoziazione con gli ex-minatori, di tenere l’intero guadagno delle bevande e companatici per sopperire alla mancanza di un’entrata mensile dovuta alla chiusura temporanea del museo. Volendo fare di questo testo una guida per orientarsi, vi suggerisco come farebbe la Routard di fermarvi un quarto d’ora, intavolare un discorso con questi simpatici signori (che il più delle volte parlano perfettamente italiano), sorseggiare una buona birra belga e chiedere a loro di guidarvi nell’unica parte del museo rimasta accessibile. Probabilmente vi fermerete più di 15 minuti e uscirete stringendogli le mani.




Ora, lasciamoci alle spalle il primo piano (quello a pagina 28) e andiamo verso l’arte con la A maiuscola. Questo piano è stato chiamato Poetiche della ristrutturazione, poiché l’intento è quello di raccogliere alcune risposte estetiche dall’economia mondiale dai primi anni del XXI secolo.
Questa guida ne propone 10.

Risposta numero 1: produzione seriale, massificata e sottopagata
Ni Haifeng, artista cinese che vive e lavora ad Amsterdam, mette a disposizione del pubblico una fila di moderne macchine da cucire e una montagna di scampoli dalle varie tonalità di grigio come invito all’azione di produzione partecipata (solo se i guardiani sono stati avvisati).




Risposta numero 2: energia nucleare e comunità europea
Non sono sculture di Carl Andre quelle posizionate a terra in una delle meravigliose sale di Waterschei, ma pannelli di piombo realizzati dall’italiana Rossella Biscotti. L’artista ha trasformato il piombo acquistato all’asta in occasione della chiusura della centrale nucleare lituana Ignalina, nel 2009, in sculture a pavimento dal titolo Title one: the Tasks of the Community. Mentre una seconda scultura, invisibile ma determinante nella sua funzione è A Conductor, un filo di rame lavorato e portato al 99,9% di purezza, sempre proveniente dalla dismessa centrale nucleare, che conduce tutta l’energia dell’edificio di Waterschei.




Risposta numero 3: l’uomo e le macchine
Come stendardi si stagliano lungo il perimetro della grande hall, sono le stampe a carbone di Carlos Amorales impresse senza pausa da un plotter visibile in mostra.




E qui ci fermiamo con le risposte, poichè per capire dove siete collocati dovete tornare indietro a pagina 18 del vostro giornale nella parte dedicata all’eredità storica. Per eredità storica i curatori di Manifesta 9 intendono alcune opere che dopo gli anni '60 hanno inteso il carbone come materiale scultoreo e come simbolo sociale.
I cumuli liberi di Bernar Venet, i contenitori e le stampe di Marcel Broodthaers e le sculture orizzontali di Richard Long.






Per eredità storica, qui, si intende anche tutte quelle opere che hanno come protagonisti i minatori e gli scioperi. Infatti, dopo una prima passeggiata tra le sculture appena citate, si passa senza particolari indicazioni alla ricostruzione della Battaglia di Orgreave a cura di Jeremy Deller e Mike Figgis del 2001. Proseguendo, si incontrano le immagini dell’artista croato Igor Grubic, il film del 1935 di Alberto Cavalcanti, il moto costante del trenino di David Hammons, la ricostruzione dei 1200 sacchi di carbone di Marcel Duchamp e le scatole di metallo di Christian Boltanski.
Un potpourri di arte storica, eredità sociali e materiali uniti insieme da una formula curatoriale didascalica e rassicurante.
Certi, ora, di essere pronti intellettualmente per raggiungere il vertice del nostro triangolo gerarchico, saliamo all’ultimo piano (pagina 31).
Stesse domande e nuove risposte.

Risposta numero 4: in natura i sistemi democratici non sono utopia
Kuai Shen mette in mostra una comunità di formiche all’interno di una struttura trasparente e artificiale. Attraverso una specifica apparecchiatura, il rumore prodotto dall’attività costante del formicaio viene “tradotto” e registrato su due giradischi e amplificato all’interno della sala, mentre un A4 scritto a mano ci invita a rispettare il lavoro degli artisti.




Risposta numero 5: anche una società commerciale può rivolgersi all’arte
Irma Boom, famosa book designer, nel 1991 fu invitata dall’azienda specializzata nel trasporto di carbone, SHV, a realizzare una pubblicazione per gli azionisti dell’azienda in occasione del suo centenario.
Dalla collaborazione con il critico Johan Pijnappel è nato Think Book, una raccolta di storie connesse all’azienda e non solo.




Risposta numero 6: il lavoro fisico non esiste più
Partendo dai movimenti più comuni all’interno di produzioni a catena, dal 2006 Furlan Tomaž ha sviluppato una serie di macchine simili ad attrezzi per il fitness e strumenti di tortura, presentandoli con lo stesso stile degli elettrostimolatori nelle pubblicità notturne su canali televisivi regionali.




Risposta numero 7: quello che produciamo ora un domani sarà archeologia
Emre Hüner ha raccolto oggetti, piante, scarti di plastica, prodotti industriali e artigianali di diversa natura assemblandoli in sculture. Se nel presente questi prodotti hanno rappresentato la nostra civiltà capitalista, nel futuro gli stessi saranno relitti che sostituiranno la nostra romantica idea di archeologia.




Risposta numero 8: non tutto quello che vediamo è quello che conosciamo
Venti colori sintetici derivati dal catrame di carbone sono stati classificati dall’artista belga Ana Torfs. Ogni colore è descritto dal colore del vetro, da una serie di immagini numerate derivanti dalla produzione industriale delle singole tinture chimiche (le loro conseguenze, il loro uso, gli oggetti tipici etc) e da una voce femminile narrante che ne conclude la tassonomia.




Risposta numero 9: il giallo è un rischio
Un percorso che parte dalla Cina per arrivare in Messico e in Spagna. L’opera di Jota Izquierdo è divisa in due parti: video documentari del processo commerciale attraverso il quale gli oggetti prodotti in Cina vengono venduti, prevalentemente attraverso il lavoro nero e la messa in mostra degli oggetti più comuni prodotti dal mercato cinese.




Risposta numero 10: ricordare
Claire Fontaine ha portato all’interno di Manifesta 9 la riproduzione della scritta a neon della casa della cultura della città sovietica Pripyat, collocata a 3 chilometri dalla centrale nucleare di Chernobyl. La casa della cultura, che rappresentava il luogo di ricreazione per la maggioranza dei lavoratori della centrale, qui diviene un segnale di avvertimento e un invito al ricordo.




A questo punto non ci resta che chiudere la guida, scendere le scale e andare a visitare ciò che resta della miniera Winterslag non lontana dalla Manifesta 9. Un edificio che ha rappresentato il sogno economico fino alla fine degli anni '70, ora ospita una multisala, un ristorante e una discoteca. Lasciamoci alle spalle la grande miniera Waterschei nella speranza che questi investimenti biennali possano lasciare un’eredità più sostanziosa alla città di Genk e non solo.


Maggiori informazioni sul Manifesta 9


Francesca Chiacchio nasce a Milano nel 1984. Si laurea in Storia dell'arte contemporanea presso la facoltà di Scienze Umanistiche dell'Università "Sapienza" di Roma, con tesi di laurea in L'arte fa shopping. Negozi e vetrine: luoghi di sperimentazione e pretesti narrativi. Tra il 2006 e il 2009 partecipa alle attività della fondazione romana per l'arte contemporanea "Volume!" e nel 2010 con l'associazione non profit "Viafarini". Dal 2010 collabora con "La Collezione della Carrozzeria Margot". Da febbraio a giugno 2012 è stata curatrice in residenza della galleria 50°49'19.50''N 4°21'25.53''E presso l'Accademia ERG di Brussels.