Premessa : Voglia di 68? Preferirei di no
“Voglia di 68? Ancora? Perché? Non se ne può più! Prof il 68 è stato quarantasei anni fa ovvero la stessa distanza temporale che intercorre tra il 1968 e il 1922. Piuttosto voglia di 2068!”.
Questo il tono delle risposte di molti dei mie allievi, ed ex allievi, alla semplice domanda che dà il titolo al dibattito a più voci lanciato da Ermanno Cristini. Penso che le nuove generazioni sentano soprattutto il peso del legame con un periodo storico nella realtà molto lontano, e il continuo raffronto e paragone provoca in loro la stessa insofferenza nei confronti della tipica frase che ossessiona gli adolescenti “assomigli di più al papà o alla mamma?”.
Ammetto che la mia reazione immediata è stata la stessa: ecco appena si mette in campo il tema dell’impegno e della politica rispunta fuori il mitico 68! Così facendo si corre il rischio di privilegiare una lettura della contemporaneità in funzione del passato, ostacolando la rivelazione dell’inaspettato e dell’imprevedibile.
Poi incontro Ermanno e capisco che questo dibattito a più voci può essere un opportunità per motivare e argomentare il “preferirei di no”. Pertanto provo a rispondere al suo quesito:
Come può un evento del passato essere il presupposto di una nuova risposta, ovvero come è possibile riattualizzare il passato senza rimanerne invischiati e senza velleità nostalgiche e anacronistiche?
Prima di tutto penso che occorra interrogarsi su come le storia di quel decennio 1968/78 dal punto di vista dell’arte, ma non soltanto, continui ad essere scritta. Senza dubbio c’è un crescente interesse riguardo ciò che accadde, dimostrato da diverse pubblicazioni, tesi di Dottorato, grandi mostre e relativi cataloghi.
Ma a partire da quale prospettiva si rilegge l’arte degli anni 70? Al di là dei resoconti scritti, degli archivi, degli apparati bibliografici, come bisognerebbe intraprendere il passaggio ulteriore che deve fare i conti con la relazione e l’interdipendenza tra presente, passato e futuro? Quale punto di vista adottare per riuscire a turbare il passato e rimettere in gioco, liberare, i contropassati, le ipotesi mai realizzate? Come farle diventare momenti costitutivi di nuove pratiche contemporanee?
Riattualizzare il passato
Iniziamo con un esempio recente che rende evidenti e concreti questi interrogativi.
Mostra al Palazzo delle Esposizioni,
Anni 70 Arte a Roma. Finalmente nella capitale una mostra sugli anni 70, il testo di presentazione è ambizioso: “La mostra si snoderà come un racconto e le opere saranno accostate con l’idea di mettere in risalto di volta in volta un’attitudine, una disciplina, un pensiero, individuati come quelli più radicati nel decennio”.
Tuttavia si evidenzia immediata, e non soltanto ai miei occhi, una mancanza, una vera e propria esclusione: il pensiero e la pratica artistica femminista. Forse non era abbastanza radicata nel decennio?
Nella - piccola! - sezione dedicata alla politica, tra diversi altri ci sono quattro protagoniste dell’arte femminista, TommasoBinga, Verita Monselles, Cloti Ricciardi, Suzanne Santoro, non ben contestualizzate, il femminismo meritava una sezione a parte, e un po’ “buttate lì”, ad affermare comunque una presenza. Nel catalogo solo poche righe, a pag 128, pochissime immagini, e qualcosa in più su Ketty La Rocca.
Eppure, ultimamente, sono stati pubblicati due testi dedicati al rapporto tra Arte e Femminismo, uno di Raffaella Perna,
Arte femminismo e fotografia in Italia negli anni Settanta e l’altro di Marta Seravalli
Arte e femminismo a Roma negli anni Settanta.
Allora come mai persiste una rimozione lampante in occasione di una mostra così importante e istituzionale? Come mai, nonostante queste ultime ricerche, si continua a negare il rapporto tra arte e femminismo in Italia? E soprattutto come mai si continua a sottovalutare il fatto che la nascita di uno dei primi collettivi femministi in Italia, Rivolta Femminista, prese il via dall'iniziativa di due donne coinvolte nell’arte, Carla Lonzi e Carla Accardi? E ancora come mai neanche uno degli otto incontri (tutti al maschile),
I protagonisti raccontano, tenuti in occasione della mostra in collaborazione con l’Università e quindi alla presenza degli studenti di storia dell’arte contemporanea della Sapienza, è stato dedicato alla frattura che in quegli anni si apriva tra i luoghi della pratica femminista e quelli della pratica artistica e critica, vera e propria anomalia italiana?
Ecco un esempio di come si potrebbe riattualizzare il passato: non è sufficiente la narrazione di una storia, non esiste mai una direzione unica nei processi storici ed evolutivi, certo si danno sempre di volta in volta direzioni prevalenti, ma diventano tali solo attraverso punti critici nei quali si sono poste alternative possibili. Sono proprio i momenti di rottura nella narrazione, le deviazioni dalla strada principale, i nostri “contropassati”, che meriterebbero di essere indagati così da tessere altre storie, altre trame tra presente passato e futuro.
La posizione femminista italiana è stata un momento di rottura anche nell’arte, una sfida radicale che si è posta come modello di critica politica alla società capitalistica e patriarcale. Partendo dalla presa di coscienza della differenza di genere, rispetto al modello emancipazionista americano fondato sul principio dell’uguaglianza, la critica femminista italiana ha dichiarato la necessità di un'assenza dal sistema dell’arte già colonizzato dal patriarcato e fondato su principi di autorità, e ha rivendicato la differenza come valore e punto di forza per rimettere tutto in discussione, anche l’Arte.
Portare alla luce il lavoro di molte artiste degli anni Settanta, ancora poco note, vedere le potenzialità delle ricerche visuali di quegli anni, spesso fondate e pensate all’interno di una soggettività collettiva, una rete anche affettiva, in opposizione a una critica d’arte centrata, al contrario, sull’affermazione di grandi personalità, su personaggi eroici produttori di vere e proprie mitologie artistiche, ci porterebbe già a riconsiderare le potenzialità di una prospettiva di studi di genere in Italia, ancora negata anche a livello di studi universitari.
Velleità nostalgiche
Cito da Ermanno Cristini “La mostra allestita a Venezia a Cà Correr della Regina dalla fondazione Prada, in occasione della 55° Biennale, che ripropone la mostra bernese del ’69, ci sbatte in faccia improvvisamente i “cinquant’anni fa” e si può leggere come uno dei segnali forti di una contemporaneità alla ricerca di senso.” Ecco un esempio di lettura condizionata dalla nostalgia, perché la mostra di Celant è molto lontana dal voler riproporre, come Ermanno dice, “Senso del fare come forma di un senso dell’essere, e viceversa”.
When Attitudes Becomes Form Bern1969/ Venice 2013, curata dal trio Germano Celant,Thomas Demand, Rem Koolhas, effettivamente ci rivela tutta la distanza tra ora e cinquat’anni fa, ma lo fa raggelando lo spazio e il tempo che ci divide dalla mitica mostra di Harald Szeeman, e ponendola definitivamente in formalina!
Scegliendo di racchiudere in scala 1:1 le stanze della Kunsthalle di Berna nell’architettura di Ca Corner Celant crea una strana collisione che in me ha generato la sensazione di trovarmi all’interno di un plastico costruito in maniera artigianale. Così, in un primo momento, a caldo, ho suscitato grandi risate e diversi consensi, affermando che mi sembrava di essere a “Porta a Porta”, nel salotto televisivo di Bruno Vespa, dentro uno dei famosi plastici che minuziosamente ricreano, dai termosifoni, alle tubature e al pavimento, la scena di un delitto.
Forse sono le linee tratteggiate in terra, che segnalano opere non prestate o non più esistenti, a rimandare al teatro di un omicidio... Ma non bisogna mai trascurare una intuizione! Effettivamente ancora di più guardando le foto ufficiali della mostra, che escludono la presenza umana, si capisce di trovarsi davanti a un plastico un po’ maniacale di Thomas Demand, la ricostruzione di un luogo, (com’è tipico nel suo lavoro, sempre in scala 1:1 ma a Venezia in un processo a ritroso, dalla foto al modello) teatro di un evento storico importante, in questo caso la Kunsthalle di Berna nel 1969.
Ed è grazie a Thomas Demand che Celant riesce a trattare l’intera mostra come un ready made, qualcosa di già fatto e di ricontestualizzato in maniera da non cadere, come lui stesso dichiara, nella trappola della nostalgia.
Tuttavia la distanza temporale e la voluta sensazione di spaesamento (nonché di fastidio causato dai mille richiami dei custodi stressati) creano un senso di estraneità e impossibilità. La mostra originale diventa o un oggetto da studiare - al piano terra dove sono esposti video e documenti d’archivio - o qualcosa che appartiene a un tempo irrevocabile, che ci esclude e ci separa generando comunque nostalgia nei confronti di quel mitico evento.
Così alla fine mi sembra che il punto di vista suggerito da Celant sia: non potrà mai esserci una generazione come la nostra, ormai non potrà mai più esserci un'economia “esistenziale” dell’arte fuori dal mercato, il passaggio al capitalismo di stampo aziendale è ormai irreversibile e la Fondazione Prada e il business legato all’arte lo dimostra!
Questo è ciò che ho visto e capito io che nel 68 avevo solo pochi anni!
Marcella Anglani è storica dell'arte, insegna ultime tendenze dell'arte contemporanea all'Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, scrive su riviste specializzate
Questo testo è parte del dibattito "Voglia di '68?" avviato da Ermanno Cristini sulle pagine di UnDo.Net, a cui stanno contribuendo artisti e curatori...
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