I colori dell'immaginazione. Doppia mostra che rappresenta gli estremi di un dialogo ideale che trascende il tempo immanente. Due generazioni apparentemente distanti si riuniscono nelle linee e nei colori.
Due differenti proposizioni all'interno di una medesima ipotesi pittorica, una ricerca di estetica radicale diretta verso una sintesi visiva compendio di esperienze praticate nell'attualità dell'anacronismo. Lucio Ranucci e Rubens Fogacci si incontrano agli estremi di un dialogo ideale che trascende il tempo immanente, l'uno diviene – di volta in volta – interlocutore dell'altro, libero e prigioniero, dentro e fuori la dimensione dell'irreale realtà vera. L'orizzontalità cronologica, narrativa, si sgretola e si infrange contro la verticalità di un tempo interno all'immagine, privo di smagliature o cedimenti perché eterno nel perdurante “qui e ora” della rappresentazione. L'esperienza biografica intensa, avventurosa di Ranucci, vissuta attraverso Paesi che lo hanno visto occupato nei mestieri più disparati, ritrova il proprio naturale correlativo oggettivo nella sua pittura, estrema e rigorosa, dai tratti duri, spigolosi, ma così incisiva e icastica in una lettura che si spinga oltre e al di là della soglia del visibile. Sono i colori a determinare i movimenti dialettici del pensiero, ad espandere e spezzare le tensioni che creano le forme, i rapporti dimensionali nello spazio. Più volte, considerando le proprie opere cinematografiche, Michelangelo Antonioni diceva che la storia, la narrazione, non era altro che un fatto, un puro accadimento, mentre era il colore, nel suo rapporto con i vari tempi e dimensioni dell'immagine, a stabilirne la qualità. Allo stesso modo, probabilmente, in Ranucci dove la reiterazione del soggetto (la donna che legge, l'interno con i due amanti, le varie scene di mercato) è pretesto per una più ampia analisi dei rapporti e delle situazioni umane: la storia narrata diviene simbolo e referente di una Storia universale, visione e interpretazione di un'intera commedia umana, per dirla con Balzac. L'accostamento ardito di colori violenti, pieni, contribuisce a costruire uno speciale senso di saturazione dello spazio di ascendenza cubista, solidamente bilanciato in nuclei cromatici che articolano l'immagine scomponendola in piani animati progressivi. Caratteristica fondamentale che riguarda ogni personaggio dipinto da Ranucci è la totale assenza di sguardo: attraverso due semplici cavità nere il volto si riappropria della maschera, recuperando il significato profondo che la parola “pròsopon” aveva nella civiltà classica: la persona, l'anima, la reale essenza dell'individuo. Il maestro produce così una sorta di umana archeologia contemporanea, una analisi storica che sorpassa il tempo sbriciolandolo nell'istante
universale. Oltrepassando quegli occhi scavati, come nello specchio di Alice, si percorrono idealmente cunicoli collegati a mondi paralleli, aperti infine sugli occhi grandi e spalancati dei volti dipinti da Fogacci. Assonanti con lo stile di maestri del disegno e dell'animazione – Bozzetto e Pagot su tutti – sono sguardi che dispiegano lo stupore surreale di immagini misteriose, venate da una malinconia sottile e pervasiva, autentica protagonista della pittura dell'artista. Anche qui, come in Ranucci, sono i colori a dimensionare lo spazio, a porzionare la scena in frammenti da tradurre per riuscire a decodificare un linguaggio stratificato, complesso e pure diretto e immediato. La presenza, all'interno del medesimo campo visivo, di elementi stranianti e incongrui trasporta l'immagine in una dimensione onirica, di ovattata sospensione temporale: il dettaglio diviene simbolo, la visualizzazione della scena è allegoria che oltrepassa la staticità del tempo. La negazione della verosimiglianza conduce progressivamente verso l'illusione di una realtà immaginaria: gli oggetti paiono di cera, i corpi sembrano sul punto di disciogliersi e confondersi in una sorta di “pittura patafisica” che trattenga, per intera, una propria coerente logicità all'interno di un supposto mondo ipotetico. Qua risiede, probabilmente, una delle migliori qualità della pittura dell'artista: sapere ricollocare la storia dell'uomo nella sua proiezione metastorica, restituire l'individuo all'inconsapevolezza del sogno, alla sua natura poetica e mistica, raccontando con naturalezza il paradosso della visione.
(Introduzione mostra a cura di Alberto Gross)
La fortuna di un critico d'arte sta nel trovare sulla propria strada grandi talenti. Ma la fortuna, come diceva Machiavelli, è inutile se poi non abbiamo la virtù di saperla sfruttare. Da qui il mio impegno rivolto alla massima diffusione delle opere del giovane ma già noto artista Rubens Fogacci, il cui linguaggio pittorico riesce a colpire l'attenzione del pubblico degli appassionati d'arte ormai da diversi anni.
Nelle sue tele troviamo la magia che da sempre accompagna le opere dei grandi artisti che portano lo spettatore a guardare al di là di quello che l'occhio vede, rendendolo partecipe del racconto dell'opera. Se dovessi descrivere i personaggi di Rubens con delle metafore, dovrei sezionare in due la figura per analizzarne prima il corpo e poi il volto. Vorrei paragonare i corpi dei suoi uomini e delle sue donne ad un’opera architettonica che perda la sua funzionalità, strumento di scienza ,per diventare un’architettura fantastica, strumento della metafisica, che possa permettere di accedere al mondo più profondo, all’inconscio, diventando così una violazione solenne di un divieto, quello che impone di non fantasticare e di seguire il principio di realtà.
Di rimando mi riferisco al genio di Gaudì, alle sue forme sinuose che riconducono al sogno, al fantastico , al magico, in maniera infantile, lasciandosi andare alle forme dell’inconscio, dell’onirico, alle inquiete e sottili equivocità dei mondi sublimati, per dar luogo ad un realismo magico, in cui ogni individuo fantasticando ritrova ciò che a lui è più congeniale, sconfinando così negli abissi della sua psiche , del suo Io e mettendo addirittura in dubbio ciò che fino ad allora credeva fosse certo ed assoluto.
E se parliamo di architettura vivente nei corpi dell’artista, il collegamento all’antroposofia Staineriana viene spontaneo, e ritroviamo la sensualità e sinuosità della linea curva, quel naturale senso di accoglienza che toglie la barriera che separa l’osservatore dai personaggi di Rubens, che diventano figure già note e familiari.
E adesso veniamo al volto: mi viene naturale un richiamo all’artista maledetto per eccellenza, Modì, per quell’importante naso, l’utilizzo espressionista del colore, la linea sinuosa, la pennellata costruttiva che rimandano necessariamente a lui, accomunando la loro pittura introspettiva che rimanda all’inconscio dell’artista, alla condizione umana, alle difficoltà dell’esistenza.
Con la sua pittura rubens consegue ad un tempo due risultati, quello estetico, per la piacevolezza del tratto e dei colori, e quello filosofico, che dalla " Venere " di Botticelli in avanti ha caratterizzato gli artisti che hanno voluto una rappresentazione concettuale della figura umana.
(critica a cura di Giorgio Gregorio Grasso)
Inaugurazione sabato 14 Dicembre 2013 ore 18
Galleria Wikiarte
via San Felice 18, Bologna
Dal mercoledì al sabato ore 11 - 19 orario continuato e martedì e domenica ore 15 - 19
Ingresso libero