GUIDA A NOTE PER UN COLLASSO MENTALE
di
Antonio Caronia
Come si fa a portare Ballard a teatro? E perché portarlo a teatro? Il Ballard più terremotante e insicuro che ci sia, poi, quello degli anni 1960, quello della sua fase più delirante e provocante, quello di
The Atrocity Exhibition. Ammesso che ci siano delle ragioni per rileggere questo Ballard a quarant’anni di distanza, bisogna vedere poi perché tradurlo in movimenti di corpi dal vivo, in musica dal vivo, in video, in una scelta di parole (di Ballard) tessute dentro quei suoni, quei video, quei movimenti. Sono due problemi diversi, evidentemente, ma collegati.
The Atrocity Exhibition va letto (o riletto) e amato, perché è uno dei documenti più spaventosi e lucidi (e dunque belli) del breve e intenso momento in cui la nostra vita di ipermoderni o tardomoderni (o postmoderni, se vi piace di più questo insulso termine) cominciò: gli anni 1960. Che siate nati in quegli anni o poco dopo, che aveste già vent’anni a quell’epoca o che li abbiate adesso, quegli anni vi riguardano. Sono la vostra data di nascita immaginaria, e quindi tanto più reale, quella in cui avete cessato di essere dei soggetti “moderni” o non lo siete mai stati, quella in cui siete sfuggiti a Joyce e a Picasso, al cinema visto su un grande schermo dentro una sala buia e alla drogheria sotto casa del signor Davide, alla grande fabbrica e al “territorio”, per entrare in un mondo tutto diverso. Il mondo della produzione just in time, del lavoro precario, dell’immaginario come forza produttiva, del rifiuto della politica, della tecnologia sotto la pelle, della nuova religione della comunicazione e della nuova categoria filosofico-scientifica della “informazione”. Se molto di tutto questo (o anche la sua totalità) è venuto dieci, venti, trent’anni dopo, negli anni 1960 era già in incubazione. E lo era perché si era definitivamente conclusa la seconda guerra mondiale; e le sue inenarrabili atrocità, da Auschwitz alla bomba di Hiroshima, potevano finalmente produrre le loro repliche farsesche (anche se altrettanto disgustose e perturbanti): l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, il suicidio di Marilyn Monroe, il primo disastro dell’Apollo. L’insensatezza della storia era finalmente sotto gli occhi di tutti, non era più solo l’incubo privato di James Joyce. Ballard lesse tutto questo per noi, e ci donò la sagra più acida e inquietante della desoggettivazione tardomoderna. In anticipo di qualche decennio sulla storia. Poté farlo grazie a un’acutissima sensibilità, a un’infanzia dolce e agiata sotto le ali del colonialismo seguita da un’adolescenza coatta ma protetta in un campo di concentramento, a un incontro con una cultura che parlava la sua lingua ma gli era incomprensibile, alla moderata esaltazione per i crazy years (gli anni 1960, appunto) acremente e prematuramente infranta dalla morte della moglie. Poté farlo grazie alla sottile inquietudine che lo accompagnò per tutta la vita, allo sguardo mobile e sornione che quell’inquietudine gli regalava, a una tempra morale saldissima. Non si sopravvive più di cinquant’anni a Shepperton se non si dispone di un armamentario di questo genere.
Tradurre Ballard in immagini è un’operazione rischiosa – più che per altri autori. Il rischio maggiore è la banalizzazione, il didascalismo, il commento pedissequo. Se ogni scrittura (forse) è la traduzione in parole (evocative o descrittive, epiche o liriche, stranianti o quotidiane) delle immagini che si sono depositate nel ricordo dello scrittore e della loro successiva elaborazione mentale, ci sono autori in cui questa fonte immaginaria della parola è raddoppiata, triplicata o peggio, è stratificata in un sistema complesso, in cui i diversi piani di immagini verbalizzate comunicano tra loro per traiettore oblique, per sentieri dissimulati, costellati di trappole e di falsi percorsi. Ballard è un autore di questo tipo. Fra i suoi testi,
La mostra delle atrocità è quello in cui questa stratificazione è più complessa, affascinante e ingannevole. Sono almeno tre (ma forse di più) i piani nei quali è organizzato il sistema di immagini verbalizzate di questi condensed novels...
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NOTE PER UN COLLASSO MENTALE
Di
Francesca Marianna Consonni (marzo 2011)
Questa nuova produzione di PhoebeZeitgeistTeatro è molte cose insieme: un recital concitato di un testo attualissimo, un progetto di discussione attorno ai migliori e ai peggiori sentimenti della contemporaneità, un’ecografia al ventre gravido dell’immaginario, il quale ha tempi di gestazione inimmaginabili, immediati o epocali. Lo sguardo con cui Giuseppe Isgrò si è dedicato allo studio di Ballard è stato quello di farne risuonare le capacità anticipatorie scagliandole sulla tragedia della loro piena realizzazione, alla luce dei nostri giorni, ora che la nostra capacità connettiva supera la nostra capacità emotiva, che il nostro corpo è sempre ufficialmente altrove, che i nostri spazi di vita sono strozzati tra le architetture dei nostri desideri e che i nostri desideri sono stati subaffittati, esternalizzati o appaltati a terzi.
Il testo sperimentale
The Atrocity Exhibition, che Ballard ha scritto in prima edizione nel 1970 è esso stesso un’esplosione di immagini tutte indipendenti e tutte profondamente collegate da una dimensione erotica subliminale costante. E’ il racconto della vita segreta delle immagini e del loro dissennato accoppiarsi per liberare senso, tempo, e quelle alterazioni psichiche collettive che noi viviamo come “normalità”. Ed è il racconto di come l’intenso traffico di questi corpi evanescenti, parallelo a congestioni e funzionamenti del nostro sistema nervoso, abbia una dimensione effettiva, un effetto carnale, un destino vitale: l’immagine della violenza, della guerra, del dolore sono le appendici visive di un sistema che ci contiene e che spinge incessantemente per la propria conservazione, anche e nonostante la nostra singola caducità.
Con l’amore e con la violenza noi seminiamo noi stessi nel mondo; ogni immagine pubblica di amore e di morte è una spora di questa semina. “
Nelle menti più forti i contenuti concettuali si collegano alla profondità del sesso”; in questa indicazione, contenuta nella prefazione dedicata al romanzo di Ballard, William S. Burroghs scocca la freccia che attraversa tutto anche tutto lo spettacolo.
Gli attori sono costantemente dentro e fuori i propri ruoli, dentro e fuori pazzia e normalità, malattia e cura, ma più propriamente gli attori di questo progetto sono testo. Essi non sono mai personaggio e sono per tutto il tempo in scena come significanti. Ecco perché il lavoro di PhoebeZeitgeistTeatro appare sempre forte e tutto proiettato in avanti, poiché instilla fugacemente la visione dell’oggi come psicoattiva e responsabile di tutti i nostri futuri immaginari.
La messa in scena è infatti abilissima nel richiamare nella mente di chi osserva, immagini note e familiari, clichè, icone e intimità descritte “aldilà del desiderio”, come Carmelo Bene ha definito la pornografia. Il regista ha infatti inanellato alcuni dei frammenti de La mostra delle atrocità, costruendo una preziosa sequenza in cui ogni cosa è ribaltata o distorta ad arte: il sesso, il porno, la follia, il mito, la femmina, la guerra, la chirurgia estetica, la malattia, la ferita, la scienza, la morte sono ora paradossi estetici, ora paradigmi rovesciati della funzione politica della visione e dell’arte, o artificio, che la pratica.
Ulteriori distorsioni eccellenti sono presenti sulla scena, a sottolineare come tutto possa essere contemporaneamente dolorosamente retto e squisitamente inverso: l’incredibile suono di Alessandra Novaga che infilza la sua dolcissima chitarra classica con un archetto da viola, mosso come l’ago che cuce ogni frammento della scena, per tutta la durata dello spettacolo; le immagini video di Francesca Cianniello che emergono nel racconto come delle persistenze retiniche di immagini della mente e la voce di Nicola Stravalaci che recita, emolliente tra una botta e l’altra, le note di commento che Ballard stesso ha scritto negli anni novanta. Infine, opera nell’opera, le maschere di Giovanni De Francesco, una fusione bellissima di umano, animale e geometria, sono esse stesse immagini della mente, ambigue e desiderabili e appaiono, come tanti momenti di questo spettacolo, surrealtà dall’aspetto candido, erotico, austero, pericolosissimo.
Note per un collasso mentale
Partitura per voci, corpi, chitarra, live electronics e altro, liberamente ispirata all'opera di James G. Ballard. Uno spettacolo di Phoebe Zeitgeist. Gli anni '60, il pop, il surrealismo, il regime ambiguo della sanità mentale, la seduzione, con la sua parte vivace e con quella mortifera.
Maggiori informazioni sullo spettacolo
Antonio Caronia (Genova, 1944 - Milano, 30 gennaio 2013) è stato saggista e giornalista di letteratura fantascientifica, docente all'Accademia di Belle Arti di Brera e alla NABA, Director of Studies del M-Node del Planetary Collegium di Plymouth, traduttore di romanzi di Ballard, Dick, Luther Blissett, Gibson.
Francesca Marianna Consonni ha diretto il dipartimento educativo della Civica Galleria d'Arte Moderna di Gallarate, oggi MAGA. E' curatrice di mostre e workshop, co-direttrice di IN-Deposito Malpensa dedicato alla parte non funzionale degli archivi degli artisti contemporanei. Nel 2010 è entrata in PhoebeZeitgeistTeatro come curatrice e dramaturg.